IL 1968 ALLA PIRELLI BICOCCA DI MILANO

Dall’opuscolo il protagonismo operaio nella lotta di classe.

 

IL 1968 ALLA PIRELLI BICOCCA DI MILANO

Stasera voglio partire dalle questioni particolari, perché secondo me poi uno capisce bene anche quelle generali sentendo anche nel particolare come erano andati determinati fatti. Vorrei ricordare che io ho avuto la fortuna, secondo altri è stata una sfortuna, di entrare giovanissimo in una grande fabbrica.

La Pirelli bicocca di Milano è stata la mia università di vita. Dopo la scuola dell’avviamento professionale (corrispondente alla terza media) sono andato all’istituto professionale Piero Pirelli, la mattina studiavamo e il pomeriggio entravamo in fabbrica giravamo tutti i reparti e quindi, come tutti quelli che hanno frequentato la scuola Pirelli, conoscevo bene quasi tutti i reparti della Pirelli, bicocca Milano.

Sono entrato in fabbrica come operaio qualificato e allora eravamo circa 12.000 fra operai e lavoratori. Quando sono entrato in fabbrica, non avevo ancora 16 anni e il mio primo impatto con la fabbrica è stato per certi versi entusiasmante, per altri preoccupante, lavoravo fianco a fianco e insieme a operaie e operai, e mi sentivo parte di una comunità, ma vedevo per la prima volta anche cosa significava il comando di fabbrica. La fabbrica era come un esercito con capi, capetti e guardie pronte a intervenire con rimproveri o multe se non facevi la produzione stabilità. Dopo una settimana di lavoro ho assistito a un episodio che mi sdegnato per tutta la vita. Mentre stavo lavorando, ho visto il primo morto sul lavoro, era operaio muratore, che stava lavorando sopra il capannone, caduto dal tetto.

Quel giorno lavoravo alla trafila e l’operaio è precipitato, è caduto proprio in mezzo a noi, tra gli operai che lavoravano e ai carrelli che trasportavano il materiale. La commozione, l’emozione, la paura e la rabbia pervase gli operai, si sono fermati per prestare soccorso abbandonando le macchine su cui lavoravano. Il caporeparto chiamato dalle grida uscì subito dal suo ufficio impartendo ordini come un militare per far riprendere la produzione in attesa dell’ambulanza.

Gli operai invece si erano fermati, protestando, io stesso sono rimasto colpito perché l’operaio edile era caduto vicino a me e vedevo la scia di sangue che gli usciva dalla bocca. Io e altri ci siamo avvicinati per prestare soccorso, io avevo appena compiuto 16 anni, ero abbastanza impaurito ma mi ricordo che intorno all’operaio deceduto c’erano il caporeparto, alcuni sindacalisti della commissione interna della Cisl e della Uil che dicevano “non serve fermarsi, riprendiamo il lavoro, lo copriamo con un telo perché deve arrivare dentro il magistrato”. Mentre alcuni operai attivisti della Cgil dicevano “no noi ci fermiamo invitando i lavoratori allo sciopero”.

Questo creò nel reparto una grande discussione anche se una parte dei lavoratori, sotto le minacce dei capi, delle guardie e alcuni sindacalisti, aveva già incominciato a lavorare: fu questa la mia prima protesta, il primo di quegli atti che nella vita lasciano il segno.

 

La fabbrica era strutturata come una caserma, infatti il caporeparto sopra la camicia e la cravatta portava un grembiule nero, l’assistente la tuta marrone, l’operaio, la tuta grigia se lavorava nel settore dei cavi, bianca nel settore gomma o addetto a lavori sporchevoli, blu se era un manutentore.

Il capoturno portava un’altra tuta di diverso colore in modo che tu potessi riconoscere la gerarchia in fabbrica guardando le tute, sapevi chi era, e riconoscere l’autorità.

Un altro fatto che ha segnato molti giovani della mia generazione é accaduto dopo un anno che ero stato assunto.

Il 9 ottobre 1967 fu assassinato Che Guevara. Quando la notizia diventò di dominio pubblico in fabbrica, ricordo che i gruppi di lavoratori, generalmente iscritti al PCI, alcuni al PSI o PSIUP, facevano capannelli in mensa durante la pausa e sul marciapiede fuori dalla fabbrica denunciando il ruolo degli USA nell’assassinio del Che. Mi ricordo che alcuni lavoratori comunisti volevano protestare con delle fermate nei reparti, scontrandosi con attivisti di Cisl e Uil da una parte e con la Cgil stessa divisa perché c’erano i socialisti e i comunisti.

Il mio primo approccio in fabbrica con i sindacalisti non é stato molto positivo. I militanti sindacali delle varie sigle andavano a caccia di tessere fra tutti i nuovi assunti e facevano la gara per farti la tessera sindacale per primi e molti giovani operai, a loro insaputa, si trovavano iscritti alla Cisl e Uil senza neanche aver firmato deleghe. La direzione aziendale aveva un occhio di riguardo per la Cisl e per la Uil.

Quando sono stato assunto io, gli operai si lamentavano molto delle condizioni di lavoro e del salario. Una prima lezione che ho imparato dalle lotte in fabbrica e che il sistema di produzione capitalista, che ha come fine il massimo profitto, si ottiene dallo sfruttamento e regge sulla violenza, non ha interesse a porsi il fine della salvaguardia dell’integrità fisica e psichica dell’operaio. Nel capitalismo l’operaio è un semplice accessorio della macchina, perché il modo di produzione capitalistico non tiene conto della necessità degli esseri umani.

