Coronavirus e resto del mondo

 

La pandemia è un portale

 di Arundhati Roy (*); da: rebelion.org; 11.4.2020

 

Chi può usare la frase “è diventato virale” oggigiorno senza rabbrividire un poco? Chi può osservare qualcosa – una maniglia della porta, un contenitore di cartone, una borsa di verdura – senza immaginare che sia pieno di quelle bolle invisibili, non morte ma senza vita, piene di ventose che aspettano di attaccarsi ai nostri polmoni?

A chi capita di baciare un estraneo, di salire su un autobus o di mandare a scuola il figlio senza sentire una reale paura? Chi può pensare a qualsiasi piacere ordinario senza valutarne il rischio? Chi di noi non è un epidemiologo, un virologo, uno specialista di statistiche o un profeta? Quale scienziato o medico non sta pregando in segreto per un miracolo? Quale sacerdote non sta, almeno in segreto, sottomettendosi alla scienza? Ma, anche mentre il virus prolifica, chi non si emozione per l’ondata di canti dei passeri nelle città, dei pavoni che ballano agli incroci delle strade e del silenzio dei cieli?

 

Il numero di casi in tutto il mondo questa settimana è aumentato più di un milione. Più di 500.000 persone sono morte. Le proiezioni suggeriscono che il numero aumenterà a centinaia di migliaia, forse di più. Il virus si è mosso liberamente per le strade del commercio e del capitale internazionale, e la terribile malattia che ha portato sulla sua strada ha chiuso gli umani nei loro paesi, nelle loro città, nelle loro case.

Ma, a differenza del flusso del capitale, questo virus cerca la proliferazione, non il profitto e, quindi, senza rendersene conto, in una certa misura ha ribaltato la direzione del flusso. Si è burlato dei controlli dell’immigrazione, della biometria, della vigilanza digitale e di qualsiasi altro tipo di analisi dei dati, e ha colpito con forza, fino ad ora, nelle nazioni più ricche e potenti del mondo, fermando il motore del capitalismo. Forse temporaneamente, ma almeno per un tempo sufficiente perchè esaminiamo le sue parti, facciamo una valutazione e decidiamo se vogliamo aiutare ad aggiustarlo o cercare un motore migliore.

  

Ai mandarini che maneggiano questa pandemia piace parlare  di guerra. Nemmeno utilizzano la guerra come metafora, la usano letteralmente. Ma se fosse davvero una guerra, chi sarebbe meglio preparato degli Stati Uniti? Se i soldati in prima linea non avessero bisogno di guanti e mascherine ma di armi,  bombe intelligenti, bunker, sottomarini, aerei da combattimento e bombe nucleari, ci sarebbe scarsità?

  

Notte dopo notte, dall’altro lato del mondo, alcuni di noi guardano le conferenze stampa del governatore di New York con una fascinazione difficile da spiegare. Seguiamo le statistiche e ascoltiamo le storie di ospedali sommersi negli Stati Uniti. Racconti di infermiere mal pagate e con un eccesso di lavoro che devono farsi le mascherine con i sacchi della spazzatura e vecchi impermeabili, rischiando tutto per aiutare i malati. Storie sugli Stati che sono obbbligati a competere tra loro per i respiratori, sui dilemmi dei medici riguardo a quale paziente deve averne uno e quali devono invece morire.  E pensiamo, “Dio mio! Questa è l’America!”.

 

La tragedia è immediata, reale, epica e si sviluppa davanti ai nostri occhi. Ma non è nulla di nuovo. Sono i resti di un treno che è andato per la stessa strada per anni. Chi non ricorda i video degli “abbandoni di pazienti”: persone malate, ancora con il camicione dell’ospedale, nude, buttate agli angoli delle strade? Le porte degli ospedali si sono chiuse con troppa frequenza ai cittadini meno fortunati degli Stati Uniti. Non importa quanto erano malati o quanto soffrivano.

