FIAT

Fiat: prendi i soldi e scappa.

di Michele Michelino

 

 

Dopo essere stata mantenuta per decenni dai soldi dei contribuenti italiani e arricchita sullo sfruttamento degli operai italiani, ora che nella crisi si acuiscono le lotte fra i grandi gruppi industriali per salvaguardare le quote di mercato e ottenere il massimo profitto, la Fiat si prepara ad abbandonare il paese.


La FIAT entrata in Chrysler grazie ai soldi concessi in prestito dal governo americano ora ha conquistato la maggioranza delle quote.

 

Il 24 maggio 2011 a Sterling Heights, Michigan, la Chrysler completa il rimborso del maxi prestito contratto congiuntamente con i governi di USA e Canada, oltre 7 miliardi di dollari, la cui restituzione consente alla Fiat di completare un’ulteriore tappa della propria scalata.

Il debito era di 5,9 milioni di dollari con il governo americano e di 1,7 milioni con quello canadese.

Il prestito è stato rimborsato con oltre sei anni di anticipo rispetto alle scadenze fissate insieme al pagamento degli interessi. Alla notizia del rimborso, il portavoce della Casa Bianca Jay Camey ha dichiarato: “E’ una pietra miliare ed un segnale che l’industria dell’auto si sta riprendendo”. “l’annuncio arriva con sei anni di anticipo rispetto alle scadenze e solo due anni dopo l’uscita dall’amministrazione controllata. ”

FIAT scala così nuove posizioni che la fanno avvicinare alla quota del 51% nella proprietà, e subito dopo Sergio Marchionne annuncia che la società ha intenzione di esercitare l’opzione d’acquisto sulla quota del 6% in mano al tesoro USA, passando così entro fine anno a detenere il 57% del capitale della Chrysler.

Passato il periodo delle grandi chiacchiere “nazionalistiche” culminate nell’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia, sostenute da tutto il mondo politico e sindacale, continua incessante il prospettato disimpegno FIAT in Italia generando fra i “nazionalisti” solo qualche lamento.

 

Sfruttamento e repressione, soppressione dei diritti e ricatti sono da sempre la caratteristica che padroni e dirigenti di questo gruppo industriale hanno applicato contro gli operai da oltre un secolo e continua con i nuovi padroni.

 

Vogliamo solo ricordare alcune tappe recenti dell’attacco contro i salari e le condizioni di lavoro degli operai attuata dai dirigenti Fiat.

 

Nel referendum “sull'accordo per il futuro di Pomigliano d'Arco” del 22 giugno 2010 hanno vinto i SI con il 63,4%, i voti contrari sono stati il 36%, e dal Polo di Nola, (reparto confino) dove gli operai da tempo hanno perso le illusioni, è arrivato un secco NO: su 273 voti, 77 sono stati favorevoli e 192 contrari.

Successivamente, è stato il turno di Mirafiori. Anche a Torino, 15 gennaio 2011, con il 54% dei , i lavoratori di FIAT Mirafiori hanno “accettato” sotto il ricatto del licenziamento l’accordo separato del 23 dicembre. Così è diventatalegge la volontà del padrone.

Il referendum, imposto dal padrone e dai sindacati collaborazionisti, è passato con ricatti e minacce, con una grossa maggioranza (un risultato “bulgaro”) fra i gli impiegati, capi, quadri e dirigenti, e sopratutto grazie al comando di fabbrica. Invece tra le 4.500 tute blu, i hanno vinto per appena 9 voti.

L’accordo sindacale sostenuto e appoggiato da tutte le sigle ha peggiorato ulteriormente la condizione dei lavoratori, imponendo che i sacrifici fossero scaricati come sempre sulle spalle degli operai.

La Fiom che - pur non avendo firmato l’accordo a differenza dei sindacati di base sostenitori del No - non si è schierata, ha sostenuto il NI, e non chiamando gli operai a votare chiaramente per il No ha svolto la funzione di Ponzio Pilato.

Il vero volto del gruppo dirigente della Fiom si è manifestato nel recente referendum alla Bertone - fabbrica dove questo sindacato ha la maggioranza degli iscritti - sostenendo la posizione della RSU che chiamava i lavoratori a votare Si, secondo il volere del padrone.

