NICARAGUA 40 ANNI DOPO

 

Nicaragua. 40 anni dopo l’insurrezione popolare contro la tirannia, la rivoluzione continua (di G. Colotti)

18/07/2019, il Faro di Roma. Quotidiano di informazione

I costi. Non siamo più capaci di assumerci i costi: soprattutto nelle sinistre dei paesi capitalisti, dove pur ti insegnano a calcolare, ovvero a lucidare le scarpe del padrone, fin da quando emetti il primo vagito come “cittadino consumatore”. Intendiamo i costi dei cambiamenti veri, quelli che – da Spartaco a Lenin – hanno consentito agli oppressi di strozzare gli oppressori stringendogli al collo le loro catene. “Non importa se non mangiamo per un mese, perché non mangiamo da 44 anni”, gridava il popolo nicaraguense mentre lottava per liberarsi dalla morsa della dittatura somozista, la più longeva del continente.

Nell’anno che precede la vittoria del Frente sandinista, avvenuta il 19 luglio del 1979, mentre l’insurrezione popolare avanza, le forze imperialiste fanno di tutto per ottenere la resa della popolazione: oltre al cibo, manca la luce, l’acqua. Le scuole sono chiuse. Gli studenti hanno usato i banchi per costruire barricate, hanno scambiato i libri con armi di qualunque tipo: bombe artigianali, pistole, pietre…

 

Pochi mesi prima, il dittatore Somoza ha ricevuto in prestito dagli Stati Uniti 20.160.000 dollari per l’acquisto di armi con le quali ha promesso di liquidare “gli insorti, i sovversivi”. L’allora presidente USA Jimmy Carter gli ha inviato una lettera di congratulazioni per i miglioramenti ottenuti nel campo dei… diritti umani. Intanto, un ex reduce dal Vietnam pubblica apertamente sui giornali statunitensi un appello per reclutare mercenari da impiegare contro i sandinisti. Oltre 1000 rispondono all’appello altrettanto apertamente, senza che nessuna autorità intervenga per impedirlo.

 

Allora il mondo è ancora diviso in due blocchi, la lotta al comunismo è senza quartiere. Dal Cile al Brasile – che, insieme all’Argentina, alla Spagna, alla Francia e a Israele fornisce armi e mercenari a Somoza – sale l’allarme contro “il castro-comunismo che, grazie alla lotta contro Somoza in Nicaragua, sta mettendo un piede irremovibile nel continente”. I fautori delle democrazie di tipo occidentale, com’è allora quella venezuelana del presidente Carlos Andrés Pérez chiedono l’intervento dell’OSA per porre fine alla “guerra civile”. Dall’esilio, il poeta e sacerdote nicaraguense Ernesto Cardenal che appoggia i sandinisti, controbatte: “In Nicaragua non c’è una guerra civile, ma un’insurrezione popolare contro la tirannia”.

Una tirannia ben supportata dalle grandi multinazionali, di cui Somoza è socio, così come conta amici potenti a Washington per aver studiato all’accademia militare di West Point, dove si forma l’élite castrense USA. I suoi padrini nordamericani sono convinti che, se lui cade, anche le dittature centroamericane da loro sostenute non avranno vita lunga, messe alla prova come sono dalla resistenza popolare e dalla guerriglia: dal Salvador, all’Honduras al Guatemala. In Centroamerica i massacri si succedono, ma non si pensa a piangere o a vittimizzarsi, piuttosto a denunciare e a organizzarsi. Nel libro “Sulla strada di Sandino”, del giornalista brasiliano Paulo Cannabrava Filho (che oggi non appoggia più il governo Ortega), pubblicato in Italia nel 1978 da Jaca Book, si leggono alcune interviste ai guerriglieri di allora. Voci che servirebbero ancora a rinfrescare le idee a quanti si rifugiano in una visione del mondo basata su una morale a senso unico e non sulla storia come necessità e scontro di interessi contrapposti.

