LA RIVOLTA IN TUNISIA

E ALL’IMPROVVISO ..… LA RIVOLUZIONE

 

di Santiago Alba Rico (*) – www.gara.net – 18.1. 2011

 

Nel 1999, quando si raccontava questa barzelletta tra gli intellettuali, la Tunisia era imbavagliata ma godeva – si ripeteva – di una situazione economica incomparabilmente migliore del resto del mondo arabo. Con una crescita media del 5% nel decennio passato, il Fondo Monetario Internazionale considerava il paese come un esempio dei vantaggi di un’economia liberata dalle pastoie protezioniste e nell’anno 2007 il Foro Economico Mondiale per l’Africa lo dichiarava “il più competitivo” del continente, prima del Sudafrica. “Kulu shai behi”, va tutto bene, ripeteva la propaganda del regime dai cartelloni pubblicitari, sugli editoriali della stampa e nei dibattiti coreografici in televisione. Mentre il governo vendeva fino a 204 imprese del forte settore pubblico creato da Habib Bourghiba, il dittatore colto e “socialista”, nelle strade si moltiplicavano i 4x4, nella capitale si costruivano interi quartieri per gli affari e il tempo libero e circa 7 milioni di turisti arrivavano tutti gli anni a godere della sofisticata e solida infrastruttura alberghiera del paese. Nel 2001, quando si aprì il primo Carrefour, simbolo e annuncio dell’ingresso nella civiltà, qualcuno poteva illudersi che la Tunisia fosse ormai una provincia della Francia. Era un paese meraviglioso: la luce più pulita e bella del mondo, le spiagge migliori, il deserto più hollywoodiano, le persone più simpatiche.

Non si poteva parlare, né scrivere – è vero –ma in cambio la gente ingrassava e l’islamismo retrocedeva.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti, ma anche le agenzie di viaggi e i mezzi di comunicazione contribuivano ad alimentare l’immagine di un paese più europeo che arabo, più occidentale che musulmano, più ricco che povero, in transizione verso la felicità del mercato capitalista.

Non si poteva né parlare né scrivere, è vero, ed è anche vero che occupava il secondo posto nel ranking mondiale della censura informatica, ma lo sforzo del governo meritava una ricompensa: la Tunisia organizzò una Coppa d’Africa, un Mondiale di Pallamano e, nel 2005, un insolito Vertice sull’Informazione durante il quale venne nascosto al mondo uno sciopero della fame di giudici e avvocati e vennero arrestati giornalisti e bloggers.

 

Per poco che uno si fosse dato la pena di grattare sotto questa superficie ben verniciata, avrebbe scoperto una realtà ben diversa. Nessuno, o quasi, lo fece. Da gennaio a giugno di quell’anno 2005 , per esempio, El Paìs pubblicò 618 notizie relative a Cuba, dove non succedeva niente, e 199 sulla Tunisia, tutte sul turismo o sul mondiale di pallamano; El Mundo, nella stessa data, registrò 5.162 citazioni su Cuba, paese dove non succedeva niente, e solo 658 sulla Tunisia, tutte sul mondiale di pallamano; e ABC volse 400 volte lo sguardo su Cuba, paese dove non succedeva niente, mentre citava la Tunisia solo 99 volte, 55 delle quali in relazione al mondiale di pallamano. Il 10 marzo dello stesso anno, una rapida ricerca su Google otteneva 750 links sulla distribuzione da parte del governo cubano delle famose pentole per il riso e solo 3 (2 di Amnesty Internacional) sullo sciopero della fame e la tortura di prigionieri in Tunisia.

 

Ma il fatto è che Carrefour e gli humvee (fuoristrada) – e la vita notturna a Gammarth – nascondevano non solo la normale repressione esercitata da Ben Alì dal 1987, anno del golpe di palazzo o del “Gran cambio”, ma anche la sparizione di una classe media che aveva cominciato a formarsi negli anni ’60 ed era sopravvissuta alla crisi della fine degli anni ’80.

Pochi entravano nel Carrefour e molti uscivano dal paese: fino ad un milione di giovani tunisini – su una popolazione di 10 milioni – vivono all’estero, soprattutto il Francia, Italia e Germania. Mentre una minoranza lasciava il francese per l’inglese e disprezzava, ovviamente, il dialetto tunisino, la struttura educativa ereditata dal regime precedente, relativamente adeguata, si degradava in modo tale che l’ultimo rapporto PISA relegava la Tunisia ad uno degli ultimi dieci posti della lista dell’OCSE. Mentre venti famiglie si godevano l’ozio sulle Alpi o a Parigi, la disoccupazione aumentava fino a raggiungere il 18%, il 36% tra i più giovani: tra i diplomati e i laureati passava dallo 0,7% nel 1984 ad un 4% nel 1977 per poi schizzare al 20% nel 2010.

Nello specchio del Carrefour – in mezza alla pubblicità che invitava ad un consumo inaccessibile – i giovani delle banlieues (periferie) della capitale e delle regioni del centro e del sud del paese sembravano adeguarsi per poter godere di quel riflesso.

 

Chi guadagnava da questa crescita benedetta dal FMI e dalle istituzioni europee? Praticamente una sola famiglia, estesa e tentacolare, che i dispacci dell’ambasciata statunitense filtrati da Wikileaks descrivono come “un clan mafioso”. Si tratta della famiglia di Leyla Trabelsi, la seconda moglie del dittatore, padrona a tal punto del paese che molti si riferivano alla Tunisia come alla Trabelsia. Ben Alì e la sua famiglia politica si erano appropriati, attraverso privatizzazioni non molto chiare, di tutta l’attività economica della nazione, trasformando lo Stato nello strumento di un capitalismo mafioso e primitivo o, per meglio dire, di un feudalesimo parassitario del capitalismo internazionale. La lista dei settori saccheggiati dal clan è quasi incredibile: la banca, l’industria, la distribuzione delle auto, i mezzi di comunicazione, la telefonia mobile, i trasporti, le compagnie aeree, l’edilizia, le catene di supermercati, le scuole private, la pesca, gli alcolici e persino il mercato degli abiti usati.