Il ricatto e le minacce padronali contro operai e lavoratori disorganizzati funziona sempre.

Anche dalla ex Carrozzeria Bertone, fabbrica in cui la maggioranza dei lavoratori sono in Cassa Integrazione, è arrivato un voto a favore del padrone che ha promesso l’investimento Fiat.

Hanno votato 1.011 lavoratori su 1.087, una percentuale altissima che sfiora il 93%: la stragrande maggioranza, 886 lavoratori (pari al 88,8%), ha votato Si. I No sono stati 111 (11,14%), 10 le schede nulle e 4 le bianche.


Il Governo Berlusconi, i maggiori dirigenti del centrodestra e del centrosinistra (in questo caso uniti), hanno sostenuto la linea Marchionne dichiarando che se avessero vinto i No «le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri Paesi».

Per il vertice FIAT - l’amministratore delegato Sergio Marchionne e il presidente John Elkann, padroni della Fiat - è un’altra vittoria, per gli operai un’altra legnata.

La concentrazione del capitale continua e Marchionne ha dichiarato: «Noi stiamo facendo il possibile per accelerare questo ritmo ed arrivare, nel più breve tempo possibile, alla nascita di un solo gruppo in grado di garantire maggiore stabilità e forza alla relazione nell’interesse di entrambi i partner». Il trasferimento della sede decisionale negli Stati Uniti è sempre più vicina, anche se Marchionne conferma (per il momento) l’impegno da 20 miliardi in Italia.

 

Ricordiamo che la Chrysler era un’azienda tecnicamente cotta, fallita nel 2009. Dopo l’entrata della Fiat aiutata dal governo OBAMA, l’azienda ha sì restituito il prestito, ma non lo ha fatto mettendo mano agli utili bensì emettendo nuove obbligazioni.

I tassi di interessi più bassi (gli interessi caricati da Washington e Ottawa oscillavano tra il 14% e il 20%) permettono un risparmio previsto di 300 milioni di dollari all’anno.

 

In un intervista dello scorso febbraio al Wall Street Journal il presidente di Chrysler, Robert Kidder dichiarava:“Come fai a gestire 23 persone che riferiscono a te a Detroit e altre 25 a Torino?” “Non scherziamo, è chiaro che se la sede è in America e un domani arriva un governo democratico di Cuba che offre condizioni vantaggiose, Marchionne non ci penserebbe due volte a spostare la produzione da Torino all’Avana “. “L’Italia sarà alla pari della Polonia o del Brasile: una colonia”.

La competitività e la guerra commerciale fra gruppi economici imperialisti si fa sempre più aspra ed è senza fine, e la delocalizzazione continua.

Come ha scritto il settimanale Britannico l’Economist a novembre: “In Italia 22mila lavoratori distribuiti su cinque fabbriche producono ogni anno 650mila automobili. Nella principale installazione Fiat in Brasile, appena 9.400 dipendenti ne realizzano 750mila. L’impianto polacco fa ancora meglio: 6.100 lavoratori per 600mila vetture”. Le conseguenze sono ovvie. “E’ facile immaginare che la Fiat possa lasciare appassire i propri impianti (in Italia) iniettando nuovi investimenti nei Paesi caratterizzati da una crescita delle vendite e da una produttività più alta”.

 

A questo punto è lecito farsi e fare alcune domande.

E’ proprio vero che, se si accettano condizione di lavoro e di vita peggiorative per aumentare i profitti dei padroni, gli operai stanno meglio?

Votando SI al referendum si sono salvati i posti di lavoro?

 

La realtà ha ampiamente dimostrato che i sacrifici imposti oggi non servono certo a migliorare domani la condizione degli operai, ma solo a far aumentare i profitti, mettendoci in concorrenza con operai di altri paesi, sfruttati come noi.

 

 

Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto San Giovanni, mail: cip.mi@tiscali.it    

Web         http://ciptagarelli.jimdo.com/                                                 Sesto San Giovanni 29 maggio 2011

Scrivi commento

Commenti: 0

News