Chàvez, Evo e Obama
di Fidel Castro Ruz; da: cubadebate.cu; 26.9.2011
1° parte
Interrompo i compiti che assorbono la totalità del mio tempo in questi giorni per dedicare alcune parole alla singolare opportunità che offre alla scienza politica la sessantaseiesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
L’avvenimento annuale richiede uno sforzo singolare a coloro che si assumono le più alte responsabilità politiche in molti paesi. Per loro costituisce una dura prova; per gli appassionati di quest’arte, che non sono pochi dato che è una questione vitale, è difficile sottrarsi alla tentazione di osservare l’interminabile ma istruttivo spettacolo.
In primo luogo ci sono un’infinità di temi complicati e conflitti di interesse. Per un gran numero dei partecipanti è necessario prendere posizione su fatti che costituiscono flagranti violazioni dei principi.
Per esempio: che posizione adottare sul genocidio della NATO in Libia? Qualcuno desidera che rimanga traccia del fatto che, sotto la sua direzione, il governo del suo paese ha appoggiato il mostruoso crimine commesso dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO, i cui sofisticati aerei da combattimento, con o senza pilota, hanno portato a termine più di ventimila missioni di attacco contro un piccolo Stato del Terzo Mondo che ha appena sei milioni di abitanti, utilizzando le stesse ragioni ieri usate per attaccare e invadere la Serbia, l’Iraq, l’Afganistan e oggi minacciano di farlo in Siria o in qualsiasi altro paese del mondo?
Non è stato proprio il governo anfitrione dell’ONU quello che ha ordinato la carneficina del Vietnam, del Laos e della Cambogia, l’attacco mercenario della Baia dei Porci a Cuba, l’invasione di Santo Domingo, la “guerra sporca” in Nicaragua, l’occupazione di Grenada e Panamà da parte delle forze armate degli Stati Uniti e il massacro dei panamensi a El Chorrillo? Chi ha promosso i colpi di stato e i genocidi in Cile, Argentina e Uruguay, che sono costati decine di migliaia di morti e desaparecidos?
Non parlo di cose successe 500 anni fa, quando gli spagnoli diedero inizio al genocidio in America, o di 200 anni fa quando gli yankees sterminavano gli indiani negli Stati Uniti o schiavizzavano gli africani, nonostante che “tutti gli uomini nascono liberi ed uguali” come diceva la Dichiarazione di Filadelfia. Parlo di fatti successi negli ultimi decenni e che stanno succedendo oggi.
Non si può smettere di ricordare e di ripetere questi fatti quando ha luogo un avvenimento dell’importanza e del rilievo della riunione che si tiene all’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove si mette alla prova l’integrità e l’etica dei governi.
Molti di essi rappresentano paesi piccoli e poveri, che hanno bisogno di appoggio e cooperazione internazionale, di tecnologia, mercati e crediti, che le potenze capitaliste sviluppate hanno maneggiato a loro piacimento.
Nonostante il monopolio vergognoso dei mezzi di informazione di massa e dei metodi fascisti degli Stati Uniti e dei suoi alleati per confondere e ingannare l’opinione pubblica mondiale, la resistenza dei popoli cresce, e questo si può rilevare dai dibattiti che stanno avvenendo alle Nazioni Unite.
Non pochi leaders del terzo Mondo, nonostante gli ostacoli e le contraddizioni indicate, hanno esposto con coraggio le loro idee. Le stesse voci che provengono dai governi dell’America Latina e dei Caraibi non hanno più l’accento servile e imbarazzante dell’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, n.d.t.), che aveva caratterizzato le dichiarazioni dei capi di Stato nei decenni passati.
Due di questi si sono rivolti a questo foro: entrambi, il presidente bolivariano Hugo Chàvez, una mescolanza delle razze che compongono il popolo del Venezuela, e Evo Morales, di pura stirpe indigena millenaria, hanno espresso le loro idee in questa riunione, uno attraverso un messaggio e l’altro a viva voce, rispondendo al discorso del Presidente yankee.
Telesur ha trasmesso i tre discorsi. Grazie a questo abbiamo potuto conoscere sin dalla sera di martedì 20 il messaggio del Presidente Chàvez, letto con calma da Walter Martìnez nel suo programma Dossier. Obama ha pronunciato il suo discorso la mattina di mercoledì come Capo di Stato del paese anfitrione dell’ONU, e Evo ha pronunciato il suo nelle prime ore del pomeriggio di quello stesso giorno. Per essere breve, prenderò i paragrafi essenziali di ogni testo.