Non ci si deve quindi stupire se, durante le rivolte di questi giorni, siano stati assaltati tanti negozi, imprese e banche; si è parlato di “vandalismo”, ma si è trattato anche di un vandalismo fondato o, in ogni caso, di un vandalismo che – anche quando si scatenava per caso – inevitabilmente faceva centro: dovunque colpisse, colpiva sicuramente una proprietà dei Trabelsi.

 

In questo quadro di repressione e appropriazione, bisognava tendere l’orecchio per ascoltare il rumore della marea che saliva. Pochi l’hanno fatto, neppure quando nel gennaio 2008, a Redeyef, vicino a Gafsa, nelle miniere di fosfato, un altro piccolo incidente – una protesta per un atto di nepotismo – mise sul piede di guerra tutta la popolazione. Gli scioperi si trascinarono per mesi, ci furono quattro morti, duecento detenuti, giudizi molto sommari con condanne da brivido. Mentre Redeyef continuava ad essere assediata dalla polizia, solo giornalisti e sindacalisti tunisini cercarono di rompere il blocco poliziesco e informativo. In Europa la Trabelsia continuava ad essere bella, tranquilla, sicura per gli affari e la geopolitica.

Solo un giornalista italiano, Gabriele del Grande, si arrischiò a entrare clandestinamente nel cuore delle proteste e a raccogliere informazioni prima di essere arrestato dalla polizia e espulso dal paese. Il suo reportage comincia così: “Sindacalisti arrestati e torturati. Manifestanti assassinati dalla polizia. Giornalisti arrestati e una potente macchina della censura per evitare che la protesta si estenda. Non è una lezione di storia sul fascismo, ma la cronaca degli ultimi mesi in Tunisia. Una cronaca che non lascia dubbi sulla natura del regime di Zayn al Abidin Ben Alì – al governo dal 1987. Una cronaca che rivela il lato oscuro di un paese che riceve milioni di turisti tutti gli anni e da cui fuggono migliaia di emigranti tutti gli anni”. In un libro successivo, Il mare di mezzo, del Grande descrive in dettaglio la macchina del terrore tunisina, con le carceri segrete in cui sparivano non solo gli oppositori nazionali ma anche gli emigranti algerini, sequestrati in mare dalle pattuglie locali – polizie d’Europa – per essere poi gettate nell’abisso. Nessuno disse niente. Era molto più importante sostenere il dittatore; Ben Alì e le potenze occidentali condividevano non solo interessi economici e politi ma anche lo stesso radicale disprezzo per il popolo tunisino e le sue sofferenze.

 

Ma il 17 dicembre una scintilla illuminò all’improvviso il mostro e rivelò anche, come spiega il sociologo Sadri Khiari, che “non c’è servitù volontaria ma solo la paziente attesa del momento dell’esplosione”.

Il gesto di disperazione di Mohamed Bouazizi, giovane informatico ridotto a venditore ambulante, ha messo in marcia un popolo da cui nessuno si aspettava niente, che gli altri arabi disprezzavano e che l’Europa considerava docile, vigliacco e addormentato dal calcio e dal Carrefour.

Un ciclo lunare dopo, il 14 gennaio scorso, dopo cento morti e decine di metastasi ribelli in tutto il paese, l’onda ha spazzato il centro di Tunisi e raggiunto il suo obiettivo. Ormai non si trattava più né di pane, né di lavoro né di youtube: “Ben Alì assassino”, “Ben Alì via”. L’ultima carica poliziesca, smentendo le promesse che il dittatore aveva fatto il giorno prima provocarono di nuovo numerosi morti e feriti.

Ma era bello, molto bello, vedere quei giovani da cui un mese prima nessuno si aspettava niente tornare nelle strade e trattenere la gente che fuggiva per incitarla a tornare alla lotta con le strofe vibranti dell’inno nazionale “namutu namutu way ahi el-watan” (moriremo, moriremo perchè viva la patria).

Nell’ultima ora del pomeriggio, appoggiato fino alla fine dalla Francia, il dittatore fuggiva in Arabia Saudita, lasciandosi alle spalle milizie armate con l’ordine di seminare il caos.

Il pericolo non è passato, la lotta continua. Ma ora c’è un popolo che dà battaglia. “Il 14 gennaio è il nostro 14 luglio” ripetono i tunisini. Forse è quello di tutto il mondo arabo. Mai il popolo aveva abbattuto un dittatore; e questo popolo inaspettato, intruso nella logica delle rivoluzioni, questa Tunisia di gelsomini e luce di miele, ora di dignità e di lotta, è lo specchio in cui si guardano i vicini, dal Marocco allo Yemen, dall’Algeria all’Egitto, fratelli di frustrazioni, infelicità e rabbia. Non ci sono da trovare le cause, sempre date, ma il minuto. E questo minuto è adesso.

 

(*) Santiago Alba Rico, nato a Madrid nel 1960, è scrittore, saggista e filosofo di formazione marxista. Dal 1991 ha vissuto al Cairo e dal 1998 si è trasferito a Tunisi, dove vive.

(traduzione di Daniela Trollio)

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