CAPITALISMO

 

Recessione 2014 e interessi dei proletari

La crisi, la disoccupazione, lo sfruttamento non si risolvono né con le riforme istituzionali e costituzionali, né con le lotte sindacali, pure importanti. Il capitalismo va abbattuto.

di Michele Michelino

Per l'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) “L’Italia deve spostare le sue politiche del lavoro su una maggiore tutela del reddito di lavoratori”. Per una vera crescita, e una graduale ripresa del Paese, l’Ocse, nel rapporto ‘Going For Growth’ di metà febbraio 2014 chiedeva all’esecutivo italiano di tutelare “maggiormente il reddito dei lavoratori e meno il posto di lavoro in sé”. Da notare che l’Ocse parla di reddito, non di salari e pensioni proletarie ormai sotto i livelli di sussistenza. Sappiamo tutti che, sotto la voce reddito dei lavoratori dipendenti cioè quelli che non svolgono un’attività in proprio, ci sono figure di varie classi sociali e che, oltre ai salari e pensioni dei proletari in continuo calo, ci sono i superstipendi sempre in crescita dei manager, dei superburocrati, dei direttori di banca, dei dirigenti di fabbrica o impresa.

Paradossalmente siamo in una situazione in cui il ladro (il sistema capitalista) chiama disonesto il derubato (proletario) perché ha pochi soldi nel portafoglio. Nel momento in cui la disoccupazione aumenta, i salari e i diritti dei proletari sono in continuo calo, non sono i sindacati a richiedere maggior tutela dei “redditi dei lavoratori”, ma un organismo internazionale dei padroni.

 

Che cosa intende l’Ocse per tutela dei redditi dei lavoratori lo spiega un suo autorevole rappresentante. Secondo Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia del governo Renzi, ex capo economista e vicedirettore dell’OCSE e ex presidente Istat, “La diffusa decelerazione nella produttività dall’inizio della crisi potrebbe presagire l’inizio di una nuova era di bassa crescita”.

Per il Ministro dell’economia “è improbabile che la creazione più rapida di posti di lavoro sia sufficiente per riportare i tassi di occupazione ai livelli pre-crisi, men che meno a livelli capaci di compensare l’impatto dell’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati”. Per il governo Renzi “lavorare sulle carenze dei mercati finanziari e nel settore bancario restano in cima alle priorità” per rimettere in moto l’economia globale e quindi la tutela del reddito dei lavoratori.

Ancora una volta gli interessi delle banche e la difesa dei profitti delle imprese vengono prima di tutto e le riforme di cui parlano l’Ocse e il presidente del Consiglio Renzi servono a questo. Arginare e impedire il calo dei profitti.

I governi italiani, in particolare, quello di Monti con il sostegno bipartisan di centrodestra e centrosinistra, hanno già portato avanti alcune “riforme” del mercato del lavoro di un certo peso, come l’allungamento dell’età pensionabile, il ricorso forzato alla conciliazione e la graduale introduzione di un’assistenza unica alla disoccupazione (Aspi) previste dalla riforma Fornero.

Ora il governo Renzi – attuale comitato d’affari del capitalismo - si appresta a completare il quadro intervenendo su altri aspetti.
Per l’Europa imperialista, l’Italia deve intervenire sull’intero sistema di educazione professionale e per essere più competitiva dovrebbe rimuovere “le barriere alla concorrenza, riducendo la proprietà pubblica e i ritardi della giustizia civile”, in modo da attrarre investimenti.

Oggi nella crisi ci sono persino dei capitalisti che rimpiangono i bei tempi dell’inflazione a due cifre che, con i tassi nominali vicini allo zero, potevano godere di due effetti: abbattere il costo reale del credito, rilanciando consumi e investimenti (il contrario di quello che fa oggi la crescente deflazione) e, al contempo, svalutare il valore nominale del debito pubblico riducendo la necessità di aumentare tasse e diminuire le spese per ripagarlo. Cose, queste, che ostacolano la ripresa.