Chàvez non ha potuto assistere personalmente al vertice delle Nazioni Unite, dopo 12 anni di lotta senza riposare un solo giorno, cosa che ha messo a rischio la sua vita e colpito la sua salute e oggi lotta con abnegazione per il suo completo recupero. Era difficile, tuttavia, che il suo coraggioso messaggio non toccasse il tema più importante della storica riunione. Lo trascrivo quasi integralmente:
“Rivolgo queste parole all’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, (…..)per riconfermare - in questo giorno e in questo scenario - il totale appoggio del Venezuela al riconoscimento dello Stato palestinese: il diritto della Palestina a diventare un paese libero, sovrano e indipendente. Si tratta di un atto di giustizia storico per un popolo che porta in sé, da sempre, tutto il dolore e la sofferenza del mondo.
Il grande filosofo francese Gilles Deleuze (…) dice con accento di verità: “La causa della Palestina è prima di tutto l’insieme delle ingiustizie che questo popolo ha sofferto e continua a soffrire”. Ed è anche, oso aggiungere, una permanente e non piegabile volontà di resistenza che è ormai inscritta nella memoria eroica della condizione umana. (…) Mahmud Darwish, voce infinita della Palestina possibile, ci parla dal sentimento e dalla coscienza di questo amore. Non abbiamo bisogno del ricordo/perché il Monte Carmelo è in noi/e nelle nostre palpebre è l’erba di Galilea./Non dire: se corressimo verso il mio paese come il fiume!/ No, non dirlo!/Perché siamo nella carne del nostro paese ed esso è in noi.
Contro coloro che, falsamente, sostengono che quanto accaduto al popolo palestinese non è un genocidio, lo stesso Deleuze sostiene con implacabile lucidità: In tutti i casi si tratta di fare come se il popolo palestinese non solo non dovesse esistere, ma che non fosse mai esistito. E’ – come dire – il grado zero del genocidio: decretare che un popolo non esiste; negargli il diritto all’esistenza. (…) la risoluzione del conflitto in Medio Oriente passa, necessariamente, dal rendere giustizia al popolo palestinese; è questo l’unico cammino per conquistare la pace.
Fa male e fa indignare che coloro che hanno sofferto uno dei peggiori genocidi della storia si siano trasformati in carnefici del popolo palestinese: fa male e fa indignare che l’eredità dell’Olocausto sia la Nakba. E fa indignare, semplicemente, che il sionismo continui a fare uso dell’antisemitismo contro coloro che si oppongono alla sua sopraffazione e ai suoi crimini. Israele ha strumentalizzato e strumentalizza, con sfrontatezza e viltà, la memoria delle vittime. E lo fa per agire, con totale impunità, contro la Palestina. Al proposito, non è inutile precisare che l’antisemitismo è una miseria occidentale europea, alla quale non partecipano gli arabi. Non dimentichiamo, oltretutto, che il popolo semita palestinese è quello che soffre la pulizia etnica praticata dallo Stato colonialista israeliano. (…) una cosa è rifiutare l’antisemitismo, e un’altra – molto diversa – accettare passivamente che la barbarie sionista imponga un regime di apartheid al popolo palestinese. Da un punto di vista etico, chi rifiuta il primo deve condannare il secondo. (…) il sionismo, come visione del mondo, è assolutamente razzista. Queste parole di Golda Meir, nel loro terribile cinismo, ne sono la prova lampante: restituire loro i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli. Non esiste una cosa chiamata palestinesi. Non è come si pensa, che ci fosse un popolo chiamato palestinese, che considerasse se stesso palestinese e che noi siamo arrivati, li abbiamo scacciati e gli abbiamo tolto il loro paese. Loro non esistevano.
Leggetevi e rileggetevi quel documento che storicamente è conosciuto come Dichiarazione Balfour dell’anno 1917: il Governo britannico si arrogava la potestà di promettere agli ebrei un rifugio nazionale in Palestina, ignorando deliberatamente la presenza e la volontà dei suoi abitanti.
Bisogna ricordare che in Terra Santa hanno convissuto in pace, per secoli, cristiani e musulmani, fino a che il sionismo cominciò a rivendicarla come di sua intera ed esclusiva proprietà.