Almeno non finora, perchè ora, nell’era del virus, la malattia di una persona povera può danneggiare la salute di tutta la società ricca. E tuttavia, ancora adesso, Bernie Sanders – il senatore che ha fatto la campagna per la salute  pubblica per tutti – è considerato un caso atipico dalla Casa Bianca e anche dal suo partito.

 

E che dire del mio paese, il mio paese povero e ricco, l’India, sospeso in qualche luogo tra il feudalesimo e il fondamentalismo religioso, tra la casta e il capitalismo, governato da nazionalisti indù di estrema destra?

  

In dicembre, mentre la Cina lottava contro il focolaio del virus a Wuhan, il governo dell’India stava lottando contro una rivolta di massa di centinaia di migliaia dei suoi cittadini, che protestavano contro la spudoratamente discriminatoria legge di cittadinanza anti-musulmana che era appena stata approvata in parlamento.

 

Il primo caso di Covid-19 è stato trovato in India il 30 gennaio, solo qualche giorno dopo che l’onorevole invitato principale alla nostra ‘Sfilata del Giorno della Repubblica’, il divoratore di boschi dell’Amazzonia e negazionista del coronavirus, Jair Bolsonaro, aveva lasciato Delhi. Ma c’era parecchio da fare prima che il virus entrasse nel calendario del partito di governo. C’è stata una visita del presidente Donald Trump programmata per l’ultima settimana del mese. L’aveva attirato la promessa di una audience di un milione di persone in uno stadio sportivo nello Stato di Gujarat. Questo ha portato via molto denaro e molto tempo.

 

Poi ci sono state le elezioni nell’Assemblea di Delhi, che il partito Bharatiya Janata (BJP, il partito di governo di Narendra Modi, n.d.t.) aveva programmato di perdere, a meno di migliorare il suo gioco, cosa che ha fatto scatenando una campagna nazionalista indù vergognosa, piena di minacce di violenze fisiche e di accuse di “tradimento”. Ha perso, in tutti i modi. Allora c’è stato il castigo per i musulmani di Delhi, incolpati per l’umiliazione. Moltitudini armate di vigilanti indù, sostenuti dalla polizia, hanno attaccato i musulmani nei quartieri della classe operaia del nord-est di Delhi. Sono state bruciate case, moschee e scuole. I musulmani, che si aspettavano l’attacco, hanno contrattaccato. Più di 50 persone, tra musulmani e indù, sono state assassinate.

 

Migliaia di persone si sono spostate nei campi di rifugiati, nei cimiteri locali. I corpi mutilati venivano ancora gettati nella rete delle acque di scarico sudice e puzzolenti quando i funzionari di governo hanno avuto il loro primo incontro sul Covid-19 e la maggioranza degli indiani ha cominciato a sentir parlare dell’esistenza di qualcosa chiamato ‘disinfettante per le mani’.

 

 

Anche il mese di marzo è stato occupato. Le prime due settimane sono state dedicate a rovesciare il governo del Partito del Congresso nello Stato di Madhya Pradesh, al centro dell’India, e a mettere al suo posto un governo BJP. L’11 marzo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Covid-19 era una pandemia. Due giorni dopo, il 13 marzo, il ministero della salute ha detto che il coronavirus “non è un’emergenza sanitaria”. Finalmente il 19 marzo il primo ministro indiano si è diretto alla nazione.

Non è che abbia fatto molti compiti. Ha preso a prestito il libro di ricette di Francia e Italia. Ci ha parlato della necessità del “distanziamento sociale” (facile da capire per una società così immersa nella pratica della casta) e ha chiesto un giorno di “coprifuoco del popolo”, il 22 marzo. Non ha detto nulla su quello che il governo avrebbe fatto nella crisi, ma ha chiesto alla gente di uscire sui balconi, di far suonare le campane e  le pentole per salutare i lavoratori della sanità. Non ha detto che, fino a quel momento, l’India stava esportando équipe di protezione e respiratori, invece di tenerli per i lavoratori della sanità  e per gli ospedali del paese.

