RIFUGIATI E DISPERATI

Vedere le loro facce

 

di Pedro Olalla (*)

 

 

 

Dicono che quando un’immagine, per dura e riprovevole sia, si ripete con la sufficiente insistenza, finisce per creare accettazione, persino indifferenza. Da più di un anno giornali e televisioni di tutta Europa ci servono quotidianamente l’immagine dei disperati che attraversano il mare ammassati su canotti di gomma e che, non poche volte, muoiono affogati nel tentativo. La ripetizione ci ha resi quasi refrattari a questa immagine, presentata, giorno dopo giorno, come l’unico volto visibile del dramma dei milioni di persone che si vedono obbligate a lasciare le loro case, fuggendo dalla guerra, dall’ingiustizia e dalla fame.

 

Per questo, per combattere questo miraggio, ho voluto vedere da vicino i loro visi ed ho passato gli ultimi giorni sulle coste di Lesbo, nei campi dei rifugiati dell’isola, nel campo di accoglienza di Atene e lungo il muro di filo spinato che separa la Grecia dalla ex Repubblica yugoslava di Macedonia.

 

Al contrario di quanto ci si poteva aspettare, i loro visi sono privi di drammaticità e di rimprovero. Sono visi vicini, caldi. Visi dignitosi, retti, di lotta. Facce di gente che sa che la vita è dura e la cosa non li stupisce. E, soprattutto, sono visi allegri, sorprendentemente allegri. Scendono dalle barche e abbracciano sorridenti coloro che gli tendono una mano per aiutarli, felici di essere arrivati vivi dall’altra parte.

 

La maggior parte di loro ha lasciato la propria casa in rovine, ha svenduto il poco che gli restava per cercare di raccogliere il denaro per fuggire, ha abbandonato il suo paese, ha attraversato a piedi tutta la Turchia, è stata oggetto di abusi e di maltrattamenti lungo il cammino, e ha pagato 1.000 dollari ad una rete clandestina di trasportatori – o qualcosa di meno se si è arrischiata ad imbarcarsi con il mare grosso – per salire su un gommone di 7 metri di lunghezza, con cinquanta persone e più, e attraversare un braccio di mare che il ferry fa varie volte al giorno per appena 10 euro.

 

Da quale orrore fugge qualcuno per il quale la scelta migliore è affidarsi al mare senza garanzie di arrivare vivo dall’altra parte?

 

Le coste di Lesbo sono piene di giubbetti salvagente fosforescenti: ignominiosi relitti di un altro tragico naufragio del nostro mondo attuale. Solo su quest’isola di 60.000 abitanti l’anno scorso sono arrivati più di 300.000 persone. Se uno sbarco di tali proporzioni avesse avuto luogo sulle coste della Germania, avremmo già il 4° Reich. L’80% di quelli che hanno attraversato ultimamente in modo clandestino le acque del Mediterraneo è entrato in Europa attraverso la Grecia. Dall’Italia solo il 19,5%, anche se la maggior parte dei morti è annegata nelle sue acque. Dalla Spagna, per quanto spazio mediatico occupi la tragedia, è entrato solo uno 0,5% dei disperati: appena 4.000 persone.

 

L’Europa sta “traboccando” perché quest’ultimo anno ha ricevuto l’arrivo di quasi un milione di persone che fuggono dall’orrore. Ma conviene contestualizzare questo dato: quel milione di persone equivale solo allo 0,18% della popolazione dell’Unione Europea e allo 0,14% di quella dell’Europa nelle sue frontiere geografiche tradizionali; quel milione di persone non è altro che una piccola parte dei 60 milioni di persone che in quest’ultimo anno ha dovuto abbandonare le proprie case nel mondo: una ogni 122 persone che vivono nel mondo ha lasciato quest’anno – contro la sua volontà – la sua casa. La maggior parte di loro (66%) non ha neanche potuto lasciare il proprio paese; quelli che ci sono riusciti sono rimasti in generale nei paesi vicini; e solo l’1,6%, affrontando le difficoltà della fuga, le onde del mare, le mafie e le guardie di frontiera, sono riuscite a metter piede in Europa.

 

L’Unione Europea, dopo che è arrivato un rifugiato ogni 500 abitanti, si dichiara oggi “traboccante”; del Libano, invece, dove c’è un rifugiato … ogni 4 abitanti, non sappiamo niente; neppure della povera Etiopia che è il paese che, in relazione alla sua rendita pro capite, dedica più risorse ai rifugiati.

 

L’Unione Europea dovrebbe ricordare che lo “Statuto del Rifugiato” fu approvato dall’ONU nel 1951 proprio per proteggere gli europei in pericolo dopo la 2° Guerra Mondiale, e che dovettero passare 15 anni prima che quello statuto – che riconosce il diritto di asilo “alle persone che hanno fondati timori di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni politiche” fosse esteso alle persone di altri paesi del mondo.