(…) Alla fine della 2° Guerra Mondiale la tragedia del popolo palestinese si è inasprita, si è consumata l’espulsione dal suo territorio e, nello stesso tempo, dalla storia. Nel 1947 l’abominevole e illegale risoluzione 181 delle Nazioni Unite raccomanda la divisione della Palestina in uno Stato ebreo, uno Stato arabo e una zona sotto il controllo internazionale (Gerusalemme e Betlemme). Venne concesso (……) il 56% del territorio al sionismo per la costituzione del suo Stato. Di fatto questa risoluzione violava il diritto internazionale e negava platealmente la volontà delle grandi maggioranze arabe: il diritto di autodeterminazione dei popoli diventava lettera morta.
(…) contro quello che Israele e gli Stati Uniti pretendono di far credere al mondo, attraverso le multinazionali della comunicazione, quello che è successo e continua a succedere in Palestina - diciamolo con le parole di Said - non è un conflitto religioso: è un conflitto politico, di marca coloniale e imperialista; non è un conflitto millenario ma contemporaneo; non è un conflitto nato in Medio Oriente ma in Europa.
Qual era e quale è il nocciolo del conflitto? Si privilegia la discussione e la considerazione della sicurezza di Israele, e per nulla quella della Palestina. Lo si può verificare nella storia recente: basta ricordare il nuovo episodio genocida scatenato da Israele con l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza.
La sicurezza della Palestina non si può ridurre al semplice riconoscimento di un limitato autogoverno e autocontrollo poliziesco nelle sue “enclaves” della sponda occidentale del Giordano e nella Striscia di Gaza, lasciando da parte non solo la creazione dello Stato palestinese, sulle frontiere anteriori al 1967 e con Gerusalemme come sua capitale, i diritti dei suoi cittadini e la sua autodeterminazione come popolo, ma anche la compensazione e il conseguente ritorno in Patria del 50% della popolazione palestinese che si trova dispersa nel mondo intero, esattamente come stabilisce la Risoluzione 194.
E’ incredibile che un paese (Israele), che deve la sua esistenza ad una risoluzione dell’Assemblea Generale, possa disdegnar le risoluzioni che provengono dalle Nazioni Unite, denunciava padre Miguel D’Escoto quando chiedeva la cessazione del massacro contro il popolo di Gaza, alla fine del 2008 e all’inizio del 2009. E’ impossibile ignorare la crisi delle Nazioni Unite. Davanti a questa stessa Assemblea abbiamo sostenuto, nell’anno 2005, che il modello delle Nazioni Unite si era esaurito. Il fatto che si sia ritardato il dibattito sulla questione palestinese e che lo si stia sabotando apertamente è una nuova conferma di questo.
Da vari giorni Washington va dicendo che porrà il veto nel Consiglio di Sicurezza a quella che sarà una risoluzione maggioritaria dell’Assemblea generale: il riconoscimento della Palestina quale membro a pieno titolo dell’ONU. Insieme alle nazioni sorelle che compongono l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), nella dichiarazione di riconoscimento dello Stato Palestinese abbiamo deplorato, da tempo, che una così giusta aspirazione possa venire bloccata per questa via.
Come sappiamo l’impero, in questo e in altri casi, pretende di imporre un doppio standard nello scenario mondiale: è la doppia morale yankee che viola il diritto internazionale in Libia, ma permette che Israele faccia ciò che vuole, diventando così il principale complice del genocidio palestinese a mano della barbarie sionista.
Ricordiamo alcune parole di Said che mettono il dito nella piaga: dati gli interessi di Israele negli Stati Uniti, la politica di questo paese riguardo al Medio oriente è israelocentrica.
Voglio finire con la voce di Mahmud Darwish nel suo memorabile poema Sopra questa terra: Sopra questa terra c’è qualcosa che merita di vivere: sopra questa terra c’è la signora della terra, la madre degli inizi, la madre delle fini. Si chiamava Palestina. Continua a chiamarsi Palestina. Signora: io merito, perché tu sei la mia dama, io merito di vivere.
Continuerà a chiamarsi Palestina: la Palestina vivrà e vincerà! Lunga vita alla Palestina libera, sovrana e indipendente!
Hugo Chávez Frías
Presidente dela Repubblica Bolivariana del Venezuela”
Quando la riunione è iniziata la mattina seguente, sicuramente le sue parole erano ormai nel cuore e nella mente delle persone là riunite.
Il leader bolivariano non è mai stato nemico del popolo ebreo. Uomo di particolare sensibilità, ha sempre detestato profondamente il crimine brutale commesso dai nazisti contro bambini, donne e uomini, giovani e vecchi, nei campi di concentramento dove i gitani furono anch’essi vittime di crimini atroci e del tentativo di sterminarli, che nessuno tuttavia ricorda e che mai si menzionano. Così come centinaia di migliaia di russi morirono in quei campi di sterminio quale razza inferiore secondo il concetto razziale dei nazisti.