 

Non è sorprendente che la richiesta di Narendra Modi sia stata ricevuta con grande entusiasmo, Ci sono state manifestazioni, balli comunitari e processioni. Non c’è stato molto distanziamento sociale. Nei giorni seguenti gli uomini hanno raccolto barili di sterco delle vacche sacre e i sostenitori del BJP hanno organizzato feste per bere l’orina delle vacche. Per non restare indietro, molte organizzazioni musulmane hanno dichiarato che l’Onnipotente era la risposta al virus e hanno chiesto ai fedeli di riunirsi in gran numero nelle moschee.

 

Il 24 marzo, alle 8 di sera, Modi è nuovamente apparso in TV per annunciare che dalla mezzanotte in poi tutta l’India sarebbe stata in isolamento.. I mercati sarebbero stati chiusi. Ogni trasporto, sia pubblico che privato, sarebbe stato cancellato. Ha detto che stava prendendo questa decisione non solo come primo ministro, ma come l’anziano della nostra famiglia.

 

Chi mai può decidere, senza consultare i governi degli stati che dovranno combattere con le conseguenze di questa decisione, che una nazione di 1.380 milioni di persone dovrebbe essere rinchiusa senza alcuna preparazione e con 4 ore di preavviso? I suoi metodi danno l’impressione che il primo ministro dell’India pensa ai cittadini come ad una forza ostile che ha bisogno di subire un’imboscata, di essere presa di sorpresa, di cui non ci si può mai fidare.

  

Rinchiusi lo eravamo. Molti sanitari e epidemiologhi hanno applaudito questa misura. Forse hanno ragione in teoria. Ma sicuramente nessuno di loro può sopportare la calamitosa mancanza di pianificazione o preparazione che ha trasformato l’isolamento più grande e punitivo del mondo in esattamente il contrario di quanto era destinato ad ottenere.

  

L’uomo che ama gli spettacoli ha creato la madre di tutti gli spettacoli. Mentre osservava un mondo pieno di orrore, l’India si è rivelata con tutta la sua vergogna, la sua brutalità strutturale e sociale, la sua disuguaglianza economica, la sua insensibile indifferenza alla sofferenza.

 

L’isolamento ha funzionato come un esperimento chimico che, all’improvviso, ha illuminato cose nascoste. Nella misura in cui  i negozi, i ristoranti, le fabbriche e l’industria delle costruzioni hanno chiuso, mentre i ricchi e le classi medie si sono chiusi nei quartieri privati, i nostri paesi e le megacittà hanno cominciato a espellere i cittadini della classe lavoratrice, i loro lavoratori migranti, come un’accumulazione non desiderata.

 

Molti sono stati espulsi dai loro datori di lavoro e proprietari; milioni di persone povere, affamate  e assetate, giovani e vecchi, uomini, donne, bambini, persone inferme, persone cieche, persone handicappate, senza alcun altro luogo dove andare, senza trasporto pubblico hanno cominciato una lunga marcia verso i loro villaggi. Hanno camminato per giorni, verso Badaun, Agra, Azamgarh, Aligarh, Lucknow, Gorakhpur, a centinaia di chilometri di distanza. Alcuni sono morti nel cammino. Sapevano che andavano a casa soprattutto per fermare la fame. Forse sapevano anche che potevano portare con sè il virus e che avrebbero infettato le famiglie, i loro genitori e nonni en casa, ma avevano disperatamente bisogno di un poco di  familiarità, rifugio e dignità, così come di cibo e anche di amore.

 

Mentre camminavano alcuni sono stati brutalmente picchiati e umiliati dalla polizia, che doveva far rispettare il coprifuoco. Hanno costretto i giovani a saltare come rane sulla strada. Nelle vicinanze della città di Bareilly un gruppo è stato ‘lavato’ con pompe con spray chimico.

