ERNESTO CHE GUEVARA: LA COERENZA DI UN PENSIERO RIVOLUZIONARIO CHE DIVENTA AZIONE.

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In ricordo di tutti coloro che, in ogni parte del mondo, hanno lottato e lottano contro l’oppressione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Contro il capitalismo e l’imperialismo che continuano a fare guerre seminando morte, miseria e schiavitù fra gli operai, i lavoratori e i popoli del mondo.

 

L’8 ottobre 1967 in Bolivia il Che venne ferito e catturato da un reparto anti-guerriglia dell'esercito boliviano - assistito da forze speciali USA costituite da agenti speciali della CIA - a La Higuera, provincia di Vallegrande, Bolivia.

Il giorno dopo, il 9 ottobre, fu ucciso nella scuola del villaggio. Il suo corpo - dopo essere stato esposto al pubblico a Vallegrande - fu mutilato delle mani e sepolto in un luogo segreto: verrà ritrovato da una missione di antropologi forensi argentini e cubani nel 1997. Da allora i suoi resti , insieme a quelli di alcuni dei suoi compagni, si trovano nel Mausoleo di Santa Clara a Cuba.

Nella ricorrenza del suo assassinio vogliamo ricordarlo con uno scritto di Saramago.

 

Breve meditazione su un ritratto del Che Guevara

di José Saramago (2003)

Non importa quale ritratto. Uno qualsiasi: serio, sorridente, con un’arma in mano, con Fidel o senza Fidel, mentre pronuncia un discorso alle Nazioni Unite o morto, a torso nudo e occhi semiaperti, come se dall’altra parte della vita volesse ancora accompagnare il cammino del mondo che dovette lasciare, come se non si rassegnasse a ignorare per sempre la strada delle infinite creature che stavano per nascere.

Su ognuna di queste immagini si potrebbe riflettere profusamente, in modo lirico o drammatico, con l’oggettività prosaica dello storico, o semplicemente come chi si mette a parlare dell’amico che scopre di aver perduto perché non è riuscito a conoscerlo …..

 

Nel Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e Caetano arrivò un giorno il ritratto clandestino di Ernesto Che Guevara, il più famoso di tutti, quello fatto a forti tinte di nero e rosso, che diventò l’immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie così fertili che mai sarebbero degenerate nella routine o nello scetticismo, che avrebbero dato luogo ad altri trionfi, quello del bene sul male, quello del giusto sull’iniquo, quello della libertà sulla necessità.

 

Incorniciato o attaccato alla parete con mezzi precari, quel ritratto presenziò - in terra portoghese - a dibattiti politici appassionati, esaltò argomenti, attenuò sconforti , avvolse speranze. Fu visto come un Cristo disceso dalla croce per liberare l’umanità dalla croce, come un essere dotato di poteri assoluti capace di estrarre da una pietra l’acqua con cui distruggere tutta la sete, e di trasformare quella stessa acqua nel vino con cui bere allo splendore della vita. E tutto ciò era vero perché il ritratto del Che Guevara era, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell’essere umano.

Ma fu anche usato come addobbo incongruente in molte case della piccola e media borghesia intellettuale portoghese, per i cui membri le ideologie politiche di affermazione del socialismo non erano altro che un mero capriccio di periodo, una maniera suppostamente rischiosa di occupare ozi mentali, frivolezza mondana che non poté resistere al primo scontro con la realtà, quando i fatti vennero a chiedere la realizzazione delle parole.

Allora il ritratto del Che Guevara, prima testimone di tanti infiammati annunci di impegno e di azione futuri, giudice – adesso – della paura nascosta, della rinuncia codarda o del tradimento aperto, fu tolto dai muri, nascosto, nella migliore delle ipotesi, sul fondo di un armadio, o distrutto come qualcosa di cui aver vergogna.

 

Una delle lezioni politiche più istruttive, al giorno d’oggi, sarebbe sapere cosa pensano di se stessi quelle migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo tennero un giorno il ritratto del Che sopra il letto, o di fronte alla scrivania e nella stanza dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver finto di credere. Qualcuno direbbe che la vita è cambiata, che il Che Guevara – perdendo la sua guerra – ci fece perdere la nostra e quindi era inutile mettersi a piangere, come un bimbo che ha rovesciato il latte. Altri confesserebbero che si lasciarono coinvolgere da una moda del tempo, la stessa che fece crescere le barbe e allungare i capelli, come se la rivoluzione fosse una questione di parrucchieri. I più onesti riconoscerebbero che il cuore gli fa male, che sentono il movimento perpetuo del rimorso, come se il corso della loro vera vita si fosse interrotto e ora domandasse loro, ossessivamente, dove pensano di andare senza ideali né speranze, senza un’idea di futuro che dia un senso al presente.

 

Che Guevara, se così si può dire, esisteva già prima di nascere; Che Guevara, se così si può affermare, continua ad esistere anche dopo morto. Perché Che Guevara è solo l’altro nome di ciò che di più giusto e degno esiste nello spirito umano. Ciò che tante volte vive addormentato dentro di noi. Quello che dobbiamo risvegliare per conoscere, per unire l’umile passo di ciascuno al cammino di tutti

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