Quando Chàvez è tornato nel suo paese, proveniente da Cuba, la notte del 22 settembre, si è riferito con indignazione al discorso pronunciato da Barak Obama alle Nazioni Unite. Poche volte l’ho sentito parlare con tanto disincanto di un leader di cui egli aveva un determinato rispetto, quale vittima della sua stessa storia di discriminazione razziale negli Stati Uniti. Non l’ha mai ritenuto capace di agire come avrebbe fatto George W. Bush e conservava un ricordo rispettoso delle parole scambiate con lui nella riunione a Trinidad e Tobago.
“Ieri abbiamo ascoltato un insieme di discorsi, l’altro ieri anche, là alle Nazioni Unite, discorsi rigorosi come quello della presidentessa Dilma Roussef; discorsi di alto valore etico come quello del presidente Evo Morales; un discorso che potremmo classificare come un monumento al cinismo – il discorso del Presidente Obama – è un monumento al cinismo che il suo stesso viso denunciava, la sua faccia era un poema; un uomo che invocava la pace, immagina, Obama che invocava la pace; con che morale? Un monumento storico al cinismo il discorso del Presidente Obama.
“Discorsi precisi, che orientano, stiamo ascoltando: quello del Presidente Lugo, quello della presidentessa argentina, che fissano posizioni coraggiose davanti al mondo”.
Quando a New York è cominciata la riunione la mattina di mercoledì 21 settembre, il Presidente degli Stati Uniti – dopo le parole della Presidentessa del Brasile che ha dato inizio ai dibattiti, e dopo la presentazione di rigore – ha occupato il podio e ha dato inizio al suo discorso.
“In sette decenni – ha cominciato dicendo – mentre l’ONU ha impedito che vi fosse una Terza Guerra Mondiale, continuiamo a vivere in un mondo segnato dal conflitto e piagato dalla povertà; mentre proclamiamo il nostro amore per la pace e l’odio per la guerra, continuano nel mondo convulsioni che mettono tutti in pericolo.”
Non si sa quale sarebbe stato il momento, secondo Obama, in cui l’ONU avrebbe impedito una terza Guerra Mondiale
“Ho assunto il mio incarico in un periodo di due guerre per gli Stati Uniti, una guerra contro l’estremismo, che ci ha portati alla guerra; in primo luogo, Osama Bin Laden e la sua organizzazione Al Qaeda continuavano ad essere liberi. Oggi stabiliamo una nuova direzione, alla fine di quest’anno le operazioni militari in Iraq termineranno, avremo relazioni normali con una paese sovrano, membro della comunità delle nazioni. Questa alleanza si rafforzerà con il rafforzamento dell’Iraq, delle sue forze di sicurezza, del suo governo e del suo popolo e anche delle sue aspirazioni”.
Di che paese sta davvero parlando Obama?
“Nel mettere fine alla guerra in Iraq, gli Stati Uniti e i loro alleati inizieranno la transizione in Afganistan; abbiamo un paese in Afganistan che può assumere la responsabilità del futuro del suo paese, e nella misura in cui lo fa le nostre forze se ne andranno e costruiremo un’alleanza solidale con il popolo afgano. Non si devono essere dubbi, quindi, che l’onda della guerra stia tornando indietro. Ho assunto il potere quando migliaia di statunitensi servivano in Afganistan e in Iraq; alla fine di quest’anno il numero si ridurrà alla metà e continuerà a diminuire. Questo è fondamentale per la sovranità, sia dell’Iraq che dell’Afganistan ed è anche essenziale per il rafforzamento dell’ONU e degli Stati Uniti, mentre costruiamo la nostra stessa nazione; oltretutto stiamo andandocene da lì con una posizione forte. Dieci anni fa c’era una ferita aperta e ferri ritorti, un cuore spezzato nel centro di questa città; oggi che si eleva, una nuova torre simbolizza il rinnovamento di New York; oggi Al Qaeda sopporta più pressioni che mai, la sua direzione ha perso valore, Osama Bin Laden, un uomo che ha ucciso migliaia di persone in dozzine di paese, non metterà più in pericolo la pace”.
Di chi era alleato Bin Laden, chi lo ha davvero addestrato e armato per combattere i sovietici in Afganistan? