PIAZZA FONTANA CINQUAT'ANNI DOPO

Piazza Fontana cinquant’anni dopo

Una ferita che rimane aperta  

Perchè dobbiamo ancora indignarci per questa cinica montatura del potere in funzione antipopolare

 

   Qualcuno disse che quel giorno perdemmo l'innocenza e scoprimmo la cattiveria, il complotto, la faccia assassina della politica. Non so se questo possa essere vero.

 

E' probabile che quell'innocenza non sia mai esistita: per noi italiani quel 12 dicembre del '69 arrivava dopo una lunga convivenza con alluvioni e frane, mafia e potere religioso, scioperi e scontri di piazza. In quell'epoca di boom economico, prodotto dallo spostamento di milioni di lavoratori dal sud al nord e all'estero, la nostra fragile democrazia borghese era ancora impregnata, appena un quarto di secolo dopo la caduta del fascismo, di funzionari e portavoce del fascismo.

 

Una folta schiera di servi del regime, pronti a cambiar bandiera quando cambia il vento o scappare come topi dalla barca che affonda, sottobosco ideale per trame che attraversavano magistratura e polizia, i servizi segreti e le basi Nato, per organizzare la violenza dello stato al fine di tenere in piedi il regime, garantire il funzionamento delle istituzioni repressive, magistratura e polizia, proteggere le illegalità e l'uso di parte dei mezzi di informazione.

 

 Ma non era un paese cupo, il nostro. Dall'altra parte esisteva ed era ben vivo un forte e articolato movimento di classe, operaio e proletario, che garantiva la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sul versante sindacale, mentre su quello politico garantiva l'espressione politica delle proprie avanguardie, sfidando l'egemonia della classe borghese.  

Nel mezzo dell'autunno caldo, nel pieno della lotta di classe, quel giorno, contemporaneamente, scoppiarono bombe a Roma e a Milano. Quest'ultima, in una borsa collegata ad un timer, sotto il tavolo centrale della Banca dell'Agricoltura, uccise diciassette persone e ne ferì seriamente ottantacinque.   

Fu l'inizio. Dopo piazza Fontana, il 22 luglio 1970, l'attentato al treno del Sole a Gioia Tauro (6 morti); il 17 maggio 1973, davanti alla questura di Milano, un ordigno causò 4 morti e 45 feriti; il 28 maggio 1974, una bomba in piazza della Loggia a Brescia provoca 8 morti e 103 feriti; il 4 agosto 1974, l'attentato al treno Italicus (13 morti e 48 feriti); fino all'orrore della bomba di Bologna, il 2 agosto 1980 che fece 85 morti e 200 feriti. Undici stragi che durarono 15 anni, dal 1969 al 1984, intervallate da tentativi di golpe o complotti militari.  Una strategia della tensione, di marca fascista, intessuta da ipocrisie, violenze e menzogne che non ebbero una fine.

 

Per nessuna di queste stragi è stato trovato un colpevole. La sentenza della Corte di Cassazione del 3 maggio 2005 condannò i familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana a pagare le spese processuali, mentre lasciò impuniti o sconosciuti esecutori e mandanti.

 

Per capirne le origini è necessario risalire a quegli anni di risveglio dal torpore che durava dal dopoguerra. Succede che, come per gli studenti un anno prima, anche gli operai decidono, bruscamente, di mettere in discussione la loro condizione. Le contestazioni davanti ai cancelli delle fabbriche, le rivendicazioni che da sindacali si trasformano in politiche, le dimostrazioni e i cortei che quotidianamente paralizzano tante parti del paese, registrano una spinta ed una partecipazione via via crescenti, attraverso volantinaggi e sit-in, serrate e scioperi che costringono allo schieramento della polizia armata davanti ai cancelli, alle provocazioni dei fascisti e della stessa polizia nelle manifestazioni, alla pioggia di denunce ed arresti da parte della magistratura.

 

Solo un mese prima, in novembre, con lo sciopero dei metalmeccanici, arriva la prima ondata di denunce (quattordicimila in tutta Italia), mentre a spinte di centomila per volta cortei e manifestazioni richiedono il rilascio di operai e compagni arrestati. La classe operaia, con ogni evidenza, si dimostra vincente.

Risultò quindi evidente che quelle bombe non furono una combinazione, come non fu una combinazione il depistaggio, che cercò da subito i responsabili tra gli anarchici e tralasciò la pista nera, dei fascisti, già autori – guarda caso - in tutto il '69 di molti attentati. Gli anarchici funzionarono da capro espiatorio. Preso Valpreda e "suicidato" Pinelli, lo stato avrebbe così voluto mettere la parola fine a quella stagione di lotta, impartendo una dura lezione al movimento di classe: la giustizia non è uguale per tutti. Ma così non sarà.

 

Subito dopo Piazza Fontana, infatti, la campagna stampa avviata dalla sinistra extraparlamentare contro la "strage di Stato" smonta la tesi accusatoria contro gli anarchici e costruisce una mobilitazione politica per allargare gli spazi di verità e giustizia nel nostro paese. Anche chi era assuefatto alla menzogna scopre il volto autentico del potere.

