Calcio, un bel posto dove non cresce niente

 

Calcio, un bel posto dove non cresce niente

di Jorge Montero (*); da: lahaine.org; 15.6.2018

 

 Arriva un nuovo mondiale e le emozioni si gonfiano. Goals, magliette, tunnel e cappelli, giochi a stadio completo, giri, finali. Il Maracanà, Wembley, lo Stadio Azteca, San Siro, il  Monumental, il Santiago Bernabeu.... concentrazioni, relatori e patriottismo, gruppi di fanatici, la gloria e la sconfitta ... Garrincha, Johan Cruyff, Pelé “Grande pulce”, Zidane, Andrès Iniesta, “Gioca con le due gambe, Diego, perchè da macino è un furto!”.

  

Lealtà e trappole, “l’arancia meccanica” e il catenaccio, magnati yankee, oligarchi russi, sceicchi arabi, milionari cinesi, corruzione, l’emozione collettiva, il rumoroso silenzio di uno stadio vuoto. Filosofi da salotto, “Il calcio è il gioco più difficile del mondo, perchè lo si gioca con i piedi obbedendo alla testa ... e guardate la distanza che c’è”, diceva Angel Labruna.

  

Culto al successo, demolizione dello sconfitto. Silvio Berlusconi mentì su una storia di trionfi del Milan e seppe approfittare dell’energia simbolica del calcio per prostituire l’Italia; il truffatore Jesùs Gil y Gil costruì una sua forza politica a partire dalla sua rovinosa presidenza dell’Atletico Madrid; Mauricio Macri ci parlò dell’efficacia nella gestione imprenditoriale dalla direzione del Boca Juniors e milioni di persone si comprarono la frode.

  

Il calcio, con le sue molteplici vergogne e le sue scarse dignità. I mondiali mussoliniani del 1934 e del 1938. L’Italia due volte campione del mondo. Il Duce che assisteva a tutte le partite a Roma. Dal palco d’onore, il mento sollevato verso le tribune strapiene di camcie nere. Due argentini, appena nazionalizzati, gli danno la prima coppa. Orsi fa il primo gol, Guaita assiste al secondo. 2 a 1 alla Cecoslovacchia. Quattro anni dopo gli azzurri ricevono il telegramma prima di uscire dal tunnel dello Stadio Olimpico di Parigi: “Vincere o morire” è l’ordine che Mussollini da loro. Sconfiggono nella finale l’Ungheria 4 a 2. La squadra fa il saluto fascista.

 

Neri nuvoloni si affacciano sull’Europa alla vigilia di un’altra guerra.

 

   

Arriva il 1959, il “Maracanazo” (la sconfitta del Brasile da parte dell’Uruguay ai mondiali del 1950) era già cenere.Il Brasile perde la finale con l’Uraguay 2 a 1. Grandezza di Obdulio Varela; il “Capo Nero”, storico capitano amerindo, non celebra la vittoria con i suoi compagni. Se ne va in giro per i bar, triste, con gli sconfitti. Finisce bevendo e consolandosi con vari tifosi brasiliani. Il giorno dopo non vuole farsi fotografare e nemmeno condividere i festeggiamenti con l’ambasciatore dell’Uruguay in Brasile. Non prova alcun ardore patroottico: “La mia patria è la gente che soffre” afferma. Gli danno un premio in denaro e lui si compra una vecchia auto del 1931. Gliela rubano la settimana dopo.

 

45 anni fa si disputava la prima partita di un ripescaggio che sarebbe rimasto nella storia. Pochi giorni dopo il golpe contro Salvador Allende in Cile, il paese e l’Unione Sovietica si giocavano la partecipazione al Mondiale di Germania. La prima partita a Mosca fu uno zero a zero. “Fortunatamente l’arbitro era un anticomunista rabbioso” racconta Huigo Gasc, l’unico giornalista cileno presente in Russia. “Insieme a Francisco Fluxà, il presidente della delegazione, lo avevamo convinto che non ci poteva far perdere a Mosca, e la verità è che il suo arbitraggio ci aiutò parecchio”. Il secondo turno doveva giocarsi il 21 novembre nello Stadio Nazionale di Santiago, allora trasformato nel campo di concentrazione, tortura e morte più grande del paese. “Con il passare dei giorni le gradinate si spopolavano: alcuni liberi, altri assassinati nella nottiee un paio di suicidi” ricorda uno dei detenuti, Gregorio Mena Barrales, uomo del Partito Socialista ed ex governatore di Puente Alto.

  

L’URSS, che aveva rotto le relazioni diplomatiche con il Cile dopo il golpe di Pinochet, esigeva di giocare in campo neutro. Gli uomini della FIFA, dopo aver ispezionato lo Stadio Nazionale, diedero il via libera alla partita. Lì rimanevano ancora 7 mila detenuti. La federazione calcistica dell’Unione Sovietica rispose che “per considerazioni morali  gli sportivi sovietici non possono, in questo momento, giocare nello stadio di Santiago, macchiato dal sangue dei patrioti cileni”. Finalmente, quando all’ora stabilita la squadra locale scese in campo con  l’arbitro, i sovietici non c’erano. Davanti a 18 mila spettatori, camminando, i cileni arrivarono nell’area vuota dei rivali. Nessuno aveva interrottto il loro cammino. Francisco Valdès, sulla linea, spinse il pallone nella porta tra i flash dei fotografi. “Il gol della vergogna” classificò il Cile per il Mondiale di Germania 1974.

  

La finale con l’Olanda. I goal di Kempes. La voce del relatore ufficiale, José Maria Munoz, e la sua ampollosita patriottica “Venticinque milioni di argentini giocheranno il mondiale”. I festeggiamenti del campionato che l’Argentina conquistò nel 1978 visti con gli occhi di una bimba di sei anni, Raquel Robles, mentre pensa ai suoi genitori scomparsi e si chiede cosa serve vinvere quando la morte si è portata via tutto.

 

Alla fine il mondo può vedere la vera immagine dell’Argentina” celebra Joao Havelange, presidente della FIFA per 24 anni, davanti alle telecamere. Henry Kissinger, invitato speciale della giunta militare, annuncia: “Questo paese ha un grande futuro a tutti i livelli”. Il capitano della selezione tedesca, Berti Vogts, non capisce tanto casino contro la dittatura militare perchè “l’Argentina è un paese dove regna l’ordine. Io non ho visto alcun prigioniero politico”. La sua antitesi, Ronnie Hellstrom, portiere della squadra svedese, alla stessa ora in cui Germania e Polonia danno inizio alla coppa nel campo di River, accompagna la manifestazione della Madri di Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada. “Ho deciso di farlo perchè era un obbligo che avevo con la mia coscienza”. Tempi in cui ancora le cronache confondevano Kempes con Videla. Nelle tribune si cantava “Passarella, Passarella, e se Kempes si fa male ci mettiamo Videla”. Il primo passò alla storia come “il Matador”, il secondo lo condannarono come assassinio.

 

A pochi passi, il Monumental, in pieno funzionamento: centro di tortura e di sterminio della Scuola di Meccanica dell’Armata (ESMA, n.d.t.). E alcuni chilometri più in là, gli aerei che buttavano i prigionieri vivi in fondo al mare. “Abbiamo vinto il mondo” scriveva in prima pagine Siete Dìas ... e il mondiale si macchiò di sangue e la festa non fu di tutti.

  

Mimetizzato nei tempi, César Luis Menotti, che allora aveva 38 anni, si sentiva forse il comandante in un momento storico per il calcio argentino. “Io gli dicevo: ‘César, i militari ti stanno usando”. Ma lui mi rispondeva che non c’erano problemi, che li teneva sotto controllo” raccontò, prima di morire, Joao Saldanha, membro storico del Partito Comunista Brasiliano, che lasciò la conduzione tecnica della selezione del suo paese poco prima della glaria del Mondiale del Messico 1970, quando là governava la dittatura militare di Garrastazu Médici.

  

Ecco che sta entrando Videla per consegnare la coppa ... il calcio ha fatto il miracolo ... continuano ad attaccarci quelli che non ci conoscono  diceva a Radio Rivadavia il “Gordo” Munoz, un fenomeno di manipolazione informativa che, un anno dopo nel suo effimero momento di gloria – durante i festeggiamenti del mondiale giovanile del 1979 – avrebbe promosso le celebrazioni in Plaza de Mayo dove, a pochi metri, si denunciavano le sparizione davanti alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani.

 

Videla che saluta dal balcone la massa, e 250.000 decalcomanie con la scritta “Noi argentini siamo diritti e umani”.

 

In un paese dove l’autocritica non fiorisce, i principali protagonisti del mondiale di solito si riferiscono al fatto evasivamente, o sono complici. Nel giugno 2003, 25° anniversario del titolo, Daniel Passarella e Américo Gallego rifiutarono di entrare con una bandiera delle Nonne di Plaza de Mayo nello Stadio Monumental, in un incontro di omaggio ai campioni del ’78 .... e nessuno disse niente. “Nel calcio, il peggior cieco è quello che vede solo la palla” diceva Nelson Rodrigues, cronista brasiliano.

 

Dei pochi che non hanno guardato da un’altra parte, Rubén Rossi, campione mondiale giovanile nel 1979, scrive su Pagina 12 (quotidiano argentino, n.d.t.) un testo decoroso e al tempo stesso straziante, che inizia con un “Maledetto sia chi dimentica” di Severibno Di Giovanni (tipografo anarchico di origini italiane, n.d.t.).

 

Avevamo solo 18, 19 anni e avevamo ottenuto per la prima volta nella storia il campionato Mondiale Giovanile, nel lontano Giappone. Ci sentivamo euforici nel tornare al nostro paese e pensavamo solo a quel ‘pochino di gloria’ che eravamo riusciti ad ottenere su un campo di calcio per poterla offrire alle nostre famiglie e a tutti gli argentini ... Ci utilizzarono, ci manipolarono, si servirono di noi per tappare con un dito tutto il sangue che sgorgava dalle loro mani  racconta nel suo articolo quello che oggi è l’allenatore del calcio giovanile.

 

La partita inaugurale di Spagna 1982 vide di fronte, il 13 giugno, le selezioni di Argentina e Belgio sul Camp Nou. Mentre i “diavoli rossi” vincevano sorprendentemente 1 a 0 all’ultimo minuto, le agenzie di notizie annunciavano, poche ore dopo, la resa argentina nelle Malvinas.

 

Il 9 giugno 2014 la paura si mangiava l’incontro tra Argentina e Olanda all’Arena Corinthians di San Paolo. Era un momento di distrazione dopo due giorni di bombardamenti israeliani per quelli che seguivano per televisione, in un caffé della Striscia di Gaza, la semifinale del mondiale. La serata finì brutalmente quando un missile cadde sul Fun Time Beach Café, assassinando nove persone e ferendone altre quindici. Tutto quello che restava il giovedì del popolare stabilimento balneare, sulla riva del mare, era un cratere e un monticello di sabbia. Bandierine multicolori e giacchette di tela sparse. Otto persone morirono, tutte provenienti dalla vicina città di Kan Junis. Squadre di soccorso con pale meccaniche cercarono per ore, sotto un sole cocente, la nona vittima. Le discussioni sul calcio continuavano tra i giovani che aiutavano nella ricerca dello scomparso. La semifinale finì senza goal e fu a favore dell’Argentina nel conteggio delle penali. “Ma qui è finita 9 a 0” diceva Ahmed al Aqad (uno degli scampati, n.d.t.) unendo disperazione e humor nero.

 

Un paio di giorni prima Israele aveva lanciato una delle sue abituali operazioni di sterminio contro la popolazione di Gaza. Per 51 giorni continuò la sua campagna di demolizione, sotto la sigla “Margine protettore”, per terra, aria e mare della Striscia di 365 chilometri quadrati, e dove sopravvivono malamente due milioni di palestinesi. Il saldo dell’offensiva fu spaventoso. Secondo le Nazioni Unite 2.100 abitanti di Gaza morirono, tra di loro più di 540 bambini; migliaia di feriti, fuga massiccia della popolazione, distruzione di tutte le infrastrutture compreso centrali elettriche, depositi di acqua, scuole, ospedali, case.

 

La Germania, futuro campione, dovette ricorrere ai tempi supplementari per eliminare una coraggiosa Algeria che si batteva valorosamente soffrendo gli ottavi di finale nello stadio Beira-Rio di Porto Alegre. Durante la festa di massa al ritorno della delegazione africana che si visse nelle strade di Algeri, alcuni giocatori come il valencano Feghouli portavano bandiere palestinesi. Gli algerini avevano giocato in Brasile il miglior campionato della loro storia. Per i loro compatrioti, la donazione dei 6,5 milioni di euro che fecero ai castigati abitanti di Gaza aumentò il sentimento di orgoglio per i loro calciatori.

 

Questo regno della lealtà umana esercitata all’aria libera”, frase con cui Antonio Gramsci faceva omaggio al calcio, da anni è difficle sostenere in Palestina. Nella stretta striscia di terra assediata di Gaza, le macerie non lasciano vedere l’erba. E se un bambino si arrischia a fare un dribbling può trasformasi in un altro martire. Erano diversi a correre dietro una palla su una spiaggia vicino al porto. Il primo proiettile colpì il molo, molto vicino al posto dove stavano giocando. Si misero a correre per scappare ma in quel momento un secondo attacco colpì il gruppetto in pieno. “Abbiamo visto un gruppo di bambini che scappavano dal molo e sulla sabbia, dirigendosi verso l’hotel Al-Deira. Un paio di camerieri, il cuoco e qualche giornalista cominciarono a fargli segni ‘Correte qui!’. Poi sulla spiaggia scoppiò un secondo missile, proprio davanti a loro”, scrisse in seguito il giornalista William Booth del Washington Post.

 

Figli di pescatori della zona, Ahed Atef Bakr di 10 anni, Zakaria Ahed Bakr di 10, Mohamed Ramez Bakr di 11, Ismael Mohamed Bakr di 9 anni, morirono e altri 12 loro cugini furono feriti. Sicuramente stavano imitando i loro eroi.

 

Sembrava che i proiettili li stessero cercando” diceva, lo sguardo perso, Abù Hassera, con la maglietta macchiata di sangue, aiutando ad evacuare i bambini sopravvissuti. I missili provenivano da una delle navi israeliane che da anni bloccano il porto di Gaza. A pochi metri Rawdan, uno dei vicini del quartiere costiero, poteva parlare solo a fatica. Con il volto arrossato era solo capace di insultare, tra domande retoriche. “Dov’è la comunità internazionale? Dove sono i diritti umani?”. Il mondiale era finito da due giorni.

 

Ora, alla vigilia della Russia, 2 milioni di dollari ed una somma molto più forte fuori dal contratto, che raggiungerebbe secondo alcuni  i 12 milioni di dollari, un volo charter per portare la selezione da Barcellona a Israele e poi a Mosca, un hotel lussuoso con più di 90 canere a Gerusalemme per alloggiare la delegazione, senza dubbio bloccano la poca coscienza e attivano la corruzione che colpisce il calcio argentino da decenni, specialmente l’Associazione del Calcio Argentino (AFA). Epoche del führer Julio Grondona o della ‘triade’ Claudio Tapia-Daniel Angelici-Hugo Moyano. Il via libera per l’incontro, alla fine sospeso, tra le squadre di Argentina e Israele, in uno stadio costruito sopra le macerie di Al Malha, uno dei 418 paesi distrutti dagli israeliani 70 anni fa, il Teddy Kolleken (lo stadio di Gerusalemme, n.d.t.) nella Gerusalemme occupata, per garantire la giudaizzazione e la militarizzazione della millenaria città capitale della Palestina.