Riportiamo qui il frammento dell’intervista a Dora Maria Téllez, nome di battaglia “comandante Due”, oggi schierata contro il Fsln e militante dell’Mrs. Le chiede Cannabrava: “Quando ha partecipato alla sua prima azione di guerriglia?” Risponde Téllez: “Nell’ottobre dell’anno scorso”. “Che tipo di azione fu? E’ possibile saperlo?” “Organizzammo una grande imboscata a San Fabián, contro la Guardia Nacional. Morirono 18 guardie e vi furono parecchi feriti”. “E voi?” “Nessuna perdita”. “Fu un attacco a una caserma o che altro?” “Fu un’imboscata. Stavamo andando alla caserma di Ocatal, ma dovemmo combattere prima”. “Che ruolo aveva, lei?” “Maneggiavo una mitragliatrice”, “Che tipo di mitragliatrice? “Una mitragliatrice da 30 mm.” “E’ più grande di lei, no?” “E’ più grande e più pesante di me”. “Come si sentiva?” “Tranquilla…”

Nella fase finale dell’offensiva contro Somoza, il campo di chi vuole liberarsi dalla dittatura si allarga, favorendo l’azione del Frente Sandinista, che ha una visione marxista e intende spingere l’orologio della storia verso il socialismo. Si uniscono sacerdoti, suore, vescovi, piccola borghesia e settori imprenditoriali, ormai scomodi con la dittatura. Anche costruire alleanze implica un costo, e il conto può presentarsi dopo…

In molti si recano a combattere da ogni parte del continente. Al riguardo, il saggio di Cristian Pérez, “Companeros, a las armas: combatientes chilenos en Centroamérica (1979-1989)” descrive la storia di uomini e donne cileni che si graduarono come ufficiali nelle scuole militari di Cuba e di altri Stati socialisti, che combatterono nella rivoluzione nicaraguense, nella guerriglia salvadoregna e poi tornarono in Cile per lottare contro Pinochet. Gli internazionalisti arrivano anche dall’Europa, soprattutto dopo la vittoria del sandinismo e quando il vento della rivoluzione comincia a scemare in Europa.

Alla fine degli anni Settanta, in Italia si combatte. Che sia dovere di ogni internazionalista cambiare le cose a fondo nel paese in cui si vive, è ancora un imperativo categorico. Ma quando l’ipotesi rivoluzionaria si allontanerà dal novero delle prospettive nell’Italia delle grandi ristrutturazioni economiche, il sandinismo vittorioso in Nicaragua costituirà una sponda per più d’uno: fino al cambio di marcia che riporterà la destra al comando e che lascerà in quella crisi orfani e delusi di ogni tipo. Il libro di Ines Arciuolo, “A casa non ci torno”, pubblicato da Stampa alternativa offre un piccolo esempio. Arciuolo è tra i 61 operai licenziati dalla Fiat nell’ottobre del 1979 nell’ambito della “lotta al terrorismo”. Altri 23.000 verranno espulsi l’anno dopo, con l’avallo delle confederazioni sindacali e dell’allora Partito comunista. Dopo l’espulsione dalla fabbrica, Arciuolo si trasferirà per 5 anni in Nicaragua.

Molti giornalisti e intellettuali che si erano recati “sulla strada di Sandino”, seguiranno poi le contorsioni di quei 31 deputati – sui 39 eletti con il Frente sandinista di liberazione nazionale (Fsln) – che lasciano il partito per dar vita a un nuovo soggetto politico, il Movimento di rinnovamento sandinista (Mrs), che nasce il 18 maggio 1995. Guidato dall’ex vicepresidente della repubblica Sergio Ramirez, l’Mrs riunisce nomi noti come l’ex sacerdote e ex ministro della Cultura Ernesto Cardenal e alcuni ex comandanti come Doria Maria Téllez che, nel gettare l’intera croce della crisi del Fsln addosso a Daniel Ortega e a Rosario Murillo, promettono di riscattare il sandinismo originario. La loro pratica – a partire dall’alleanza nella Convergencia Nacional – si dimostrerà di tutt’altro segno.

Due indicatori essenziali consentono di misurare i termini di un’azione politica, anche nei periodi più neri: la questione sociale e quella antimperialista. Nell’un caso e nell’altro, l’Mrs ha dimostrato di guardare altrove, sia restando inesiste come opposizione parlamentare, sia schierandosi poi contro le nuove alleanze solidali sud-sud, emerse con la vittoria di Chavez in Venezuela. Quelli che accusavano Daniel Ortega di aver dismesso la divisa verde-oliva e il marxismo per indossare gli abiti del pragmatismo e del cristianesimo non hanno ripreso la bandiera di Sandino, il “generale degli uomini liberi”, ma quella a stelle e strisce dell’imperialismo nordamericano, aizzando le violenze scatenate l’anno scorso in Nicaragua sul modello delle “rivoluzioni colorate”.