Un episodio di questo periodo è esemplare del modo con cui i poteri pubblici scelgono gli interessi da tutelare, associandosi alla parte più occulta dei poteri privati. Nel corso del 1971 il giudice Guariniello, durante una perquisizione presso la sede della Fiat, per una causa di lavoro intentata da un ex dipendente, scopre una serie di contenitori metallici che racchiudono "schede informative" relative a 354.077 individui e che raccolgono informazioni su dipendenti ed altri cittadini, militanti addetti ai volantinaggi a Mirafiori, giornalisti, professori, uomini politici. In bella evidenza, il giudice scopre le prove dei versamenti effettuati dalla Fiat a carabinieri, poliziotti ed agenti dei servizi (Sid) per il loro lavoro di schedatura.

Tutto finì prescritto otto anni dopo, ma soprattutto dopo che la procura, facendo riferimento al rischio di incrinare i buoni rapporti tra magistratura e polizia, trovò inopportuno accusare i massimi dirigenti di un complesso industriale che "dà lavoro e benessere a tutta la popolazione", con la possibilità di "innescare uno stato di agitazione" tra le masse operaie della Fiat.

 

Piazza Fontana fu all'origine del decennio denominato "gli anni di piombo". Il piombo di chi? Nel vuoto lasciato da uno stato reticente, ambiguo e palesemente coinvolto e da una giustizia di parte, lo stragismo si intreccia con gli omicidi dei militanti. Serantini, Franceschi, Lo Russo, Bruno, Saltarelli, Zibecchi, Costantino sono uccisi da poliziotti o carabinieri; Pinelli "cade" dalla finestra della questura; Miccichè viene ucciso da una guardia giurata; Brasili, Amoroso, Varalli, Miccoli, Rossi dai fascisti. A questi si aggiungono i tanti compagni morti ammazzati per i quali non sarà possibile risalire all'esecutore materiale, come Fausto e Iaio nel '78. In mezzo a questo decennio viene approvata il 22 maggio 1975 la prima legge eccezionale sull'ordine pubblico, la legge Reale, passata col voto determinante dei fascisti, che riconosce alla polizia il diritto di sparare, incoraggiando e proteggendo l'omicidio di stato.

 

Piazza Fontana (e dintorni) è dunque prima di tutto un fatto da non dimenticare e che comporta indignazione e rabbia in tutti noi.

Ma è solo un tragico episodio del passato, superato dagli avvenimenti e dall'evoluzione della società? Niente affatto!

Anzitutto la totale impunità di esecutori e mandanti costituisce motivo fondante per cui questa vicenda non può appartenere al passato, anche se il regime con il corollario dei media vorrebbe farci intendere che quell'epoca è definitivamente chiusa. Chi è Stato?

 

Viene da chiederci se sia esistito ed esista uno “stato profondo” anche in casa nostra, quel connubio tra spioni di stato, neo fascisti, padroni, con corollario di giornalisti, magistrati e poliziotti a coprire le spalle, in cui i mafiosi stanno sempre alla finestra. Viene facile pensarlo: l’impunità dei padroni e dei loro servi spazia a tutto campo. Da quello politico a quello del malaffare a quello economico. E’ di questi giorni la decisione della Corte di Cassazione di rifare il processo “Mafia Capitale”; la parola “mafia” va tolta da ogni imputazione a carico di Carminati, Buzzi & Co. Loro non sono in odore di mafia, ha detto la Suprema Corte, si tratta di una semplice associazione a delinquere, anzi due. L’aspetto politico-mafioso è risolutamente negato: un bel regalo per tutta la feccia politico affarista della capitale.

In quella inchiesta al vertice supremo dell’organizzazione stava Massimo Carminati, già fascista e stragista dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), elemento di spicco della destra eversiva romana, abilitato ai lavori sporchi per conto della banda della Magliana. E' lo stesso Carminati che venne pesantemente indiziato assieme ai suoi camerati Mario Corsi e Claudio Bracci per l'omicidio a sangue freddo dei compagni Fausto e Iaio, uccisi a Milano nel '78, e poi prosciolti "pur in presenza di significativi elementi giudiziari e di rilevanti dichiarazioni di ben sei pentiti". Il marciume che emergeva a Roma era stato costruito dall'eversione fascista negli anni '70 e cresciuto nel sottobosco politico di regime (il mondo di mezzo) che ha garantito prima la loro totale impunità e poi la scalata ai palazzi del potere.

Le foto che ritraggono questi personaggi con tanti esponenti dell’ex “governo del cambiamento", di marca PD, testimoniano una volta di più la natura di questo partito, decisamente organica al grande capitale.

Le “grandi inchieste” che emergono di quando in quando starebbero lì a testimoniare del buon livello democratico dei nostri apparati di potere. Fumo negli occhi. Nel corso di questo mezzo secolo e più le caste al potere, occulte o meno che siano, hanno garantito ai borghesi di ogni ordine e grado di passare indenni le loro crisi. E quando non ci pensavano loro, a salvarli provvedevano gli “equilibri internazionali”: nessun criminale di guerra italiano venne mai processato nel dopoguerra, anzi, diversi di loro furono reintegrati negli apparati dello stato come questori, prefetti, responsabili dei servizi segreti, magistrati.

Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”, conserva un ruolo centrale nell'analisi politica di quegli anni. Lo assume ancor di più per tanti di noi comunisti che, a quella strage, lontana negli anni ma vicinissima nella coscienza, dobbiamo la nostra formazione politica.

 

Luciano Orio  

 

 

 

 

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