Il Comitato Unitario di Base (CUB) considerava come nociva l’intera organizzazione del lavoro capitalista, cioè le condizioni negli ambienti di lavoro, l’incentivo allo sfruttamento attraverso il cottimo e i premi di produzione, l’intensificazione dell’orario di lavoro e dei turni funzionali al massimo utilizzo degli impianti, cioè la teoria del padrone denominata “organizzazione scientifica del lavoro”. Per il CUB nocivo non era solo il turno di notte, più nocivo rispetto agli altri turni, ma tutte le lavorazioni a turni perché costringevano il lavoratore a cambiare il ciclo vitale della persona.

Ricordo che in documento o un volantino del 1968 il CUB affermava che “la salute non va contrattata, ne pagata con le briciole dell’indennità. Le condizioni nocive vanno abolite”. Questa posizione anni dopo fu condivisa anche da chi per molti anni aveva monetizzato, venduto e barattato la salute degli operai con accordi col padrone, cioè i sindacati confederali di CGIL-CISL-UIL.

 

Negli anni 60 ci fu il boom economico, ma non ci fu un corrispondente aumento dei salari operai. C’era una compressione salariale in tutta Italia e nel ‘68 una delle prime battaglie di alcuni gruppi di lavoratori (allora la maggioranza era iscritta alla Cgil) era contro il cottimo per l’unità dei lavoratori.  

Se tu non raggiungevi il 100% di cottimo il salario veniva decurtato, quindi una delle prime rivendicazioni operaie che si fece era per ottenere una quota garantita del salario.

Ricordo che nel 1970 a un operaio di 1° categoria turnista che aveva una giornata lavorativa di 7 ore e 30 minuti, con 30 minuti di mensa con un rendimento normale al 40% (secondo le tabelle del padrone) la paga base era di circa 280 lire all’ora. A rendimento 80% significava che la produzione aumentava al 100% ma la paga base dello stesso operaio aumentava di soli 74,3 lire l’ora.

In un volantino del luglio 1970, il CUB denunciava il cottimo scrivendo che “a rendimento 100% la produzione aumenta del 150% mentre la paga aumenta solo del 37% con un guadagno a favore del padrone del 300%”.

Le prime lotte contro il cottimo furono condotte per avere comunque una soglia salariale garantita e questa fu una lotta che cominciò con piccoli gruppi di lavoratori.

Poi la rivendicazione dell’abolizione del cottimo fu inserita anche nelle piattaforme sindacali, all’inizio Cisl e Uil non erano d’accordo, la Cgil in parte d’accordo, in parte no, in modo che subito dopo fu anche messo nella piattaforma che si fece nel 1969.

Nel contratto del 1965 alla Pirelli, per la prima volta una commissione interna composta di rappresentanti di Cisl e Uil e Cgil ottennero un contratto con cui a tutti gli operai venne riconosciuto un assegno pari alla quota sindacale che inserivano nella busta paga. Il lavoratore poteva versarlo al sindacato che sceglieva oppure poteva spenderlo come meglio credeva. L’azienda mise delle cassette dentro la fabbrica per la Cisl per la Uil ma non per la Cgil. La Cgil aveva una cassetta rossa fuori dalla fabbrica, sul marciapiede sotto gli occhi di tutti, in particolare dei guardiani della fabbrica che dalla portineria vedevano e segnalavano chi si avvicinava per versare l’assegno.

Nel ‘68 con la lotta contro il cottimo cominciano una serie di altre battaglie. Voglio ricordare che alla Pirelli si facevano i turni, si lavorava sei giorni alla settimana, solo la domenica si stava a casa perché allora si lavorava 48 ore, fu dopo i contratti del ‘70 che anche i metalmeccanici conquistarono le 40 ore.

In quegli anni in fabbrica c’erano ancora operai che avevano partecipato alla resistenza, i partigiani e la maggioranza di loro erano comunisti iscritti al PCI. Questi con i giovani erano molto disponibili e spiegavano come lavorare con meno fatica, non erano gelosi del lavoro, per cui c’era un clima anche molto bello, quindi noi giovani operai rispettavamo molto questi partigiani che a differenza di altri operai che andavano di corsa per fare il cottimo e che non avevano mai tempo di spiegarti le malizie del mestiere, loro invece pazientemente riuscivano ad insegnarti i trucchi del mestiere.

In alcuni reparti le condizioni di lavoro erano davvero pessime e le lotte contro la nocività, gli ambienti insalubri sfociavano spesso in proteste. In particolare il reparto nerofumo e il reparto vulcanizzazione venivano chiamati reparti d’inferno. Ricordo che quando frequentavo la scuola Pirelli, entrando in fabbrica per visitare il reparto nerofumo, un capannone lunghissimo, anche solo attraversandolo, entravi bianco e uscivi nero. Infatti, quando entravamo, ci davano la tuta bianca e noi ci coprivamo la bocca e il collo con un fazzoletto.

Nella lavorazione della gomma ricordo che gli operai denunciavano spesso l’uso di sostanze nocive per la loro salute, materiali di cui la Pirelli non forniva indicazioni, riservandosi dietro il segreto di fabbricazione. Il nerofumo era composto di polveri, sostanze impalpabili, che oltre a sporcare la cute e i vestiti si respirava, penetrando nei bronchi e nei polmoni creando nei lavoratori malattie gravi.

