La caldaia greca
di Stathis Kuvelakis (*), da: lahaine.org, 23.6.2011
La Grecia è di nuovo in primo piano nell’attualità internazionale: il fatto non ha niente di sorprendente. Questa volta non si tratta semplicemente del debito o della concessione dei cosiddetti “aiuti” dell’Unione Europea e del F.M.I., ma delle reazioni che queste realtà economiche suscitano in una popolazione traumatizzata da un anno di “terapia di shock” neoliberista.
Anche in questo non c’è niente di strano: la Grecia ha una ricca tradizione di protesta sociale e di insurrezioni. Resistenza di massa contro l’occupazione nazista, lotte contro il feroce Stato poliziesco che uscì dalla guerra civile del 1944-1949, sollevazione degli studenti e dei lavoratori contro il regime militare nel novembre 1973 sono altrettante pietre miliari che modellano la memoria popolare.
Nel dicembre 2008, preannunciando i movimenti in corso, la gioventù di Atene e dei centri urbani si ribellò in conseguenza dell’assassinio di uno studente da parte della polizia, esprimendo così l’estensione del malessere sociale, anche precedentemente allo scoppio della crisi del debito.
I fatti della scorsa settimana, e più in particolare la mobilitazione nelle strade del 15 giugno 2011 che hanno fatto vacillare il governo, si spiegano con la congiunzione di due fenomeni. Da un lato, una mobilitazione sindacale classica, che è culminata in una giornata di sciopero generale dei settori privato e pubblico convocata dalle confederazioni sindacali, burocratizzate ma ancora abbastanza potenti (riuniscono circa un salariato su quattro).
Certo, dopo il voto del Parlamento, il 6 maggio 2010, del famoso “memorandum” concordato tra governo greco, Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, il paese ha contato con non meno di undici giornate simili, con una partecipazione spesso importante ma risultati più o meno nulli.
Se l’ultima giornata del 15 giugno è stata un successo impressionante (da fonti sindacali, la partecipazione avrebbe oscillato, a seconda dei settori, tra l’80 e il 100%) e i cortei imponenti, la ragione va cercata in un nuovo attore, entrato in scena il 25 maggio scorso.
Quel giorno, in seguito ad una chiamata ispirata dagli “indignati” di Spagna, decine di migliaia di persone sono confluite nelle principali piazze del paese e vi sono rimaste fino a sera. Una moltitudine eterogenea - costituita per la maggior parte da elettori delusi dei due grandi partiti (conservatore e socialista) che si alternano al potere da più di tre decenni – scende per la prima volta in piazza per gridare la sua collera contro il governo e il sistema politico.
Le parole d’ordine sono rivolte prima di tutto contro il “memorandum” menzionato sopra, contro la “troika” (UE, BCE,FMI) e le misure di austerità che prevede che, in meno di un anno, hanno ridotto di un quarto i salari e le pensioni (tradizionalmente i più bassi dell’Europa occidentale dopo quelli del Portogallo), fatto salire il tasso di disoccupazione al 16,2% e portato al fallimento ospedali, università e servizi pubblici di base.
Poco considerato fino ad ora dai media internazionali, quando è di un’ampiezza e di un radicamento sociale molto più significativi del loro “cugino” spagnolo, questo “movimento delle piazze” come si chiama da sé è certamente diverso dalle forme precedenti di azione collettiva.
Da qui, senza dubbio, alcuni fraintendimenti: questo movimento, in nessun modo, può essere ridotto ad una protesta morale. E’, invece, rivelatore di una profonda crisi di legittimità non solo del partito al potere, ma del sistema politico e dello stato in quanto tali.
Innalzando bandiere greche, a volte accompagnate da bandiere tunisine, spagnole o argentine, il “popolo delle piazze” fa una secessione e lascia scoppiare la sua saturazione di fronte alla revoca del “contratto sociale” fondamentale tra Stato e cittadini. Come proclama lo striscione centrale che attraversa da settimane la piazza centrale di Atene, Syntagma, la “piazza della Costituzione”: “Non siamo indignati, siamo determinati”.
Si tratta, in effetti, di un’esigenza di democrazia reale, combinata con la presa di coscienza che questa è incompatibile con politiche di demolizione sociale, cosa che costituisce il motore del movimento in corso. Tutte le sere, nelle piazze di varie decine di città del paese, si riuniscono assemblee popolari con un seguito di massa, seguite da un tipo inedito di attività: circolazione della parola, discussione delle proposte preparate dalle commissioni di lavoro, decisioni sulle modalità e gli obiettivi delle azioni future.
Lo spazio urbano riconquistato diventa così il luogo della protesta e il simbolo di questa riappropriazione popolare della politica. Nonostante si lascino da parte le affiliazioni di partito, per paura di manipolazioni e divisioni sterili, i militanti delle formazioni della sinistra radicale affluiscono rapidamente. I concentramenti di fine settimana, in particolare quella del 5 giugno, riuniscono varie centinaia di migliaia di manifestanti in tutto il paese, di cui circa 300.000 ad Atene.
C’è una specie di decantazione politica: in un ambiente che ricorda quello dei Forum Sociali Europei nel loro momento migliore, le assemblee chiamano alla confluenza con i sindacati e all’accerchiamento del parlamento (ad Atene) e di altri edifici pubblici (nelle province) nella prospettiva del voto, previsto per fine mese, del nuovo pacchetto di austerità negoziato con la UE.
E’ proprio quello che succede nella giornata clou de 15 giugno, quando l’incontro dei cortei sindacali e di quelli del “popolo delle piazze” assume una tinta insurrezionale e affronta la repressione poliziesca, in particolare attorno al parlamento e a piazza Syntagma. Per lunghe ore i vertici dello stato sono nella più grande confusione. In una capitale preda del caos, il primo ministro Georges Papandreu negozia con l’opposizione di destra la formazione di un governo di “unione nazionale” al quale lui non parteciperebbe. Alla fine della notte, davanti ad un’opinione pubblica e ai media stupefatti, annuncia il fallimento di questi tentativi e un semplice rimpasto ministeriale (il ministro della Difesa prende il posto di quello dell’Economia).
Ma è troppo tardi: poiché egli stesso ha ammesso l’illegittimità del suo potere, colpito da nuove diserzioni di deputati del suo partito, Papandreu gioca contro il tempo, preoccupato fondamentalmente per l’approvazione forzata dell’accordo realizzato con l’Unione Europea. Un accordo contro cui la piazza è più che mai determinata a fare – fisicamente – barriera.
Alla crisi sociale ed economica si è aggiunta una crisi politica generalizzata, che non potrà essere risolta con la convocazione di elezioni anticipate.
La caldaia greca in ebollizione si starebbe avvicinando al momento della sua esplosione? Le settimane che verranno saranno decisive.
Una cosa è certa: l’onda di collisione che sale da questo paese sta già scuotendo in profondità l’attuale edificio europeo.
(*) Professore del King’s College di Londra, giornalista e scrittore.
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via magenta 88, Sesto S.Giovanni)
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