 

Pochi giorni dopo, preoccupato che la popolazione in fuga propagasse il virus nei villaggi, il governo ha chiuso le frontiere statali anche per chi tornava a piedi a casa sua. Le persone che camminavano da giorni sono state fermate e obbligate a tornare in accampamenti nelle città da cui li avevano obbbligati ad andarsene. Tra le persone anziane circolavano i ricordi dello spostamento della popolazione del 1947, quando l’India si divise e nacque il Pakistan. Eccetto per il fatto che questo esodo attuale è stato spinto da una divisione di classe e non di religione.

 

Anche così, queste non erano le persone più povere dell’India. Queste erano persone che avevano (almeno fino ad ora) un lavoro nella città  e delle case a cui tornare.

 

I disoccupati, le persone senza casa e i disperati rimanevano dove stavano, nelle città e nei campi, dove l’angoscia profonda cresceva molto prima di questa tragedia. Durante questi giorni orribili il ministro degli Affari interni, Amit Shah, non si è mai visto in pubblico.

  

Quando è cominciata la ‘camminata’ di Delhi ho utilizzato spesso un pass per giornalisti di una rivista per cui scrivo per guidare fino a Ghazipur, alla frontiera tra Delhi e Uttar Pradesh.

 

La scena era biblica. O forse no, la Bibbia non poteva aver conosciuto numeri come questi. L’isolamento per forzare il distanziamento fisico si era trasformato nel contrario: compressione fisica su una scala impensabile. E questo è successo anche nei paesi e nelle città dell’India. Le strade principali possono essere vuote ma i poveri stanno ammucchiati in strette stanze  in baracche e quartieri marginali.

 

Tutte le persone che camminavano con cui ho parlato erano preoccupate per il virus. Ma questo era meno reale, meno presente nelle loro vite che l’imminente disoccupazione, la fame e la violenza della polizia. Di tutti quelli con cui ho parlato, compreso un gruppo di sarti musulmani che era sopravvissuto agli attacchi anti-musulmani solo una settimana prima, quello che mi ha preoccupato di più sono state le parole di un uomo. Un carpentiere di nome Ramjeet, che voleva camminare fino a Gorakhpur, vicino alla frontiera con il Nepal. “Forse quando Modi ha deciso di fare questo, nessuno gli ha parlato di noi. Forse lui non sa di noi”, mi ha detto. “Noi” significa circa 460 milioni di persone.

 

I governi statali dell’India (come negli Stati Uniti) hanno mostrato più cuore e comprensione durante la crisi. I sindacati, i privati cittadini e altri collettivi stanno distribuendo cibi e razioni di emergenza. Il governo centrale ha tardato a rispondere alle loro disperate richieste di fondi. Pare che il Fondo Nazionale di Soccorso del primo ministro non abbia soldi disponibili. Invece il denaro dei simpatizzanti sta arrivando al nuovo e misterioso fondo PM-CARES. Cominciano ad apparire cibi preincartati con la faccia di Modi.  Oltre a questo il primo ministro ha condiviso i suoi video di yoga nidra, in cui un Modi animato e trasformato, con un corpo da favola, mostra le posizioni yoga (asana) per aiutare le persone a sopportare lo stress dell’autoisolamento. Chissà, forse una della “asana” potrebbe essere quella in cui Modi chiedesse al primo ministro francese di permetterci di rinunciare al molto problematico accordo sugli aerei da combattimento Rafale e usare quei 7,8 mila milioni di euro per le misure di emergenza disperatamente necessarie per aiutare milioni di persone affamate. Certo i francesi capiranno.....

 

Mentre il blocco entra nella sua seconda settimana, le catene di rifornimento si sono spezzate, le medicine e i rifornimenti essenziali stanno finendo. Migliaia di camionisti sono abbandonati sulle strade, con poco cibo e acqua. Le coltivazioni, pronte per essere raccolte, stanno lentamente imputridendo.