Un altro materiale usato massicciamente in questi reparti era il talco (usato anche nei reparti del settore cavi) contenente amianto, che ha provocato negli anni centinaia di morti per asbestosi, mesoteliomi e altri tumori derivanti dall’amianto.

Come anche i sali di piombo usati per ridurre i tempi di fabbricazione che negli anni hanno prodotto gravi malattie e morti concentrandosi nel fegato, milza, reni, ecc.

Altre sostanze cancerogene, usate nella lavorazione della gomma, senza informazione dei pericoli e all’insaputa degli operai (denunciata già allora dal CUB), erano le amine aromatiche e la Betanaftalamina che hanno causato a molti il cancro alla vescica.

Rispetto alla nocività il CUB ha sempre contestato i dati del padrone, i M.A.C. (massima concentrazione ammissibile di sostanze nocive nell’aria), denunciando che i dati statistici effettuati da medici e tecnici scelti di comune accordo fra direzione e R.S.A, cioè la rappresentanza sindacale aziendale, erano di fonte padronale e non indipendenti.

Gli operai del CUB non si fidavano di organismi o gruppi di lavoro stabiliti dagli accordi sindacali che non rendevano pubblici i criteri con cui erano raccolti i dati, poiché “tenuti al segreto sulle tecnologie e tecniche i produzione di cui erano a conoscenza”.

La sana diffidenza operaia non si è mai fidata del padrone e dei suoi tecnici. Gli operai dei reparti nocivi del CUB, seppur coscienti che in un sistema che ha come fine il massimo profitto é difficile salvaguardare l’integrità fisica e psichica del lavoratore, lottavano per eliminare la nocività e le malattie e le cause che le producevano.

Rispetto al rapporto fra giovani e anziani, noi giovani avevamo un rapporto particolare con alcuni operai anziani perché notavamo che quelli più disponibili, che lottavano in fabbrica, erano i vecchi partigiani, alcuni erano del PCI o dissidenti del partito molto critici verso il PCI, erano quelli che in fabbrica inneggiavano a Che Guevara a Mao Tse Tung e ci raccontavano di episodi e lotte avvenuti in fabbrica sotto il nazifascismo. - 12 -

 

IL 1968 NEL MONDO E IN FABBRICA

E’ nel 1968 quando in tutto il mondo esplodeva la contestazione giovanile che alla Pirelli è nato il Comitato Unitario di Base, comitato che raccoglieva gli operai dei reparti più nocivi, quelli più ribelli.

La direzione Pirelli (come i padroni di tutte le fabbriche inquinanti) a chi faceva lavori nocivi dava la paga di posto, cioè qualche lira in più, e dava il mezzo litro di latte perché il ragionamento sostenuto dai suoi esperti era: se bevi il latte, le sostanze inquinanti che hai inalato con il latte sarebbero state espulse dal corpo umano. Questo almeno era il pensiero dei dirigenti della Pirelli.

Il CUB nacque proprio sulle lotte contro la nocività, per l’aumento del salario, contro il cottimo, contro le grandi differenze salariali. Si rivendicava, per chi lavorava nello stesso reparto, il salario uguale per tutti, perché tutti facevano lo stesso lavoro.

Il CUB della Pirelli nacque dall’unione fra alcuni compagni impiegati e operai, dagli operai più coscienti e da quelli che lavoravano nei settori più nocivi e la forza del CUB era proprio quella, riuscivano a trascinare con le spazzolate (cortei interni) nei reparti tutti gli altri operai. I cortei interni passando da reparto all’altro facevano interrompere la produzione e s’ingrossavano aggiungendo altri operai e finendo sempre negli uffici degli impiegati e dei dirigenti sbattendoli fuori.

Il CUB aveva al suo interno operai e lavoratori di varie tendenze politiche e sindacali e molti iscritti alla CGIL fra cui anch’io. Dopo il 1970 con la nascita del Consiglio di Fabbrica nel CUB i delegati erano eletti su scheda bianca, iscritti o meno al sindacato tutti avevano diritto a candidarsi ed essere eletti, e nel CDF erano presenti diversi delegati del CUB e dei gruppi extraparlamentari. Alcuni ancora iscritti al PCI erano critici verso il sindacato e la CGIL giudicata troppo collaborazionista con il padrone e il partito.

Al CUB aderirono anche molti operai della fabbrica dei vari gruppi estraparlamentari, oltre ad Avanguardia Operaia, c’erano i marxisti-lenisti dell’Unione dei Comunisti, Lotta Continua ecc. Fra i compagni più impegnati e riconosciuti ricordo Luigi Cipriani (Cippone), un impiegato grande e grosso con una folta barba che lo faceva assomigliare a Karl Marx, gli operai Mario Mosca (mio compagno di reparto), Raffaello De Mori, Mario Milich, Alberto Gioia, Salvatore Ledda, e l’impiegato tecnico Carlo Rutigliano.

La lotta creava contraddizioni e anche alcuni vecchi quadri della Cgil iscritti al PCI entravano spesso in contraddizione con esponenti del loro partito e con la direzione del PCI, in via Volturno a Milano. Essendo militanti del PCI ed anche operai e lavorando anche loro in reparti nocivi, quando gli operai “normali”, quelli più combattivi, si incazzavano e protestavano, anche loro partecipavano alla lotta e si muovevano insieme gli altri operai contro la nocività, conveniva a tutti perché si difendeva la pelle, la salute e il salario.

