UCRAINA: SCONTRO USA-RUSSIA

 

Linee rosse in Ucraina e dappertutto

 

di Noam Chomsky (*); da: rebelion.org; 5.5.2014 

 

L’attuale crisi in Ucraina è seria e minacciosa, tanto che alcuni commentatori  la paragonano alla crisi dei missili a Cuba del 1962

 

Il giornalista Thanassis Cambanis riassume il succo del problema in The Boston Globe: “L’annessione della Crimea da parte (del presidente russo Vladimir) Putin è una rottura dell’ordine su cui gli Stati Uniti e i loro alleati confidano dalla fine della guerra fredda, in cui le grandi potenze intervengono militarmente solo quando hanno a loro favore il consenso internazionale  o, in assenza di esso, quando non attraversano le linee rosse di una potenza rivale”.

 

Di conseguenza il crimine internazionale più grande di questa era, l’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna, non è stato una rottura dell’ordine mondiale perché, anche se essi non ottennero l’appoggio internazionale, non attraversarono linee rosse russe o cinesi.

 

Al contrario, l’annessione russa della Crimea e le sue ambizioni in Ucraina attraversano linee statunitensi.

 

Di conseguenza, Obama si concentra nell’isolare la Russia di Putin, tagliando i suoi legami economici e politici con il mondo esterno, limitando le sue ambizioni espansioniste alle sue immediate vicinanza e trasformandola di fatto in uno Stato paria, ci dice Peter Baker su The New York Times.

 

Insomma, le linee rosse statunitensi sono saldamente piantate sulle frontiere della Russia. Quindi le ambizioni russe verso il proprio vicinato violano l’ordine mondiale e creano crisi. 

 

Questa tesi è un’applicazione generale. A volte si permette ad altri paesi di avere linee rosse sulle loro frontiere (dove si situano anche le linee rosse degli Stati Uniti). Ma non all’Iraq, ad esempio. Né all’Iran, che Washington minaccia continuamente di attacchi (nessuna opzione viene tolta dal tavolo)

 

Queste minacce violano non solo la Carta delle Nazioni Unite, ma anche la risoluzione di condanna alla Russia dell’Assemblea Generale, che gli Stati Uniti hanno appena firmato. La risoluzione inizia sottolineando che la Carta dell’ONU proibisce la minaccia o l’uso della forza in problemi internazionali. 

 

Anche la crisi dei missili a Cuba mise in rilievo le linee rosse delle grandi potenze.

 

Il mondo si avvicinò pericolosamente alla guerra nucleare quando l’allora presidente John F. Kennedy rifiutò l’offerta del primo ministro sovietico Nikita Krushov di mettere fine alla crisi tramite un pubblico e simultaneo ritiro dei missili sovietici da Cuba  e dei missili statunitensi in Turchia. (Era già programmata la sostituzione dei missili degli Stati Uniti con i sottomarini Polaris, molto più letali, parte dell’enorme sistema che minaccia di distruggere la Russia).

 

Anche in quel caso le linee rosse degli Stati Uniti erano sulla frontiera della Russia, il che era un fatto accettato da tutti coloro che erano coinvolti. 

 

L’invasione statunitense dell’Indocina, come quella dell’Iraq, non attraversò linee rosse, come neppure lo fecero altre depredazioni statunitensi nel mondo.

 

Va ripetuto questo fatto cruciale: a volte si permette agli avversari di avere delle linee rosse, ma sulle loro frontiere, dove sono collocate anche le linee rosse statunitensi. Se un avversario ha ambizioni espansioniste nel suo vicinato e attraversa le linee rosse statunitensi, il mondo affronta una crisi. 

 

Sul numero attuale della rivista International Security, del MIT di Harvard, il professore Yuen Foong Khong dell’Università di Oxford spiega che esiste una lunga ( e bipartisan) tradizione nel pensiero strategico statunitense: governi successivi hanno sottolineato il fatto che interesse vitale degli Stati Uniti è prevenire che un’egemonia ostile domini qualcuna delle principali regioni del pianeta.

 

C’è oltretutto il consenso sul fatto che gli Stati Uniti debbano mantenere il loro predominio, perché l’egemonia statunitense è quella che ha sostenuto la pace e la stabilità regionali, eufemismo che si riferisce alla subordinazione alle richieste statunitensi. 

