L'ECONOMIA VERDE

I padroni della “economia verde”

di Silvia Ribeiro (*); da: surysur.net; 15.1.2012

 

Si potrebbe pensare che la più verde delle proposte di “economia verde”, che guadagna terreno in vari ambiti ufficiali, principalmente nei negoziati verso la conferenza internazionale Rio+20, sia il colore dei biglietti che sperano di guadagnare con essa le società multinazionali che hanno causato le crisi economica, alimentare, ambientale e climatica.

Questa è una delle conclusioni che discendono al realizzare che sono le stesso società che controllano le tecnologie, le patenti, i prodotti e i mercati dell’economia verde.

Non si tratta soltanto degli oligopoli che conosciamo e che intravedono nuovi affari. Invece entrano in scena nuove configurazioni corporative che riuniscono le principali società petrolifere, chimiche, farmaceutiche, forestali e dell’agroindustria con nuove società di biologia sintetica e genomica per lavorare qualsiasi tipo di biomassa, che sia naturale o coltivata, e trasformarlo in combustibile, foraggio, plastica o altre sostanze industriali, prospettando uno scenario in cui qualsiasi cosa “verde” (che sia o sia stata viva) potrà diventare una proprietà di queste corporazioni da cui estrarre profitti con qualche uso industriale.

 

 

Più che una “economia verde”, la congiunzione tra oligopoli e nuove tecnologie sta portando ad un assalto corporativo senza precedenti della natura, di ciò che è vivo, dei sistemi di alimentazione e dei territori della cultura contadina e indigena che, ironicamente, si presenta come una nuova tappa dello “sviluppo sostenibile”.

Il recente rapporto del gruppo ETC mostra che la tendenza verso la concentrazione corporativa globale continua, favorita anche dalle crisi.

Sebbene in diversi dei settori analizzati c’è una stagnazione della crescita, e persino meno entrate, i profitti delle corporations si sono mantenuti perché, secondo la loro stessa definizione, “hanno fatto di più con meno”. Con meno lavoratori, meno prestazioni e diritti dei lavoratori, meno attenzione per l’ambiente e per la salute.

Nel caso della catena alimentare agroindustriale, dalle sementi e forniture agrochimiche alla distribuzione, lavorazione e vendita nei supermercati, i profitti sono aumentati con la crisi alimentare e climatica, in alcuni casi in forma esponenziale, grazie alla manipolazione dell’offerta, alla sparizione dei concorrenti, ai sussidi pubblici per i disastri (per ripiantare raccolti distrutti, per aiuti alimentai, ecc.).

 

E’ drammatico e assurdo che, per quanto riguarda le sementi - chiave di tutta la catena alimentare – una sola società, la Monsanto, controlli il 27% di tutte le sementi commerciali su scala globale (e più dell’80% delle sementi transgeniche) e che, con altre due società, Syngenta e DuPont-Pioneer, controlli più della metà del mercato mondiale delle sementi.

Le sementi e i veleni chimici che queste società vendono sono la base dell’agricoltura e dell’allevamento industriali che hanno distrutto suoli, contaminato le acque e provocato la maggior parte della crisi climatica globale.

 

Verso il controllo totale (e che gli si paghi il prezzo)

Adesso si danno da fare per il monopolio di quelle che chiamano “sementi resistenti al clima” – siccità, cambi di temperatura, inondazioni – sostenendo che insistendo nello stesso modello, con meno regole di biosicurezza, con più patenti a loro favore e più appoggi da parte dei governi alle società, adesso sì che usciremo dalla crisi che esse stesse hanno costruito.

All’altro estremo della catena alimentare, le grandi superfici di vendita diretta al consumatore (supermercati) sono cresciute a tal punto che, nel 2009, hanno superato il mercato totale dell’energia, il maggiore del mondo per decenni.

Questo significa un brutale controllo corporativo di che cosa, quando, come, con quale qualità, dove e a che prezzo si producono e consumano gli alimenti e molti altri prodotti della vita quotidiana.

Nel rapporto del gruppo ETC si analizza anche il controllo corporativo in altri settori, come l’acqua, il petrolio e l’energia, l’estrazione mineraria e i fertilizzanti, la forestazione, la farmaceutica la veterinaria, la genetica animale, la biotecnologia, la bioinformatica, la generazione e conservazione dei dati genomici.

Uno degli aspetti più preoccupanti è l’impatto dell’avanzamento nell’uso di biomasse, attraverso nuovi sviluppi corporativi e tecnologici.

 

Ad esempio, la società di biologia sintetica Amyris, con sede in California e Brasile, è associata a Procter & Gamble, Chevron, Total, Shell, Mercedes Benz, Michelin, Bunge e Guarani nella produzione di combustibili e sostanze industriali.

In Brasile è già riuscita ad ottenere che venga permessa la produzione di combustibili a partire dalla fermentazione dei derivati zuccherini di biomassa, con microbi prodotti artificialmente la cui eventuale fuga costituisce una grave rischio (consumano la cellulosa, presente in tutta la materia vegetale), che in nessun modo viene contemplato nelle misure di sicurezza. Ma questo è uno degli “esempi” di economia verde in Brasile.

Un altro esempio è l’associazione tra DuPont, il gigante petrolifero BP e le società produttrici di cereali General Mills e Tate & Lyle (Bunge), che oltre che biocombustibili producono ora combustibili derivati dalle alghe.

O la costellazione Dow Chemicas con Chevron, Unilever, Bunge, la marina e l’esercito degli Stati Uniti che circonda la società di biologia sintetica Solazyme per trasformare “zuccheri di basso costo in olii di alto valore”, che potrebbero servire come combustibili, alimenti e molti altri prodotti.

 

Tutto ciò rappresenta nuovi rischi, ma anche un aumento vertiginoso della domanda di biomasse, terra, acqua e sostanze nutritive, cosa che esige che denunciamo queste proposte per quello che sono: nuove forme di spoliazione.

 

(*) Ricercatrice

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

 

 

 

 

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