Il CUB della Pirelli ebbe una grande forza perché riusciva anche a organizzare scioperi di tutta la fabbrica, grazie al fatto che organizzava i compagni e gli operai e gli impiegati più combattivi. Bastavano pochi operai, riconosciuti da tutti nei reparti per capacità organizzative e politiche, cinque/sei operai, i più combattivi, riuscivano a convincere i loro compagni e si portavano dietro il loro reparto, dalla vulcanizzazione alla ramatura al nerofumo.

Il Comitato Unitario di Base raccoglieva lavoratori di diverse tendenze politiche e sindacali e anche non iscritti al sindacato o indipendenti, era un ambito dove ci si - 13 -

 

trovava per discutere e socializzare le problematiche comuni che tutti vivevano e partendo dalle condizioni materiali di lavoro e di vita, spesso con grandi scazzi interni, alla fine si riusciva a trovare un’intesa e unità sugli obiettivi e sulle forme di lotta.

Prima degli anni 1968-69 era normale per i diversi sindacati firmare in fabbrica contratti aziendali separati sul cottimo, sui premi di produzione, sulla mobilità interna dei lavoratori e questo alimentava la divisione fra lavoratori mettendo gli iscritti di un sindacato contro l’altro facendo il gioco del padrone.

Il gruppo dirigente della Cgil di fabbrica era composta di quadri dirigenti e militanti del PCI, del Psi, PSIUP, alcuni erano stati protagonisti della lotta di resistenza al nazifascismo. Erano lavoratori che avevano prestigio e riconosciuti dagli altri operai, erano dei riformisti, ma riformisti conflittuali. A differenza di Cisl e Uil, la CGIL col padrone era collaborazionista ma nel contempo conflittuale, per cui i suoi militanti non erano ben visti dal padrone e ostacolati.

 

1969, ANNO DI SVOLTA

 

Nel 1969 successero tre fatti importanti: il blocco del Grattacielo Pirelli, il Decretone e la bomba in Piazza Fontana il 12 dicembre.

 

Blocco del Grattacielo Pirelli

Il momento di maggior conflittualità si ebbe nell’ottobre del 1969 con gli scioperi che attuarono il blocco del Grattacielo Pirelli (il gratta cottimo come veniva denunciato nei giornaletti di fabbrica della CGIL e dagli operai). Gli uffici generali della multinazionale Pirelli, dove c’era la direzione centrale del gruppo, si trovava in Piazza Duca d'Aosta, sul piazzale della Stazione Centrale di Milano, oggi sede degli uffici della regione Lombardia.

Per tre giorni e tre notti il centro direzionale della multinazionale in Stazione Centrale fu bloccato e per la prima volta nella storia fu impedito, dal picchetto composto da migliaia di operaie e lavoratori, ai dirigenti di entrare mandando in tilt il sistema di comando. Questa lotta provocò anche scontri fra lavoratori e “forze dell’ordine”, carabinieri e poliziotti.

Durante uno dei picchetti, davanti a un tentativo di carica dei carabinieri, gli operai divelgono l’inferriata d’acciaio a protezione del grattacielo andando contro i carabinieri e poliziotti con le punte di lancia del cancello facendoli indietreggiare. Gli scudi e manganelli degli sbirri nulla potevano contro l’arma costruita sul campo di battaglia dagli scioperanti e impotenti dovettero indietreggiare.

Questo episodio che trasformava la lotta sindacale in un episodio di ordine pubblico creò grande allarmismo nel padronato e sia il famigerato questore Guida, sia il gruppo dirigente del Pci e dei sindacati CGIL-CISL-UIL minacciarono più volte i lavoratori e gli stessi dirigenti CGIL della fabbrica di abbandonare il picchetto altrimenti l’avrebbe fatto il famigerato battaglione di polizia “Padova” specializzato in cariche poliziesche contro i lavoratori. I lavoratori resistettero e i sindacalisti di fabbrica dichiararono ai loro superiori e alla polizia che ormai era impossibile fermare la lotta che continuò per tre giorni, senza che la polizia facesse altre provocazioni.

Durante l’occupazione del Grattacielo, ogni turno scioperava due ore e migliaia di operai uscivano dalla fabbrica in Viale Sarca e si facevano portare dai tram (senza pagare in biglietti perché in sciopero), dai camion e dalle macchine di passaggio, si riversavano in strada cercando passaggi. Allora gli operai si sentivano forti e le lotte vittoriose alzavano il morale anche dei più timorosi.

La strage di Piazza Fontana

Tutto cambiò alcuni mesi dopo con la strage di Piazza Fontana, perché fino a prima della strage di Piazza Fontana, per esempio, quando facevamo le manifestazioni sindacali, la sezione del PCI in fabbrica portava gli striscioni con la scritta “Viva il Vietnam” o “per il socialismo”. Dopo la caduta di Piazza Fontana cambiò tutto, perché c’era pericolo di terrorismo, pericolo di colpi di stato e quindi successe che le parole d’ordine cambiarono immediatamente e diventarono per la difesa della democrazia, diventarono per le “riforme di struttura” e quindi c’era l’avvicinamento del PCI verso l’area di governo.