Ovviamente nessuno può credere che il Fsln sia risorto dalle ceneri come la Fenice senza aver perso qualche pezzo per strada: men che meno i sandinisti rivoluzionari, che sanno cosa significhi vincere e poi essere sconfitti, sprofondare negli abissi del neoliberismo e tornare a vincere in un paese immerso nella globalizzazione capitalista. Tuttavia, pur nel mutato contesto, sia a livello interno che internazionale, il Fsln di oggi mantiene un filo preciso tra gli intenti di ieri e quelli di oggi, quando si definisce “cristiano, solidale e sandinista”. Accusare di tutti i mali un dirigente, per quanto carismatico e rappresentativo, significa svicolare dai problemi.

Riprendiamo di nuovo l’intervista di Cannabrava Filho a Dora Téllez. Il giornalista brasiliano le chiede allora: “Un governo democratico popolare rispetterebbe la proprietà privata?” E lei risponde: “Sì. Ciò è ben chiaro nel nostro programma. Esproprieremo i beni dei Somoza, dei militari somozisti e dei civili somozisti che conosciamo e che sappiamo aver lucrato a fianco dei Somoza e dello sfruttamento. Il trenta per cento delle terre coltivate è dei Somoza. Lo Zuccherificio Montelimar è dei Somoza, la Transportes Maritimos MAMENIC, l’unica linea aerea, LANICA; il porto Somoza; gli allevamenti di bestiame, le fattorie di cotone, di caffè; le finanziarie, tutto, persino la Plasmaféris, che traffica con il sangue umano. Ai restanti capitalisti sono avanzate le briciole”.

La messa in questione dei rapporti di proprietà è certamente la cifra del rapporto tra riforme e rivoluzione, tra il campo del possibile e quello degli ideali. Quando il capitalismo si sente forte e si vede minacciato nei suoi interessi, anche il campo delle riforme viene rimesso in questione, com’è accaduto in Europa, in Brasile e come il Fondo Monetario Internazionale avrebbe voluto che accadesse anche con la riforma della Seguridad Social in Nicaragua. Sostenere gli interessi di classe è quindi sempre un buon indicatore, uno stimolo a spingere più avanti l’orologio della storia. Ma quando il fulcro delle proteste parte da università chiaramente schierate nel campo dei poteri forti (come la UPOLI nicaraguense, proprietà di una chiesa protestante negli USA); quando in ballo c’è uno scontro di egemonia tra Stati Uniti e Cina a proposito del Canale interoceanico; quando Trump mette il Nicaragua nella troika dei paesi da abbattere insieme a Cuba e Venezuela, non possono esserci dubbi sull’uso strumentale delle contraddizioni, delle debolezze e anche degli errori. Spostare l’asse del confronto dal Nicaragua (dal continente latinoamericano) a Miami sarebbe un errore mortale.

La rivoluzione sandinista, l’ultima del secolo scorso, è stata un laboratorio di speranze e di aspettative, e resta ancora densa di insegnamenti e di domande aperte consegnate alla storia, soprattutto sui costi da assumersi se si decide di affidarsi alle urne oppure al fucile. Lo vediamo, per certi versi, in Venezuela: disinnescare la guerra interna, scatenata da quelle stesse forze che finanziarono quella in Nicaragua, può comportare costi, così come comporta costi assumere la dialettica costante tra conflitto e consenso quando si è deciso di non mettere fuorilegge la borghesia. Una porta stretta che si ripropone anche oggi a fronte della crisi conclamata della democrazia borghese, e della chiusura degli spazi di agibilità in sicurezza per un’opposizione veramente alternativa al capitalismo. Lo si vede in Colombia o in Honduras, ma anche in Europa. Quando non si distrugge la memoria storica, lasciando spazio o assumendo quella dei vincitori, dalle sconfitte si può imparare. Si può imparare dalla caduta dell’Unione Sovietica, dalla resistenza della rivoluzione cubana, dalla caduta di Allende, e dal Nicaragua sandinista, che ha chiuso un ciclo ma non la prospettiva.

Geraldina Colotti

 

 

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