 

La maggior parte dei siriani che sono riusciti a fuggire dal bombardamento sistematico del loro paese sono oggi in Turchia, in Libano, in Giordania, in Iraq e nella regione del Kurdistan (Erbil); quelli che arrivano in Europa continuano ad essere la minoranza; e, soprattutto, un numero minimo e in assoluto proporzionale alle responsabilità storiche e attuali dell’Europa (e dell’Occidente) nella creazione delle vere cause che danno origine all’esistenza dei rifugiati e dei migranti economici del mondo. Senza andare troppo lontano, in questo anno 2016 dovremmo “celebrare” il centenario degli accordi segreti Sykes-Picot (1916) nei quali, al calore della 1° Guerra Mondiale e alla vigilia del crollo dell’Impero Ottomano, Gran Bretagna e Francia si spartivano il futuro controllo sui territori di Giordania, Palestina e Iraq per la prima e di Libano e Siria per la seconda.

 

Negli ultimi decenni c’è stato un altro, costante, Sykes-Picot sui territori petroliferi del Medio Oriente e del Nord d’Africa che ha intensificato la radicalizzazione dell’Islam e ha prodotto pingui profitti per l’industria bellica.

 

Ma, disgraziatamente, la faccia visibile del dramma di quelli che fuggono continua ad essere solo quella delle vittime, per cui finiamo per confonderle con quelle dei colpevoli.

 

Quelli che attraversano il mare con le barche sono forse i colpevoli della guerra che li obbliga ad abbandonare le loro case? Forse che i derelitti che cercano in Europa una minima protezione e un’elemosina di lavoro sono i colpevoli della disoccupazione nel nostro paese, della distruzione del nostro tessuto economico, della perdita delle nostre prestazioni sociali, del taglio dei nostri diritti sul lavoro, del nostro indebitamento con i mercati finanziari, dei suicidi dei nostri vicini di casa o di quell’altra disperata emigrazione di migliaia di giovani europei in cerca di un’opportunità di futuro?

 

O forse i colpevoli sono altri? Dove sono le loro facce?

 

Mai, nella storia dell’umanità, c’è stato un simile transito di rifugiati e migranti economici come oggi. Lo sradicamento è un segno del nostro tempo. Con imperterrito cinismo, il FMI, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio elogiano l’emigrazione come … strumento primordiale di lotta contro la disoccupazione! Ma, in realtà, il loro obiettivo ultimo è chiaro: spingere la migrazione e lo sradicamento e utilizzare quei milioni di sradicati per minare in tutto il mondo le conquiste lavorative e sociali, per minare la coesione e la coscienza della società e per neutralizzare completamente la sua forza politica, trasformando i lavoratori in una massa ingente di nomadi senza patria, apolitici e senza vincoli con il territorio né forza collettiva per rivendicare alcunchè, condizionati mentalmente per vivere nella precarietà e alla mercè dell’offerta e della domanda di un mercato completamente deregolato. Attraente panorama per pochi.

 

Il denaro ha sempre meno frontiere: le persone sempre di più. Tra Grecia e FYROM (l’ex repubblica yugoslavia di Macedonia) c’è uno sbarramento di filo spinato chilometrico che ho toccato con le mie mani per assicurarmi che non fosse un sogno: lo stesso succede tra Grecia e Turchia, tra Serbia e Ungheria, e a Melilla, a Ceuta, in Marocco, Tunisia, Algeria, Romania…., “fisarmoniche” di filo spinato con coltelli, che la società spagnola European Security Fencing tiene il dubbio onore di fabbricare in esclusiva.

 

Davanti all’ingiustizia globale che trascina i cadaveri e le vittime sulle coste d’Europa, la strategia dell’Unione Europea è blindare le sue frontiere esterne e cercare di allontanare da esse il conflitto. Per il secondo di questi obiettivi, ha appena sovvenzionato la Turchia con 3.000 milioni di euro e l’Africa sub-sahariana con 1.200, come stipendio per rafforzare i loro controlli ed esternalizzare il lavoro sporco; per il primo degli obiettivi Frontex e la sovranità degli Stati non sono stati sufficienti e (la UE) ha deciso di creare una nuova Agenzia Europea delle Frontiere più indipendente, più privata e con potestà per intervenire immediatamente, anche quando i paesi membri non concedano la loro autorizzazione.

 

Quando Frontex entrò in funzione dieci anni fa, il suo bilancio annuale era di 6 milioni di euro; oggi è di 238 e si prevede che, nei prossimi 4 anni, raggiunga i 322. Nello stesso modo, il programma EUROSUR promuove la vigilanza delle frontiere nei paesi “anticamera” dell’Europa e crea in essi una rete di Centri di Internamento per gli Stranieri. Nello stesso tempo, l’Unione Europea destina milioni di denaro pubblico per mantenere una lobby di più di 30 società private che, sotto l’epigrafe di Organizzazione Europea per la Sicurezza (EOS), gestiscono il movimento delle persone e il controllo migratorio, mentre godono di succosi contratti e sostanziosi programmi di I+D (Seabille, Talos, Operamar) (n.d.t. programmi di sicurezza terrestre, marittima ecc.). Tra queste società ci sono, tra altre, G4S – il più grande gruppo privato di sicurezza del mondo - Eads, Thales, Selex e la multinazionale “spagnola” Indra che, quale primo azionista lo Stato spagnolo e il cui recente direttore generale, Santigo Roura – imputato nel caso Pùnica e licenziato con un’indennità milionaria –è stato ora nominato presidente dell’Organizzazione Europea per la Sicurezza.

 

Nel caso della Grecia, paese che – nella sua penosa situazione – continua a ricevere il grosso dei migranti che entrano in Europa, la “crisi dei rifugiati” è diventata un ricatto per strapparle la poca sovranità che le resta sul suo territorio. Se negli ultimi anni la “crisi finanziaria” ha trasformato la Grecia in un’autentica colonia del debito, questa nuova “crisi umanitaria” le sta imponendo una “troika geostrategica” senza precedenti. Proprio come il processo dei salvataggi e degli onerosi memoranda che hanno lasciato il paese all’assoluta mercè dei suoi creditori, gli accordi di Dublino I e Dublino II, uniti al resto della politica migratoria europea degli ultimi ani, hanno trasformato la Grecia in un deposito di contenzione di esseri umani che, si spera, agisca come regolatore del flusso migratorio verso il resto dell’Europa, in accordo con le necessità ed i ritmi del nucleo duro dell’Unione Europea.

 

Se allo smantellamento progressivo e cosciente delle forze armate greche uniamo ora l’ultimatum dato dall’Unione Europea a fine gennaio (due mesi perché la Grecia risolva i suoi “problemi di frontiera” oppure fine di Schengen e passaggio dei poteri in mano a Frontex) e la recente risoluzione per via rapida perché sia la NATO ad assumere il controllo delle acque dell’Egeo, abbiamo la Grecia sotto una nuova troika. Come le politiche di austerità e i salvataggi hanno assicurato l’interesse e il profitto dei creditori, la questione dei rifugiati – presentata come un contesto eccezionale per agire al margine degli accordi internazionali – ha permesso alla NATO di aumentare e consolidare la sua presenza nell’Egeo e ha offerto alla Germania la leadership di cui aveva bisogno per sostenere militarmente il suo potere economico.

 

Tutto questo anche a beneficio della Turchia, che molto bene come pescare in acque torbide. Così torniamo alla guerra fredda, con le acque greche pattugliate adesso da USA, Germania, Italia, Canada, Israele, Turchia ...e perfino la Cina.

 

 

Il Libano ha sul suo territorio un rifugiato ogni quattro libanesi, e non si è dichiarato “saturo” né ha chiuso le sue frontiere. Non le chiuse neppure l’Egitto quando, con la “crisi della Libia” nel 2001, ricevette sul suo desertico suolo quattro volte più rifugiati che l’insieme dell’Unione Europea.

 

Nemmeno la Grecia ha mai messo in discussione lo spazio Schengen, nonostante fosse il paese più colpito dalle politiche comunitarie di immigrazione; però l’Unione Europea l’ha fatto appena scoppiò io conflitto in Libia e adesso vuole mettere all’angolo la Grecia per strapparle la poca sovranità che le restava.

 

Siamo seri. Se vogliamo affrontare con giustizia questa tragedia, devono finire, tanto per cominciare, i condizionamenti di Schengen, Dublino e Frontex che pesano sulla Grecia e che trasformano i rifugiati in un’arma di estorsione: solo così il paese potrà smettere di essere una gabbia di diseredati e far fronte alla questione conformemente a quanto disposto dal diritto internazionale – che in questo è ignorato in tutta la zona – e con l’appoggio dell’ACNUR e dell’ONU.

 

E se davvero vogliamo farla finita con i rifugiati, allora dobbiamo esigere che vengano attaccate le cause: che la politica non sia un silenzioso complice dell’imperialismo economico; che il denaro pubblico non vada alle lobbies che trasformano l’industria della guerra in “industria della sicurezza”; che si combattano efficacemente le reti clandestine che, senza un’opposizione reale dei governi, controllano le rotte ed i meccanismi del traffico e la tratta di persone; che si sostenga davvero il radicamento della popolazione nel suo luogo di origine e che si lotti chiaramente contro l’emigrazione forzata, non contro l’emigrante. E tante altre cose.

 

Chi semina guerra, raccoglie rifugiati. Anche se, disgraziatamente, non sempre nella sua stessa casa, non sulla propria coscienza. Il “problema” dei rifugiati e dei migranti ha molte facce, ma quella dei suoi più diretti responsabili è raramente visibile. Ed è ormai ora di cominciare a cercarla.

 

(*) Professore e scrittore spagnolo. Per i suoi lavori di promozione della cultura greca ha ricevuto il titolo di Ambasciatore dell’Ellenismo.; da: rebelion.org; 23.2.2016

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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