Torniamo alla Pirelli. Una delle lotte più importanti e che fece scalpore in quegli anni a Milano e a livello nazionale, è che gli operai sostenuti anche dal CUB facevano di tutto per non andare a lavorare la notte del sabato e la cosa cominciava a pesare perché la produzione di notte era calata notevolmente; in modo particolare nei reparti combattivi gli operai si assentavano con malattie e pretesti di ogni genere. Per arginare il calo di produzione nel 1969, il padrone Pirelli fa una mossa che lasciò veramente tutti di stucco: propose il famoso Decretone che prevedeva una riduzione di orario a 40 ore settimanali a parità di salario in cambio di una maggiore flessibilità sugli impianti.

Poiché gli operai nella piattaforma volevano l’abolizione del turno di notte e l’aumento dei salari, il padrone fece la sua proposta convinto che i lavoratori l’avrebbero accettata come un regalo ma fece male i suoi conti. I lavoratori la respinsero e insistevano per stare a casa sia il sabato che la domenica, rifiutando la proposta Pirelli che ti lasciava a casa la domenica ma in cambio dovevi riposare e stare a casa un giorno infrasettimanale.

Il padrone a questo punto fece un altro tipo di proposta, il 6 × 6, cioè turni da sei ore con quattro squadre da 6 ore ognuna e in questo modo la Pirelli si impegnava ad assumere altri dipendenti, proponendo ai lavoratori di ridurre le ore della settimana lavorativa a 36 ore, naturalmente dovevi lavorare sempre a scorrimento.

Gli operai fecero il referendum e, sorprendendo tutti i benpensanti dei salotti della buona borghesia milanese e parte dei sindacalisti, bocciarono il decretone.

Agli operai, in particolare ai pendolari, non conveniva iniziare il lavoro alle sei di mattina e terminare a mezzogiorno e poi stare fino alle 14.00 per strada. Gli autobus e i mezzi di trasporto pubblico che portavano gli operai al lavoro nelle fabbriche della metropoli, avevano orari legati al ciclo delle fabbriche e caricavano e scaricavano i lavoratori di tutte le fabbriche Pirelli, Breda, Falck, Marelli, quindi un dipendente doveva stare due ore al bar senza far nulla perché non c’erano i servizi adeguati.

 

IL PROTAGONISMO OPERAIO

Il protagonismo operaio si andava evidenziando sempre più nella lotta a livello generale. Il CUB Pirelli nel ‘68, e in molte altre fabbriche, i comitati di lotta all’Italsider, alla Rumianca in Sardegna, il comitato di lotta all’Ilva di Taranto, ovunque c’erano gruppi di operai dissidenti, sofferenti verso la politica collaborazionista di Cgil-Cisl-Uil, del PCI e dei partiti. Gli operai cominciavano a capire che dovevano organizzarsi in modo autonomo e indipendente se volevano difendere i loro interessi.

Nel 1969-70 con lo Statuto dei Lavoratori nacquero e furono istituzionalizzati i Consigli di Fabbrica che sostituirono le Commissioni Interne.

I Consigli di Fabbrica, eletti su scheda bianca da tutti i lavoratori iscritti e non iscritti al sindacato, apparentemente erano la forma più democratica che ci possa apparentemente essere, ma in Pirelli sono serviti a ingabbiare la lotta operaia perché mentre il Comitato di Unitario di Base era riconosciuto da tutti i lavoratori più combattivi con avanguardie di lotta che riuscivano a smuovere i loro reparti e si trascinavano dietro la fabbrica, il Consiglio di Fabbrica della Pirelli aveva 300 delegati che si riunivano al cinema della Pirelli.

Il CdF era composto da delegati eletti in ogni reparto o gruppo omogeneo e ogni reparto eleggeva il suo delegato. Io fui uno dei più giovani operai eletto delegato di reparto dal gruppo omogeneo del reparto cavi insieme a Mario Mosca (lavoravamo nello stesso reparto).

I partiti e i sindacati più strutturati e presenti capillarmente, DC-PSI-PSIUP-PCI avevano la maggioranza dei delegati rispetto a quelli del CUB controllando in tal modo il Consiglio dei delegati. Quando il CUB organizzava uno sciopero subito il Consiglio di Fabbrica prendeva posizione contraria facendo opera di crumiraggio e accusando il CUB di essere antidemocratico perché questo sciopero non l’aveva indetto il CdF e questo rappresentava un problema perché i lavoratori avevano eletto un Consiglio di Fabbrica e deve essere questo organismo a decidere. - 16 -

 

Questa contraddizione ridimensionò il ruolo del CUB che nel frattempo fu egemonizzato da avanguardia operaia e nel 1972 si spaccò e una parte costituì le assemblee autonome con varie denominazioni.

 

ALCUNE DOMANDE

 

Parlaci della repressione in fabbrica.

 

Molti dei problemi nella fabbrica venivano risolti dal padrone con lettere di ammonizioni, multe e con i licenziamenti. In quel periodo ce ne furono veramente tanti, uno dei licenziamenti, più famoso e più importante, fu quello di un partigiano che si chiamava La Torre che faceva parte del CUB della Pirelli ed era iscritto al PCI. Fu licenziato perché durante uno sciopero fu considerato un promotore.

Per molti operai, non solo quelli del CUB, era un licenziamento politico e un attacco a tutte le lotte operaie e centinaia di lavoratori ogni mattina sfidavano le guardie schierate a presidiare la portineria della fabbrica sfondando la loro resistenza e per settimane il compagno l’abbiamo messo in mezzo a noi e portato con cortei in fabbrica.

La repressione si intensificò dopo il sequestro del ragioniere Busti, capo del personale. Le campagne forcaiole non hanno mai avuto bisogno di pretesti, il padrone ha sempre represso chi ostacola l’accumulazione dei profitti e quando non lo ha se lo crea. Tuttavia questo fu il pretesto per una campagna repressiva con perquisizione a casa di molti compagni, quelli più conosciuti del CUB.

La repressione colpiva chi lottava e dobbiamo ringraziare l’avv. León che ci difendeva, che all’epoca era l’avvocato dei compagni, ma è soprattutto per la solidarietà di classe e la resistenza operaia se alcuni di questi licenziamenti siamo riusciti a contrastarli e in alcuni casi siamo riusciti a far riassumere i compagni.

La repressione si esprimeva in molti modi, dalle perquisizioni all’uscita della fabbrica, a campione, o al controllo quando andavi in bagno, non potevi stare lì più di qualche minuto perché giravano i guardiani pronti a dare multe.

I partigiani oltre a insegnare ai giovani il mestiere, i trucchi del mestiere, riuscivano a insegnare su come organizzarsi, unirsi e lottare?

I partigiani comunisti erano molto rispettati da tutti ma anche considerati un po’ scomodi da molti (non da noi giovani compagni). Loro parlavano ancora di rivoluzione, delle due vie, ci facevano capire, senza dirlo, che in fabbrica c’erano ancora nascoste armi, che la democrazia era una tattica. Parlavano volentieri con noi giovani compagni anche se ci consideravano troppo estremisti e antipartito, cioè contro il PCI.

Ogni tanto quando si ristrutturarono dei vecchi reparti e si trovavano nascoste delle armi si avvicinano a noi ammiccando come per dire “hai visto che non abbiamo abbandonato l’idea della rivoluzione”. Ormai erano scomodi alche per il PCI e venivano messi da parte.

Il capo della Cgil di fabbrica era un militante PCI, Vito Basilico, morto pochi anni fa. Vito entrò in contraddizione col PCI dal quale usci e nel ‘76 aderì a Democrazia Proletaria e successivamente al Partito della Rifondazione Comunista e infine al Partito Comunista dei Lavoratori di Ferrando. Vito era un avversario del CUB della Pirelli anche se, in alcuni momenti di lotta contro il padrone, sapeva trovare momenti d’intesa e di unità.  

 

Uno dei più grossi scontri fra CGIL e CUB avvenne nel 1968 quando gli operai della Renault in Francia occuparono la fabbrica. La parola d’ordine al CUB fu occupiamo la Pirelli anche noi, perché si sosteneva che quello era l’unico modo per far valere i nostri interessi: facciamo come gli operai della Renault.

Il PCI e la CGIL invece sostenevano la lotta articolata criticando la proposta del CUB e invitando gli operai a non occupare la fabbrica. Per la CGIL e il PCI l’occupazione era perdente e sostenevano le battaglie reparto per reparto.

Il CUB era nato partendo dalle lotte articolate di reparto ma in quel momento politico in cui lo scontro era contro tutto il padronato, era per la lotta generale, denunciando e criticando la CGIL, affermando che la lotta spezzettata in quel momento serviva solo a disarticolare e dividere la lotta operaia in mille rivoli.

Dopo la bomba di Piazza Fontana, nei primi mesi del 1970, io sono stato chiamato al servizio militare, allora c’era il servizio di leva obbligatorio. Nonostante il tempo perso in caserma che avrei potuto utilizzare meglio per altre attività, ho cercato di far passare il tempo nei migliore dei modi possibili in quelle circostanze. Come soldato assaltatore, cioè carne da macello, ho imparato a fare le molotov per far saltare i cingoli dei carri armati, ho imparato a sparare con varie armi, addestrato proprio dallo Stato.

Come dicevano i vecchi operai, ho imparato l’arte e l’ho messa da parte. Dopo 15 mesi di servizio militare sono tornato al lavoro in fabbrica.

Io lavoravo in trafila al reparto Cavi e i capi reparto, spesso di nascosto, aumentavano la cadenza e i ritmi della macchina per aumentare la produzione. Se ritmi erano aumentati di poco non te ne potevi accorgere, se invece la cadenza era aumentata di tanto era evidente che si lavorava di più e questo portava a liti continue.

Un giorno, mentre stavo lavorando alla catena, ad un certo punto vedo un tizio con il camice bianco che si avvicina a me con una tavoletta con dei fogli che comincia scrivere, era un tempista.

I tempisti erano fra le persone più odiate dagli operai. Il tempista era uno che stava lì col cronometro a prendere il tempo e segnava la produzione e in quanto tempo facevi certe operazioni, nel mio caso quanti metri di cavo producevo alla trafila dei cavi elettrici, quelli grossi dove dentro c’è l’anima di rame e la gomma esterna, in un dato tempo.

Questo signore con il camice bianco si avvicina al contametri per segnare la produzione e quando ha cominciato a scrivere mi sono accorto che aveva messo un numero più alto di quello che compariva sul segnalatore.

Allora spontaneamente gli chiedo “scusi cosa sta facendo? I numeri che ha segnato non corrispondono a quelli della macchina” e lui mi risponde “ho messo un + 5% perché noi sappiamo che quando ci avviciniamo agli operai voi tendete a diminuire i ritmi di lavoro e allora a noi danno l’ordine di aggiungere questo +5%”.

Quel tempista si chiavava Sergio Cofferati. Quel giovane che proveniva dal Movimento Lavoratori per il Socialismo, MLS, entrato in fabbrica, si era iscritto alla CGIL e poi al PCI e in poco tempo diventò il capo della Cgil, scalzando Basilico e tutto il vecchio gruppo della Cgil, diventando negli anni segretario generale della CGIL, Onorevole, sindaco di Bologna, ecc.  