 

Stando così le cose, il mondo la pensa in modo diverso e considera gli Stati Uniti uno Stato paria e la più grande minaccia alla pace mondiale, senza che nei sondaggi emerga un competitore neppure vicino.  

 

Ma, cosa sa il mondo? 

 

L’articolo di Khong si riferisce alla crisi causata dall’ascesa della Cina, che avanza verso il primato economico in Asia e, come la Russia, ha ambizioni espansioniste riguardo il suo vicinato, attraversando così  le linee rosse statunitensi. Il recente viaggio del presidente statunitense Barak Obama in Asia aveva l’obiettivo di riaffermare la lunga (e bipartisan) tradizione, in linguaggio diplomatico. 

 

La quasi universale condanna dell’Occidente a Putin si riferisce al discorso emotivo con cui il governante russo ha spiegato con amarezza che gli Stati Uniti e i loro alleati “ci hanno ingannati più e più volte, hanno preso decisioni alle nostre spalle e ci hanno presentato fatti compiuti, con l’espansione della NATO in Oriente, con l’installazione di infrastrutture militari alle nostre frontiere. Ci dicono sempre lo stesso: ‘Questo non  ha niente a che vedere con voi’ ”.

 

 Le lamentele di Putin hanno una radice nei fatti.

 

Quando il presidente sovietico Mikail Gobaciov  accettò l’unificazione della Germania come parte della NATO – concessione stupefacente alla luce della storia – vi fu un interscambio di concessioni. Washington  promise che la NATO non si sarebbe mossa di un centimetro a est, riferendoci alla Germania Orientale.

 

La promessa fu rotta immediatamente e, quando il presidente sovietico Gorbaciov si lamentò, gli si disse che si era trattato solo di una promessa verbale, mancante di validità.

 

Poi William Clinton procedette a espandere la NATO molto più all’est, verso le frontiere della Russia. Oggi c’è chi spinge per portarla fino alla stessa Ucraina, ben all’interno del vicinato storico della Russia.

 

Ma questo non ha a che vedere con i russi, perché la responsabilità degli Stati Uniti nel sostenere la pace e la stabilità richiede che le loro linee rosse stiano sulle frontiere russe. 

 

L’annessione russa della Crimea è stato un atto illegale, che ha violato il diritto internazionale e i trattati specifici. Non è facile trovare qualcosa di simile negli anni recenti: l’invasione dell’Iraq è stato un crimine molto più grave.

 

Ma viene in mente un esempio simile: il controllo statunitense della baia di Guantànamo, nel sud-est di Cuba. Essa fu strappata sulla canna delle pistole a Cuba nel 1903, e non è stata liberata nonostante le continue richieste cubane dal trionfo della rivoluzione nel 1959. 

 

Senza dubbio la Russia ha dalla sua parte argomenti più solidi. Anche senza tener conto del forte appoggio internazionale all’annessione, la Crimea appartiene storicamente alla Russia; ha l’unico porto di acque calde in Russia e ospita la flotta russa, oltre ad avere enorme importanza strategica.  

 

Gli Stati Uniti non hanno alcun diritto su Guantànamo che non sia il loro monopolio della forza.

 

Una delle ragioni per cui Washington rifiuta di restituire Guantànamo a Cuba, presumibilmente, è che si tratta di un porto importante, e il controllo statunitense rappresenta un formidabile ostacolo allo sviluppo cubano. Questo è stato un obiettivo principale della politica statunitense nel corso di 50 anni, comprendente terrorismo su larga scala e guerra economica. 

 

Gli Stati Uniti si dicono scandalizzati per le violazioni dei diritti umani a Cuba, tralasciando il fatto che le peggiori di queste violazioni si commettono a Guantànamo; che le accuse valide contro Cuba non si possono paragonare neanche da lontano alle pratiche regolari tra i clienti latinoamericani di Washinton e che Cuba è stata sottomessa ad un attacco severo e implacabile degli Stati Uniti fin dal trionfo della sua rivoluzione. 

 

Ma niente di tutto questo attraversa le linee rosse di nessuno né causa crisi. Ricade nella categoria delle invasioni statunitensi dell’Indocina e dell’Iraq, del rovesciamento di routine di regimi democratici e dell’installazione di spietate dittature, così come della nostra spaventevole storia di altri esercizi per sostenere la pace e la stabilità.  

 

(*) Professore emerito di linguistica del MIT di Cambridge, scrittore e saggista.

 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

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