NICARAGUA DI GENTE DOLCE...

Nicaragua di gente dolce..

di Daniela Trollio (*)

 

… così definiva il paese di Sandino lo scrittore Salman Rushdie dopo un viaggio di mesi - appena dopo la rivoluzione - tra le genti del Nicaragua appena liberatosi di una dittatura tra le più sanguinarie del continente latino-americano, quella di Anastasio Somoza di cui Franklin D.Roosevelt diceva: “Sarà anche un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”..

Ora, a quasi trent’anni dalla presa del potere del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, la gente dolce del Nicaragua torna alle cronache, dal mese di aprile.

Rivolte, scontri, repressione governativa, crisi “umanitaria” secondo i giornali borghesi di tutto il mondo.

Gli stessi ingredienti che hanno scosso il Venezuela per più di un anno. Una “rivoluzione colorata” che, nel paese del Comandante Chàvez, sembra essere fallita, almeno per il momento.

Questo fa pensare che, prima di parlare del paese di Sandino, sia il caso di dare un’occhiata alla situazione generale, non solo in America Latina ma anche nel suo potente vicino, gli Stati Uniti. Perché non ha senso parlare del Nicaragua senza parlare di  tutto il continente.

 

Tanto per cominciare, gli USA non hanno mai dimenticato il loro “cortile posteriore”, l’America Latina. Se per anni, con la scusa della “guerra al terrorismo”, sono stati impegnati su altri fronti, oggi – seminato il caos in Medio Oriente, persa la battaglia contro la Cina che è diventata la maggiore potenza economica, rimasti con le pive nel sacco in Siria – tornano al loro vecchio sogno. Un continente di paesi vassalli da utilizzare, spremere e buttare via. Sotto le ali dell’impero non crescono frutti, ma cadaveri, fame e miseria per le grandi maggioranze, territori da spogliare fino all’osso per trasformarsi in numeri sugli schermi delle Borse, profitti astronomici per le multinazionali imperialiste.

 

Del sogno fa anche parte la speranza di liberarsi di quei paesi della zona che decisero, nel secolo scorso, di non giocare più secondo le regole imposte dal potente vicino – alcuni tramite rivoluzioni armate, altri per vie diverse -  a cominciare da Cuba rivoluzionaria, dal Venezuela, dalla Bolivia e dal Nicaragua, per arrivare, in altre latitudini, alla Corea del Nord e alla Siria. 

La strategia, collaudata e affinata in un decennio di guerre in Medio Oriente, è isolare i ribelli, spezzare ogni forma di autonomia, di aspirazione alla sovranità nazionale, di solidarietà e integrazione, il “divide et impera” dei romani riscritto dai cervelloni al servizio dell’imperialismo comunque li si voglia chiamare, CIA ed altre agenzie del Dipartimento di Stato USA.

E lo fanno non più ricorrendo, come in altri anni, all’instaurazione di sanguinarie dittature rivelatesi, nel corso del tempo, troppo costose economicamente e politicamente da sostenere, ma con una guerra di 4° generazione, a bassa intensità, con golpe parlamentari come in Brasile, e con “ribellioni” violente della cosiddetta “società civile” come in Venezuela, solo per fare due esempi.

 

Un canale, due canali...

Dal 2015, secondo il Fondo Monetario Internazionale, la Cina occupa il primo posto tra le economie mondiali. All’economia cinese seguono quelle di USA, India, Giappone, Germania, Russia, Brasile, Indonesia, Inghilterra e Francia, al decimo posto. Cioè delle 10 maggiori economie del pianeta, 5 appartengono a paesi del Sud del mondo, che hanno ormai un ruolo fondamentale nella ridefinizione dei rapporti internazionali..

Che c’entra in questo il Nicaragua? Ah, c’entra, c’entra …. dato che il governo sandinista  aveva da poco annunciato un mega-progetto per lo scavo, sul suo territorio, di un altro canale interoceanico – che avrebbe fatto concorrenza a quello di Panama.

Facciamo un passo indietro:  la costruzione del canale di Panama, fondamentale per collegare l’Atlantico col Pacifico, cominciò con l’autorizzazione del governo colombiano (all’epoca Panama faceva parte della Grande Colombia) nel 1901 agli Stati Uniti perché lo costruissero. Due anni dopo il governo colombiano decise di non ratificare l’accordo. Gli USA organizzarono allora una sommossa a Panama, minacciando l’intervento dell’esercito. Risultato: Panama divenne una repubblica “indipendente” e gli USA ottennero la concessione perpetua della Zona del Canale.

E chi finanzierebbe il nuovo canale nicaraguense? sorpresa… la Cina.

 

La rotta del petrolio

Il petrolio, lo sappiamo, è l’ingrediente fondamentale delle economie moderne. Nel periodo della “autosufficienza energetica”, che corrisponde più o meno alla presidenza di Barak Obama, gli USA non solo continuarono – beneficiando anche della caduta, indotta, del prezzo del petrolio – ad importare petrolio, ma aumentarono considerevolmente le loro riserve strategiche grazie all’utilizzo all’interno della tecnica del fracking (frattura idraulica, l’immissione di getti ad altissima potenza in formazioni rocciose contenenti idrocarburi). Ma il fracking, che pareva la soluzione, portava con sé molti problemi, tra cui la formazione di terremoti e venne lentamente abbandonato. A questo punto tornava ad essere fondamentale il dominio sui paesi produttori. Non è un caso infatti che nel 2015 Obama dichiari che il Venezuela, paese che detiene la prima riserva mondiale di petrolio, è una “minaccia inusuale straordinaria” alla sua sicurezza nazionale. E non è un caso se la crisi brasiliana conclusasi con la defenestrazione della presidente eletta Dilma Roussef comincia con Petrobràs (l’industria statale del petrolio brasiliana) e che uno dei primi decreti della destra, che articolò e condusse il colpo di Stato parlamentare, abbia proposto la sospensione del regime giuridico di cui godeva Petrobràs, che permetteva la gestione esclusiva delle riserve di petrolio off shore. Così è stata velocemente affidata la concessione dei lotti di petrolio a multinazionali principalmente di capitale statunitense e sono stati  de-industrializzati sia Petrobràs che l’intero settore,  tanto che il Brasile oggi, con gravi conseguenze per il paese, è diventato un importatore di diesel.

E così torniamo alla Cina. Per Pechino avere una presenza in Centroamerica significa cercare di bilanciare la presenza di Washington nel Pacifico, dove gli USA hanno spostato la maggior parte della propria flotta con la chiara intenzione di contenere l’espansione commerciale politica cinese. Avere una base cinese di operazioni, commerciali e chissà forse anche militari, nella terra di Sandino è qualcosa che Washington non può sopportare, in vista di  un nuovo periodo di recessione della sua economia.

E l’imperialismo nord-americano non dimentica neanche le lezioni storiche impartitegli dal popolo nicaraguense per ben tre volte nello scorso secolo: quando sconfisse il mercenario Willliam Walker, quando Sandino e il suo Esercito di Uomini Liberi gli fece mordere la polvere ed espulse le sue truppe dal territorio e quando, infine, fece cadere il dittatore Somoza.

 

Errori

Certo è  ovvio che una protesta non nasce dal nulla, al di là di quelle che possono essere le responsabilità reali, e la storia degli ultimi anni ce lo dimostra. Vediamone alcune, sempre con la chiara coscienza che per noi, lontani a casa nostra, è facile giudicare.

Il governo sandinista ha fatto ricorso, negli anni passati, a patti “tattici” con i suoi nemici storici: gli industriali a cui ha concesso una via preferenziale e la Chiesa cattolica, che lo hanno assai mal ripagato.

I primi hanno dato il via alle proteste dopo che il governo Ortega aveva annunciato un aumento dei contributi previdenziali ai fondi pensione del 3,5% a loro carico. Da notare che l’aumento per i lavoratori era solo dello 0,75% e andava contro le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale di rialzare drasticamente l’età pensionabile. La Chiesa è stata in prima linea nell’organizzare le proteste degli “studenti”. Certo, tale riforma - che dopo i primi scontri il governo ha ritirato - era stata decisa senza alcuna consultazione né con la base sandinista né con la cittadinanza. E questo si è rivelato un grosso errore, aprendo la via alle proteste, non solo a quelle legittime.

Altro grosso problema, storico, dei sandinista è la corruzione diffusa a tutti i livelli, fin dall’ascesa della rivoluzione. E infine un potere rivoluzionario concentrato  nelle mani della coppia Ortega/Murillo, sempre più auto-isolatasi dalla propria base e dalle grandi maggioranze del popolo, che ha fatto ricorso troppo spesso a soluzioni autoritarie.

 

Ma... c’è un ma. Il fatto che il governo sandinista – nonostante i suoi errori - mantenga relazioni di cooperazioni con i paesi dell’ALBA, con Cuba e con il Venezuela, con Cina e Russia, è per Washington un motivo sufficiente per provocare un “cambio di regime”, eufemismo utilizzato per non parlare di colpi di Stato e del successivo bagno di sangue (Libia docet) necessario per restaurare il vecchio ordine.

Per questo la Casa Bianca ha cercato in tutti i modi di intromettersi nella politica nicaraguense finanziando con generosità i partiti di opposizione, un variopinto ventaglio di ONG e organizzazioni della “società civile”, il cavallo di Troia delle guerre di 4° generazione, preparando così le condizioni per un’eventuale “invasione umanitaria” coordinata dal Comando Sud statunitense con la complicità servile dei governi che compongono il Gruppo di Lima.

Basti dire che il riferimento principale degli “studenti” è l’imprenditore Piero Coen de Montealegre, l’uomo più ricco del Nicaragua.

Il modus operandi è sempre lo stesso, quello raccomandato dai manuali della CIA: paramilitari e mercenari mascherati da studenti universitari, ben organizzati e ben armati con mortai, pistole e fucili, incendi, saccheggi, caos nelle città dove vengono distrutti, prima degli edifici governativi, ospedali, scuole, e date alle fiamme le ambulanze. L’abbiamo già visto, non ultimo in Venezuela tra il 2014 e il 2017, in Libia con i “combattenti per la libertà nel 2011 e l’azione delle bande neonaziste in Ucraina nel 2013.

Ogni somiglianza NON è una coincidenza, è la stessa strategia, solo applicata in luoghi differenti.

 

Il poco detto sopra ci porta ad una conclusione. A fronte dell’espansione dei governi popolari antimperialisti del secolo XXI, i rappresentanti del grande capitale hanno deciso di impegnarsi a fondo per restaurare il progetto neoliberista: va mantenuta l’egemonia degli USA sul sistema mondiale per frenare l’espansione economica, politica e ideologica che sorga nelle regioni cosiddette periferiche; va preservato il ruolo del cosiddetto “libero mercato” proteggendo i profitti dei monopoli privati ai quali devono inchinarsi i governi e gli Stati.

Imperialismo, non c’è altra parola per definirlo. Speriamo però che – come è successo nel caso dell’Iraq, della Libia, del Venezuela -  non debbano passare decenni per capirlo e riconoscerlo.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto San Giovanni (Mi)

 

 

Anteprima di nuova unità rivista di politica e cultura comunista

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