  

La crisi economica è qui. La crisi politica è in corso. I principali mezzi di comunicazione hanno incorporato la storia del Covid-19 nella loro campagna anti-musulmana. Un’organizzazione chiamata Tablighi Jamaat, che ha fatto una riunione a  Delhi prima che venisse dichiarata la chiusura, viene ritenuta un “super-propagatore”. Questo viene utilizzato per stigmatizzare e demonizzare i musulmani. Il tono generale suggerisce che i musulmani hanno inventato il virus e lo hanno deliberatamente propagato come una forma di yihad (guerra santa, n.d.t.).

 

La crisi del coronavirus non è ancora arrivata. O no. Non lo sappiamo. Se lo fa, e può farlo, possiamo essere sicuri che verrà affrontata con tutti i pregiudizi prevalenti di religione, di casta e di classe al loro posto.

 

Oggi (2 aprile) in India ci sono quasi 2.000 casi confermati e 58 morti. Questi sono sicuramente numeri poco attendbili, basati su poche prove. L’opinione degli esperti varia enormemente. Alcuni predicono milioni di casi. Altri pensano che il costo sarà molto più basso. E’ possibile che non conosceremo mai i contorni reali della crisi, anche quando ci colpirà. Tutto quello che sappiamo è che la corsa agli ospedali non è ancora cominciata.

  

Gli ospedali e le cliniche pubbliche dell’India, che non possono far fronte al quasi 1 milione di bambini che muoiono di diarrea, denuutrizione e altri problemi di salute ogni anno, con le centinaia di migliaia di pazienti con tubercolosi (un quarto dei casi di tutto il mondo), con una diffusissima anemia e con una popolazione denutrita vulnerabile a qualsiasi tipo di malattia leggera che risulta invece mortale per essa, non potranno far fronte ad una crisi come quella che oggi stanno affrontando Europa e Stati Uniti.

 

Tutti i servizi medici sono più o meno in attesa, visto che gli ospedali sono stati messi al servizio del virus. Il centro di traumatologia del leggendario Istituto di Scienze mediche “All India” di Delhi è chiuso, le centinaia di pazienti con tumori, conosciuti come i ‘rifugiati del cancro’ vivono nelle strade fuori da questo enorme ospedale, ammassati come bestiame.

 

La gente si ammalerà e morirà in casa. Forse non sapremo mai le loro storie.Può essere che non diventino neanche numeri di una statistica. Possiamo solo sperare che gli studi che dicono che al virus non piace il clima caldo siano corretti (anche se altri ricercatori lo mettono in dubbio). Mai un popolo ha sperato irrazionalmente e così tanto un’estate indiana ardente e castigatrice.

  

Cosa ci è successo? E’ un virus, sì. In sé e per sé non ha alcuna morale. Ma comunque è più di un virus. Alcuni credono  che sia la forma con cui dio arriva ai nostri sensi. Altri dicono che è una cospirazione cinese per dominare il mondo. Sia quel che sia, il coronavirus ha messo in ginocchio il potente e ha fermato il mondo come nulla ha potuto farlo.

 

Le nostre menti stanno ancora correndo di qua e di là, anelando un ritorno alla “normalità”, cercando di unire il nostro futuro al nostro passato e negandosi a riconoscere la rottura. Ma la rottura esiste.

 E nel mezzo di questa terribile disperazione ci offre l’opportunità di ripensare la macchina della fine del mondo che abbiamo costruito noi stessi. Niente sarebbe peggio che tornare alla normalità.

 

Storicamente le pandemie hanno costretto gli umani a rompere con il passato e a immaginare di nuovo il loro mondo. Questa non è diversa. E’ un portale, una porta di comunicazione tra un mondo e quello seguente. Possiamo scegliere di attraversarla, trascinandoci dietro  i cadaveri del nostro pregiudizio e del nostro odio, della nostra avarizia, delle nostre banche dati e idee morte, dei nostri fiumi morti e cieli  fumosi dietro di noi.

 

O possiamo camminare leggeri, con poco bagaglio, pronti per immaginare un altro mondo. E pronti a lottare per esso.

 

 (*) Attivista, scrittrice e ambientalista indiana.

 

 (traduzione di Daniela Trollio

 Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

 

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