 

Non c’è ingeniutà possibile. In marzo Netanyahu ha inviato una lettera al governo del suo amico Mauricio Macri: “Ho istruito le più alte autorità perchè facciano tutti i preparativi necessari perchè la partita abbia luogo a Gerusalemme, nostra capitale eterna”. Senza ambiguità il primo ministro israeliano esibiva l’importanza politica dellla sede dell’incontro. La cosiddetta “Coppa 70° Anniversario di Israele” sul campo recentemente ribattezzato  Beitar ‘Trump’ Jerusalén’, il club più razzista della lega israeliana e favorito dei maggiori rappresentanti del Likud – il grande partito della destra conservatrice e tradizionale sionista – chiudeva i festeggiamenti  iniziati con l’inaugurazione dell’ambasciata statunitense nella profanata città santa. Nel mezzo dell’attuale massacro palestinese, che ha già un saldo di 142 morti e più di 19 mila feriti, nella nona settimana della Marcia del Ritorno alla sua terra ancestrale.

 

L’equazione era perfetta: gli USA mettono l’ambasciata, l’Argentina la sua selezione, Israele le pallottole e la Palestina i morti.

 

Niente poteva andare male. Lionel Messi era già stato in Israele in altre occasioni. I sinisti fanno tesoro delle sue foto del 2013 con la kippà al Muro del Pianto. I suoi multimilionari contratti comprendono l’essere il volto pubblico della tecnologia israeliana Sirin Labs. A volte, come durante il suo matrimonio a Rosario, agenzie israeliane con personale del Mossad si fanno carico della sua sicurezza personale.

 

Forse perchè “il calcio è la dinamica dell’impensato” come diceva Dante Panzeri (giornalista sportivo argentino, n.d.t.), la pressione internazionale ha impedito di tornare a sporcare la maglia argentina, facendo correre la palla sul prato macchiato di sangue palestinese. “E’ come se noi celebrassimo l’occupazione delle isole Malvinas” dichiarò il suo ambasciatore in Argentina, Husni Abdel Wahed, con una chiarezza che non lasciava margine ai dubbi.

 

Mohammed Khaalil Obaid, giovane calciatore di Gaza, invia un messaggio alla selezione argentina: “Non vi è nula di ‘amichevole’ nello sparare ai calciatori palestinesi!”. Mentre marciava pacificamente nella Grande Marcia del Ritorno, un francotiratore israeliano gli ha sparato ad un ginocchio, mettendo fine alla sua promettente carriera.

 

Fastidio e rabbia tra i politici israeliani: “Le stelle del calcio argentino hanno ceduto alle pressioni dei nemici di Israele”, ha strillato il ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Intanto il presidente Mauricio Macri cercava di dribblare, senza molto successo, la sua responsabilità nell’errore politico commesso. Il responsabile dell’Associazione Calcistica della Palestina, Yibril Rajub, ha scritto una lettera al suo omologo argentino, Claudio Tapia, in cui ricorda che “l’Argentina e tanti altri paesi latinoamericani sanno molto bene come il calcio è stato usato dalle loro rispettive dittature militare per lavare le loro gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Avremmo sperato che imparare dal passato avrebbe fatto sì che questo non si ripetesse”. E settanta bambini del campo di rifugiati di Qalandya, al-Am’ari, Jalazoun e Aida, in Cisgiordania, scrivono a Messi: “Ma la nostra felicità si è trasformata in lacrime e i nostri cuori si sono spezzati. E’ forse logico che Messi, l’eroe, vada a giocare in uno stadio costruito sulle tombe dei nostri antenati?”, chiedono nella loro lettera.

 

Tra le macerie il calcio palestinese, anche in mezzo a blocco e morti, è più importante di quanto molti suppongano. Un palestinese lo sintetizza alla rivista statunitense The Nation: “E’ il nostro spazio per dimenticare dove siamo e ricordare chi siamo”.

 

La palla torna a girare, non si tratta di vendere illusioni. E forse dobbiamo aspettarci il peggio, cioè nulla.

 

(*) Giornalista argentino

(traduzione di Daniela Trollio

 Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

News