GUERRE IMPERIALISTE E PETROLIO

 

In Medio Oriente meglio non parlare di petrolio

 

di Robert Fisk (The Indipendent);

 

In Medio Oriente i primi spari di ogni guerra definiscono la narrazione che tutti seguiamo obbedientemente. Così funzione anche questa grande crisi dall’ultima grande crisi in Iraq.

 

I cristiani fuggono per le loro vite? Bisogna salvarli. Gli yazidi che muoiono di fame sulle cime delle montagne? Diamogli del cibo. Gli islamisti che avanzano verso Erbil? Bombardare i loro convogli e la loro “artiglieria” e i loro combattenti, e bombardare ancora e ancora fino a che …. 

 

Bene, la prima pista sulla portata della nostra ultima avventura in Medio Oriente è arrivata a fine settimana, quando Barak Obama ha detto al mondo – nel più nascosto “ampliamento della missione” della storia recente - che “non credo che risolveremo questo problema (sic!) in settimane, ci vorrà tempo”.

 

Allora .. quanto tempo? Per lo meno un mese, ovviamente. E forse sei mesi. O forse un anno? O di più?

 

Dopo la Guerra del Golfo del 1991 -  in realtà ci sono stati tre di questi conflitti negli ultimi tre decenni e mezzo, con un altro in via di sviluppo – gli statunitensi e i britannici imposero una “no fly zone” sul sud dell’Iraq e sul Kurdistan. E bombardarono le “minacce” militari che avevano  scoperto nell’Iraq di Saddam  per i successivi 12 anni.

 

Obama ha messo le basi – la minaccia di “genocidio”, il “mandato” statunitense da parte dell’impotente governo di Bagdad per attaccare i nemici dell’Iraq – per un’altra guerra aerea prolungata in Iraq?

 

E se è così, cosa gli fa pensare – e ci fa pensare – che gli islamisti occupati a creare il loro califfato in Iraq e Siria accetteranno di giocare in questo scenario allegro?

 

Il Presidente degli Stati Uniti, il Pentagono e il Comando Centrale – e, immagino, l’infantilmente denominato Comitato Cobra britannico – credono davvero che l’EI, nonostante la sua ideologia medioevale,  se ne starà nelle pianure di Ninive ad aspettare di essere distrutto dalle nostre munizioni? No, i ragazzi dell’EI o dello Stato Islamico o califfato che sia, come piace loro chiamarsi, semplicemente svieranno i loro attacchi da altre parti.

 

Se la strada PER Erbil è chiusa, prenderanno quella per Aleppo o Damasco, che gli statunitensi e i britannici saranno meno disposti a bombardare o a difendere, perché questo significherebbe aiutare il regime di Bashar al Assad in Siria, che dobbiamo odiare quasi quanto lo Stato Islamico.

 

Ma se gli islamisti cercano di catturare Aleppo, assediare Damasco e spingersi verso l’altro lato della frontiera libanese – la città mediterranea a maggioranza sunnita di Tripoli sembra essere un obiettivo chiave – saremo obbligati ad ampliare il nostro prezioso “mandato” per includerci altri due paesi, tra l’altro perché attorniano la nazione ancor più meritoria del nostro amore e della nostra protezione che il Kurdistan: Israele.

 

Qualcuno ci ha pensato? 

 

E poi, naturalmente, c’è innominabile. Quando “noi” liberammo il Kuwait nel 1991 tutti dovevamo recitare – più volte – che quella guerra non era per il petrolio. E quando “noi” invademmo l’Iraq nel 2003 di nuovo dovemmo ripetere, fino alla noia, che questo atto di aggressione non era per il petrolio – come se i marines statunitensi fossero stati inviati in Mesopotamia, la cui principale esportazione erano gli asparagi. 

 

E ora, mentre proteggiamo i nostri amati occidentali a Erbil e soccorriamo gli yazidi nelle montagne del Kurdistan e ci lamentiamo per le decine di migliaia di cristiani che fuggono dalla malvagità dell’EI, non dobbiamo – non lo facciamo, né lo faremo – parlare del petrolio. Mi domando perché no.

 

Non è forse importante – o semplicemente un po’ rilevante – che il Kurdistan rappresenti i 43,7 mila milioni di barili dei 143 mila milioni delle riserve dell’Iraq, così come 25,5 mila milioni di barili delle riserve provate e da tre a sei trilioni di metri cubi di gas? 

 

I cartelli del petrolio e del gas sono corsi in massa nel Kurdistan – da qui le migliaia di occidentali che vivono a Erbil, anche se la loro presenza è in grande misura  inesplicata – per investire più di 10 mila milioni di dollari. Mobil, Chevron, Exxon e Total sono sul campo – e non permetteremo che l’EI si impicci con società come queste – in un luogo dove gli operatori del petrolio si caratterizzano per raccogliere il 20 per cento di tutti i profitti.

 

Di fatto rapporti recenti suggeriscono che la produzione di petrolio kurdo attuale di 200 mila barili al giorno arriverà a 250 mila l’anno prossimo – se la prestazione dei ragazzi del califfato resterà nei giusti limiti – il che significa, secondo Reuters che, se il Kurdistan iracheno fosse un paese reale e non solo una  porzione dell’Iraq, sarebbe tra i 10 paesi più ricchi di petrolio più importanti del mondo.

 

Questo, senza dubbio, vale la pena di essere difeso.

 

Ma qualcuno lo ha detto? Qualche reporter della Casa Bianca ha disturbato Obama con una sola domanda su questo fatto piuttosto importante? 

 

Chiaro, ci spiace per i cristiani dell’Iraq – anche se ce ne importava ben poco quando la loro persecuzione incominciò dopo la nostra invasione del 2003. E dobbiamo proteggere la minoranza degli yazidi, come promettemmo – ma non mantenemmo – di proteggere i 1,5 milioni di cristiani armeni dai loro assassini musulmani nella stessa regione, 99 anni fa. 

 

Ma non dimentichiamo che i maestri del nuovo califfato del Medio Oriente non sono tonti.

 

I limiti della loro guerra si estendono molto al di là dei nostri “mandati” militari. E loro sanno – anche se noi non lo ammettiamo – che il nostro vero mandato comprende quella indicibile parola:  petrolio. 

 

(*) Giornalista inglese, corrispondente dal Medio Oriente per The Indipendent, risiede a Beirut da 25 anni.

da: surysur.net; 18.8.2014 

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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