Nelle piazze svanisce tutto ciò che è solido
di Raùl Zibechi(*), da: alainet.org – 15.2.2011
Le rivolte della fame che scuotono il mondo arabo possono essere solo le prime ondate del grande tsunami sociale che si sta preparando nelle profondità dei popoli più poveri del pianeta. Il fenomenale aumento dei prezzi degli alimenti (58% il mais, 62% il grano in un anno) sta diventando la spoletta che da il via all’esplosione, ma il combustibile è dato dalla brutale speculazione finanziaria che si sta focalizzando, di nuovo, sulle materie prime. Alcuni prezzi hanno già superato i picchi del 2008, e la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale si mostrano incapaci di frenare la speculazione sugli alimenti, sulla vita.
Due fatti richiamano l’attenzione nella rivolta araba: la velocità con cui le rivolte della fame si sono trasformate in rivolte politiche e la paura delle élites dominanti che, per decenni, non hanno fatto altro che risolvere problemi politici e sociali con la sicurezza interna e la repressione. Il primo fatto parla di una nuova politicizzazione dei poveri del Medio Oriente. Il secondo parla delle difficoltà di quelli che stanno sopra a convivere con questa politicizzazione. Il sistema sta mostrando abbondantemente che può convivere con qualsiasi autorità statale, anche la più “radicale” o “antisistema”, ma non può tollerare la gente nelle strade, la rivolta, la ribellione permanente. Diciamo che la gente nelle piazze rappresenta il bastone nella ruota dell’accumulazione del capitale; per questo una delle prime “misure” prese dai militari dopo che Murabarak si è ritirato a riposare, è stata quella di esigere che la gente abbandonasse le strade e tornasse al lavoro.
Se quelli di sopra non possono convivere con le strade e le piazze occupate, noi di sotto – che abbiamo imparato ad abbattere faraoni – non abbiamo ancora imparato come bloccare i flussi, i movimenti del capitale. Cosa molto più complessa che bloccare carri armati o disperdere poliziotti antisommossa, perché a differenza degli apparati statali il capitale fluisce de-territorializzato, è impossibile dargli la caccia. Di più: ci attraversa, modella i nostri corpi e i comportamenti, entra nella nostra vita quotidiana e, come segnalava Foucault, condivide i nostri letti ed i nostri sogni. Anche se esiste un “fuori” dello Stato, è difficile immaginare un “fuori” del capitale. Per combatterlo non sono sufficienti né le barricate né le rivolte.
Nonostante queste limitazioni, le rivolte della fame diventate rivolte antidittatoriali sono bombe di profondità negli equilibri più importanti del sistema-mondo, che non potrà attraversare indenne la destabilizzazione che si vive in Medio Oriente. La stampa di sinistra israeliana ha indovinato nel segnalare che ciò di cui meno ha bisogno la regione è un qualche tipo di stabilità. Nelle parole di Gideon Levy, stabilità è che milioni di arabi, tra loro due milioni e mezzo di palestinesi, vivano senza diritti o sotto regimi criminali e terribili tirannie (Haaretz, 10 febbraio 2011).
Quando milioni di persone si prendono le piazze, tutto è possibile. Come di solito succede con i terremoti, per prime cadono le strutture più pesanti e peggio costruite, cioè i regimi più vetusti e meno legittimi. Tuttavia, una volta passata la scossa iniziale, cominciano a rendersi visibili le crepe, i muri fessurati e le travi che, sovraccariche, non possono più reggere le strutture. Alle grandi scosse succedono cambi graduali ma di maggiore profondità.
Qualcosa di questo l’abbiamo vissuto in Sudamerica tra il “Caracazo” venezuelano del 1989 e la Seconda Guerra del Gas del 2005 in Bolivia. Con gli anni le forze che sostenevano il modello neoliberista furono forzate ad abbandonare i governi e nuovi rapporti di forza si stabilirono nella regione.
Stiamo entrando in un periodo di incertezza e di crescente disordine. In Sudamerica esiste una potenza emergente come il Brasile che è stato capace di erigere una architettura alternativa a quella che ha cominciato a collassare. La UNASUR è un buon esempio.
Tutto indica che in Medio Oriente le cose saranno molto più complesse, per l’enorme polarizzazione politica e sociale, per la forte e feroce concorrenza tra stati e perché tanto gli Stati Uniti che Israele credono di giocarsi il loro futuro sostenendo realtà che non è più possibile continuare a sostenere.
Il Medio Oriente coniuga alcune delle più brutali contraddizioni del mondo attuale. Primo, l’impegno a sostenere un unilateralismo ormai decotto. Secondo, è la regione dove risulta più visibile la tendenza principale del mondo attuale: la brutale concentrazione di potere e di ricchezza. Mai prima nella storia dell’umanità un solo paese (gli Stati Uniti) ha speso in armamenti tanto quanto tutto il resto del mondo. Ed è in Medio Oriente dove questo potere armato esercita tutta la sua potenza per sostenere il sistema-mondo. Di più: un piccolissimo Stato di appena sette milioni di abitanti (Israele n.d.t.) ha il doppio delle armi nucleari della Cina, seconda potenza mondiale.
E’ possibile che la rivolta araba apra una crepa nella straordinaria concentrazione di potere che questa regione esibisce dalla fine della seconda Guerra mondiale. Solo il tempo dirà se si sta cucinando uno tsunami tanto potente che neppure il Pentagono sarà capace di fare surf sulle sue onde.
Ma non dobbiamo dimenticare che gli tsunami non fanno differenze: travolgono destre e sinistre, santi e peccatori, ribelli e conservatori. Ciò nonostante, è la cosa che più assomiglia ad una rivoluzione: non lascia più nulla al suo posto e provoca enormi sofferenze prima che le cose tornino ad un qualsiasi tipo di normalità, che può essere migliore o meno peggiore.
(*) Giornalista uruguayano, fece parte de Fronte Studentesco Rivoluzionario (FER) legato al Movimento Tupamaro negli anni 1969-1973. Esiliato prima a Buenos Aires e poi in Spagna, si è dedicato all’alfabetizzazione dei contadini e al movimento anti NATO. Profondo conoscitore dei movimenti dell’America Latina, oggi è anche docente e ricercatore della Multiversidad Franciscana de America latina.
(traduzione di Daniela Trollio)
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