 

Qual è stato il rapporto con gli studenti nelle lotte che avvenivano?

 

Il rapporto con gli studenti era buono, anche se gli studenti ai cancelli della fabbrica non erano ben visti dai sindacati e dal PCI.

Il movimento studentesco e i gruppi estraparlamentari venivano davanti alla fabbrica a dare volantini quindi il rapporto era buono, c’era collaborazione.

Gli scioperi, le lotte e i picchetti alle portinerie per non far entrare i crumiri però le abbiamo fatte senza gli studenti. In altre realtà di fabbrica invece hanno avuto un ruolo anche per fare i picchetti. In ogni caso abbiamo sempre apprezzato la loro solidarietà.

Ricordo che diverse volte gli studenti del Movimento Studentesco sono venuti a prendere alcuni di noi fra cui anch’io, per portarci in Statale, nell’aula magna, a parlare agli studenti che non finivano mai di applaudirci, pieni d’entusiasmo, gridando “operai e studenti uniti nella lotta”.

 

[Intervento dal pubblico] Aggiungo che nel ‘68 chi non faceva politica era emarginato. Si aggiunga anche che gli studenti facevano parte dei gruppi e mai nessuno studente singolarmente si è presentato davanti a niente.

[Altro intervento dal pubblico] Nel ‘68 ero studente a Roma. Il movimento romano era un po’ diverso da quello milanese, non c’era un movimento studentesco di Capanna, c’era un leader come Franco Russo Mordenti, c’era anche Petruccioli che poi è diventato un esponente di spicco del PCI di via Roma, le fabbriche non c’erano… Devo dire che il movimento romano ha avuto delle punte piuttosto radicali che tutti ricordiamo, il momento di scontro diretto tra gli studenti e la polizia in Piazza Cavour, eccetera.

Le grandi fabbriche a Roma non c’erano ma c’erano gli edili ed erano loro la classe operaia e c’erano le borgate romane, che allora erano poco fuori dal raccordo anulare, e quindi tutti andavano alle borgate per vedere come vivevano.

Io penso che il famoso rapporto operai-studenti era una base materiale, cioè la cosiddetta scuola di massa, mentre una scuola di élite, precedente la selezione, era ben chiara dall’inizio. Quando mi sono iscritto al primo anno nel ‘62 eravamo in 600, era l’unica a Roma, ora ce ne sono tre o quattro e quindi eravamo tutti figli di medici, avvocati, eccetera. La selezione di classe partiva già dall’inizio, arrivati nel ‘68 furono liberalizzati gli accessi all’università. Negli istituti medi, c’era il movimento degli studenti medi, che erano quelli degli istituti tecnici e si è notato che la condizione dello studente era quella di diventare lavoratore salariato, non operaio ma nei servizi che allora incominciarono a venir fuori, e un avvicinamento alla condizione dell’eguaglianza era un dato oggettivo, oltretutto c’era una specie di attrazione fatale verso quella che potremmo definire comunità operaia, vita operaia, anche se sembra una cosa strana.

[Altro intervento dal pubblico] Io nel ‘68 ho fatto più o meno due scioperi isolati, una volta ero apprendista e con gli altri due abbiamo scioperato, uno sciopero generale in un cantiere in cui praticamente eravamo da soli e tutti gli altri lavoravano. Poi sono arrivato a Sesto in una fabbrica in cui ho vissuto altre esperienze simili.  

 

[Riprende la parola il relatore] Rispondendo su piazza fontana: ci fu una grande risposta operaia ai funerali dei morti di Piazza Fontana, con una folla immensa davanti al Duomo. C’erano gli operai in tuta e questa è la cosa importante, non solo gli operai della Pirelli con le tute bianche e con le tute grigie ma c’erano gli operai della Falck, della Marelli, dell’Alfa Romeo e di tantissime fabbriche. Questo fu un chiaro e forte messaggio al governo che i lavoratori non erano disposti a cedere.

Come sempre in nome della lotta al terrorismo, invece di perseguire i fascisti e i suoi apparati, lo Stato scaricò la colpa sugli anarchici, chiamando tutte le forze politiche e sindacali a difendere lo “stato democratico”, quello Stato che come già avevano denunciato i compagni, era responsabile di quella che è passata alla storia come strage di stato.

Scattarono, perquisizioni a tappeto a casa di tutti i compagni, molti di noi ricordo che non dormirono a casa per settimane.

 

La lotta operaia per migliori condizioni di lavoro e di vita non si evidenziava solo con il conflitto in fabbrica ma anche nel sociale. Nel 1968-69-70, nelle fabbriche, a differenza del passato, furono assunti molti meridionali. Se prima gli operai delle fabbriche di Sesto San Giovanni e Milano, della Breda, Falck, Pirelli provenivano in gran parte dalla zona di Bergamo, Brescia, Milano, Lodi, Pavia, Varese, in molti casi erano contadini diventati operai che però coltivavano ancora il campo e avevano legami con la terra, i meridionali non avevano niente, spesso neanche la casa, alcuni erano costretti a vivere nelle macchine abbandonate nei dintorni della fabbrica. Per questi operai il problema della nocività non riguardava solo l’ambiente di lavoro.

