IMPERIALISMO USA

Donald Trump, il nuovo rappresentante del gendarme mondiale

di Daniela Trollio (*)

 

L’avvento del “nuovo” presidente degli Stati Uniti è stato accompagnato e seguito da una notevole uniformità di giudizi, non solo della stampa ma anche di insospettabili personaggi di cosiddetta sinistra.

Quello che si legge – tra le righe, perché verso i potenti va comunque usato sempre un po’ di savoir faire -  è che nel migliore dei casi ci troviamo davanti ad un buffone pericoloso per il mondo, nel peggiore di fronte ad un pazzo “cane sciolto”, sempre e comunque pericoloso per il mondo.

 

 

Prima di discuterne, facciamo un attimo i conti con il suo predecessore, da tutti rimpianto, il primo presidente Afroamericano, il premio Nobel per la Pace Barak Obama, valentemente coadiuvato dall’antagonista – sconfitta - di Trump, Hillary Clinton, sua Segretaria di Stato.

La presidenza di Barak Obama

Negli anni della sua amministrazione, Obama ha portato la guerra e bombardato gli Stati più poveri della Terra: Afganistan, Yemen, Somalia, Pakistan, Libia, Iraq, Siria. Secondo alcune ricerche, solo nel 2016 gli USA hanno sganciato su questi paesi 26.171 bombe, ossia 72 al giorno, generando – tra l’altro – il terribile problema dei profughi, che l’Unione Europea, da buon cane fedele, si è trovata ad affrontare da sola, perché le coste europee sono vicine alle zone di guerra, quelle nordamericane no. Non parliamo nemmeno delle decine di migliaia di nostri fratelli di classe che in questo viaggio per sfuggire alla guerra, alla povertà, alla fame, alle violenze di ogni genere –provocate, quale buon ultimo, dalle politiche del Nobel per la Pace - hanno trovato la morte in quella bara d’acqua in cui si è trasformato il Mediterraneo.

In questi anni gli USA hanno esteso le operazioni delle “forze speciali” a 138 paesi, cioè si sono presi cura del 70% della popolazione mondiale.

Proseguendo l’onorata tradizione di Colin Powell e Tony Blair, Obama nel 2011 assicurava che Gheddafi stava commettendo un genocidio contro il suo popolo, genocidio davanti al quale “se aspettassimo un altro giorno …. Bengasi potrebbe patire un massacro che si rifletterebbe in tutta la regione e macchierebbe la coscienza del mondo”. Per evitare di macchiare questa immacolata coscienza, il braccio armato dell’imperialismo, la NATO, lanciò 9.700 “incursioni punitive” sulla Libia, un terzo delle quali contro obiettivi civili, usando anche testate all’uranio.

L’amministrazione Obama ha attivamente e “fattivamente” sostenuto il colpo di stato fascista in Ucraina, ed ha installato il più alto numero di basi militari nell’Europa dell’Est, accerchiando la Russia, oltre ad aver attivato la “leva Asia”, lo spostamento di quasi due terzi della flotta USA nel Pacifico per “affrontare la Cina”. E poiché si tratta di un Nobel per la Pace, dopo aver promesso in un emozionato discorso a Praga di “adoperarsi per liberare il mondo dalle armi nucleari”, ha aumentato a livello più alto di ogni altra amministrazione dalla Guerra Fredda le spese per le teste nucleari.

Dulcis in fundo, sotto l’amministrazione del primo presidente Afroamericano si è verificato, nella più totale impunità, il più alto numero di assassinii di  …… afroamericani per mano della polizia (170 solo nel 2016).

E’ solo un brevissimo riassunto.

 

Donald Trump

C’è un altro precedente storico a cui possiamo far riferimento: sostituite al parrucchino arancione un paio di baffetti e un ciuffo sulla fronte ed avrete un altro pazzo della storia, Adolf Hitler.

Lo scrittore e giornalista spagnolo Ramòn Pedregal Casanova ci ricorda alcuni fatti, a questo proposito. Il “grande” statista Winston Churchill nel 1917, durante le rivolte indiane contro la Gran Bretagna, diceva: “Non capisco queste lagne contro l’uso dei gas. Sono completamente a favore dell’uso di gas velenosi contro tribù non civilizzate” (C’è tanta differenza rispetto alle sparate di Trump contro i messicani, tutti narcos, serial killers e violentatori?). E, prima che Hitler, in quanto rappresentante del grande capitale tedesco, facesse guerra all’Europa, Winnie proseguiva nel 1937: “Chi ha incontrato faccia a faccia in riunioni pubbliche il signor Hitler, ha potuto verificare  che si tratta di un politico altamente competente, ponderato, ben informato, di maniere gradevoli e con un sorriso che seduce”. Ma allora per bocca di Hitler parlava il grande capitale tedesco e il nemico era l’Unione Sovietica, e tutto faceva buon brodo.

 

Torniamo ad oggi. L’elezione di Trump ha spezzato il collaudato meccanismo dell’alternanza di potere tra Democratici e Repubblicani, strumento politico grazie al quale l’imperialismo americano ha dominato il mondo fino ad ora. Oggi  l’impero è in declino, minacciato economicamente dalla Cina e dalla Russia, e anche in casa sua non sta affatto bene. Solo un esempio: le esportazioni di tecnologia USA sono passate- tra il 1999 e il 2014 – dal 18 al 7%; quelle della Cina sono aumentate, nello stesso periodo, dal 3 al 26%.

La rottura dell’alternanza politico-programmatica della borghesia imperiale  riflette quindi l’incapacità di scegliere la strategia  più appropriata per salvaguardare il pericolante primato del capitale USA. E le politiche neoliberiste hanno provocato il disastro sociale non solo nel resto del mondo ma nel cuore stesso dell’impero: povertà estrema, una società militarizzata, carceri barbare e…. 14 bilioni di dollari di denaro pubblico regalati al capitale finanziario.

 

Così Trump ha avuto buon gioco a denunciare – attenzione – non il sistema, non le multinazionali e la grande finanza, ma i “politici”, annunciando che sotto la sua presidenza il potere tornerà “al popolo”. Peccato che nel suo gabinetto ci siano presidenti di multinazionali (Rex Tillerson, Exxon Mobile; Andrew Puzder, CKE-Carl’s; Linda McMahon, WWE, multinazionale statunitense di sport-spettacolo; Betsy DeVos, Amway), rappresentanti del settore finanziario (Gary Cohon, Goldman Sachs Group; Wilbur Ross, il “re della bancarotta”proprietario del fondo di private equità W.L. Ross & Co.; Steve Mnuchin, dirigente di Goldman Sachs e gestore di uno dei fondi di George Soros) ed ex militari come i generali James Mattis (“Cane Rabbioso”, ex capo del Comando Centrale incaricato delle operazioni in Medio Oriente in sostituzione di David Petraeus),  Mike Flinn (che è stato direttore dell’Agenzia per la Difesa Nazionale , la DIA, il principale organismo di spionaggio militare USA all’estero sotto l’amministrazione Obama) e John Kelly  (che ha diretto il Comando Sud fino a febbraio 2016, responsabile delle operazioni nei Caraibi, nell’America Centrale e in America del Sud).

L’elenco di cui sopra ha un solo significato: il potere è intatto, a Wall Street come a Washington.

 

E con questo veniamo alla NATO. Secondo Trump è obsoleta, ma in che senso? Lo spiega, numeri alla mano soprattutto per quello che riguarda il nostro paese, il giornalista ed esperto di politiche militari Manlio Dinucci in un articolo sul manifesto del 31 gennaio scorso:

“Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2015, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all'estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico.

L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni”.

Telefonata che è puntualmente arrivata.

In altre parole, gli alleati europei facciano il loro dovere e paghino un po’ di più, non è la NATo ad essere obsoleta, ma i loro contributi.

 

E’ davvero rinato un movimento?

Grazie alle dichiarazioni di Trump, a fine gennaio ci sono state una serie di grandi manifestazioni negli USA e in Europa, come la Marcia delle Donne a Washington, su cui i pennivendoli nostrani hanno versato fiumi di inchiostro.  Che ci sia un movimento è certo una cosa positiva, ma pone alcune domande piuttosto serie.

No Ban, No Wall” era il Tema delle manifestazioni (No al divieto di immigrazione per gli abitanti di 7 paesi musulmani, già rifiutato peraltro dalla Corte Suprema USA – e No al muro di confine con il Messico).

C’è da chiedersi, dicevamo, come mai nessuno si è né scandalizzato né mosso nel 2015 quando l’amministrazione Obama elaborò la List of Concern che riguardava restrizioni verso gli stessi 7 paesi (Iran, Iraq, Siria, Sudan, Libia, Somalia e Yemen). Né qualcuno ha manifestato contro la deportazione, autorizzata da Obama, di 3 milioni di immigranti clandestini latinoamericani.

Del resto, che ci si scandalizzi per il muro ai confini del Messico proprio qui in Europa, dove di muri ne sono stati costruiti a bizzeffe, e dove si paga la Turchia per fermare i profughi prima che arrivino sulle nostre coste, se non fosse una immane tragedia, è una farsa di cui ridere.

Le immagini dei profughi, in Grecia, Macedonia e Ungheria,  in fila sotto la neve, con una coperta – quando c’è , a me ricordano una cosa sola: Auschwitz. Il filo spinato c’è, le guardie anche, mancano solo le divise a strisce.

 

Dietro tutto questo c’è quella che si chiama “politica di genere”. Ovvero far sì che spariscano le divisioni di classe, che sono pericolosissime per il capitale, e annacquare la lotta di classe in lotta di “genere”, quell'operazione che ha permesso di far passare la sconfitta della guerrafondaia e rappresentante politica per eccellenza del capitale finanziario statunitense Hillary Clinton come la sconfitta delle “donne” in generale.

Da noi si chiama, da troppi anni, “società civile”. Sono i “cittadini” che si arrabbiano per gli scioperi dei trasporti, gli “utenti” incazzati per quelli della sanità o i “genitori” per quello della scuola; sono i “clienti” dei supermercati che si scandalizzano quando le merci non arrivano perché c’è lo sciopero della logistica. O che fa dire a molti, troppi, che se il lavoro manca è perché “ce lo rubano” gli stranieri, non i padroni nostrani sempre in cerca del massimo profitto.

E’ lo strumento prediletto, di questi tempi, per disarmare qualsiasi lotta.

 

(Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

Anteprima della rivista “nuova unità”

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