Invece per i proletari,per gli operai, per i precari, per tutti quelli che ricevono un salario o percepiscono una pensione, dall’inflazione arrivano solo svantaggi dovuti al minore valore della moneta.

Oggi sia i padroni che il governo sono spaventati dal rischio deflazione. Ma cos'è la deflazione? È il fenomeno opposto all'inflazione, in generale significa una riduzione generalizzata dei prezzi. La deflazione può essere accompagnata da una diminuzione della produzione o da un rallentamento della sua crescita, e indica una fase di recessione o di stagnazione economica.

 

La diminuzione dei prezzi induce l'imprenditore ad investire solo in piccola misura il suo denaro nell'incremento delle capacità produttive. Questo comporta in genere una riduzione dell'occupazione e dei salari. I lavoratori sono costretti a subire le decisioni dei datori di lavoro e sono impotenti davanti alla riduzione del proprio salario. I primi ad essere colpiti in un mercato che si contrae, sono soprattutto i produttori di beni cui si può temporaneamente rinunciare come gli elettrodomestici.

Le aziende, di conseguenza, cercano di diminuire ulteriormente la produzione innescando la cosiddetta spirale deflazionistica: minore domanda delle famiglie, minore offerta delle imprese, minore occupazione.

 

Per far fronte a tale circolo vizioso lo Stato cerca di intervenire adottando politiche economiche a sostegno alle banche e alle imprese nel tentativo di ridare fiducia allo sviluppo economico del paese.

 

Il ciclo di boom-recessione

 

Da quando l’economia capitalista si è sviluppata su vasta scala, abbiamo sempre visto un alternarsi di fasi di crescita (boom), nelle quali la produzione, i salari e l’occupazione aumentano; e fasi di crisi o recessione che vedono un calo più o meno drastico della produzione, aumento della disoccupazione, fallimenti a catena.

Ma cos’è che periodicamente fa entrare il capitalismo in crisi?

 

Il profitto è il vero motore dell’economia capitalista. Gli investimenti sono funzionali a questo unico obiettivo. Tuttavia nella società capitalista si manifesta una tendenza alla caduta del saggio di profitto che in determinate circostanze può spingere i profitti sotto zero.

Quando questo fenomeno si produce, i padroni non investono, e l’economia entra in crisi. Una volta cominciata la crisi, alla mancanza d’investimenti seguono i licenziamenti e viene distrutta una gran quantità di capitale: imprese che falliscono o che devono tagliare drasticamente la capacità dei propri impianti.

 

Come tutti noi proletari sappiamo - per averlo provato sulla nostra pelle - la crisi significa aumento della disoccupazione e calo dei salari per chi conserva il posto di lavoro. Inoltre l’introduzione di nuovi metodi di produzione, l’aumento dei ritmi, l’utilizzo più esteso degli impianti (ciclo continuo) e il rafforzamento del comando delle imprese cambia a vantaggio dei capitalisti la suddivisione della giornata lavorativa (aumenta il tasso di sfruttamento) e con lui il tasso di profitto.

 

In una società divisa in classi nella quale il potere è nelle mani della classe capitalista, imperialista, sfruttatrice la lotta economica della classe operaia è necessaria per sopravvivere, può influire e ostacolare temporaneamente i meccanismi di accumulazione del capitale, ma non può in nessun caso cambiarlo.

Con un’organizzazione sindacale di classe possiamo anche difenderci dagli attacchi dei capitalisti, ricordando però che anche la migliore organizzazione sindacale delle lotte (oggi inesistente con gli attuali sindacati) nella migliore delle ipotesi può solamente fare un buon lavoro come centro di resistenza contro gli attacchi del capitale.

Finché gli operai si limiteranno alla lotta economica, alla guerriglia contro gli effetti del sistema capitalista invece di lottare nello stesso tempo, per la sua abolizione e per liberazione definitiva della classe operaia e proletaria, cioè per l'abolizione del sistema del lavoro salariato, rimarranno degli schiavi salariati in balia dei loro padroni.

 

Da nuova unità - rivista di politica e cultura comunista, settembre 2014

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