In alcuni volantini il CUB della Pirelli denunciò che la nocività non riguardava solo la fabbrica perché molti di questi meridionali dormivano in macchina così come oggi dormono gli extracomunitari o tutti quelli che non hanno una casa, e allora era facile prendersi la TBC e altre malattie. Infatti quando costruirono nel ‘70 le case di fronte alla Pirelli, alla Breda, in viale Sarca a Milano al confine con Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo, una delle prime occupazioni fu fatta proprio da questi operai meridionali che occuparono le case. La lotta contro la nocività assunse un aspetto più ampio, collegandola alla nocività dei trasporti che non ci sono, alla nocività di vivere senza una casa, da qui la decisione di molti operai di occupare le case.

Questa fu una delle prime occupazioni in cui la maggioranza degli occupanti erano operai di fabbrica e non solo proletari che non avevano niente, neanche il lavoro.

Questi operai avevano anche una dignità e, come lavoratori, ritenevano che fosse loro diritto se la casa non gli veniva data di occupare quelle vuote. La cultura della lotta in fabbrica aveva rafforzato l’idea che se ti organizzi puoi portare a casa dei risultati e questo era possibile anche sul territorio.

Nel ‘69 nasce questo nuovo soggetto, l’operaio massa, e quindi cambia il modo di lottare anche in fabbrica cioè ci sono gli scioperi selvaggi. Qual è stata la reazione del sindacato legato ai partiti nei confronti di questo nuovo movimento antagonista, di questo nuovo modo di lottare?

Il sindacato (CGIL-CISL-UIL) si contrapponeva e, quando non poteva contrapporsi, veniva dietro nel tentativo di prendere il controllo.

Queste forme di lotta, la conflittualità diffusa, davano fastidio, erano forme di lotta che avevano determinati obiettivi, che incidevano sulla produzione e costavano relativamente poco agli operai. I sindacati erano per scioperi molto più tranquilli, annunciati con largo anticipo, scioperi dimostrativi.

Queste forme di lotta richiedevano anche una organizzazione adeguata e i CUB, i comitati di lotta, assumevano degli obiettivi non compatibili con quelli del padrone. Le rivendicazioni e le forme di lotta attuate dai sindacati collaborazionisti non han portato un beneficio né nei salari né nella condizione di lavoro e quindi, per forza di cose, dovevi darti delle nuove forme di lotta. Il CUB è sempre stato un’organizzazione di lotta, non di rappresentanza, non un sindacato.

L’unico soggetto titolato ad andare a parlare col padrone era il sindacato che al suo interno aveva anche militanti del CUB.

E molto interessante rileggere oggi i volantini del ‘68 del CUB Pirelli dove il problema della salute viene sostenuto al primo posto nella piattaforma, rivendicando l’abolizione delle lavorazioni nocive.

Oggi molti pensano che nel 1968-69 si lottava solo per il salario e invece no, si lottava anche e soprattutto per la salute, contro lo sfruttamento in fabbrica e questo era rivendicato in particolare dai lavoratori che erano soggetti alle lavorazioni più nocive.

Nelle piattaforme il problema della salute si poneva con forza, come ancora oggi. La lotta contro la monetizzazione della salute, per ambienti salubri, senza sostanze inquinanti e cancerogene è sempre stata una battaglia del movimento operaio fin dalla sua nascita. Al padrone è sempre convenuto monetizzare la salute perché gli costa meno darti un po’ di soldi in più piuttosto che tutelare la salute e il sindacato collaborazionista in cambio di qualche privilegio mercanteggia sulle vite umane.

Fino al ‘74 ho lavorato alla Pirelli poi sono andato alla Breda. Avevamo conosciuto come compagni del CUB della Pirelli alcuni delegati della Breda Fucine, dove poi sono andato a lavorare anni dopo. Una cosa interessante era che nel 1970 il Consiglio di Fabbrica della Breda Fucine fece una piattaforma sindacale dove al primo posto c’era il problema della salute, la parola d’ordine era “la nocività si elimina, la salute non si paga!”.

Dopo 260 ore di sciopero e dopo tre anni firmarono il contratto, fu questa una delle prime esperienze che fu pubblicata nel giornale della FIOM milanese “Il lavoratore metallurgico” del 1970.

[Conclusioni di uno degli organizzatori] Sul rapporto tra la fabbrica e la società, come si poneva allora: c’è stata una generalizzazione del lavoro salariale quindi un avvicinamento di attività lavorative che prima invece erano autonome. Tipo gli artigiani erano diventati quasi tutti dei salariati quindi il rapporto tra la fabbrica e il territorio era provocato da questa generalizzazione.

Oggi questo ovviamente non c’è più, il punto centrale della lotta di classe che fa riferimento al territorio è l’occupazione di case, la lotta alla logistica, queste funzionano come punto di riferimento.

E’ il problema tra il dominio dentro la fabbrica e la società, la democrazia del mercato, com’era allora e come si è trasformato nel corso degli anni, che dovrebbe essere messo in discussione perché poi con il decentramento produttivo, con l’aumento della grande fabbrica, il concetto del piccolo é bello oggi non esiste più.

 

Indice

 

1. Introduzione

2. L’autunno caldo del ‘69

3. Il 1968 alla Pirelli Bicocca di Milano – M. Michelino

4. Immigrazione, guerra agli immigrati, internazionalismo – di Pietro Basso

5. Sull’occupazione abitativa in Via Tibaldi, a Milano

6. Sulle politiche abitative oggi

7. Intervento Avv. G. Pelazza

 

 

 

 

 

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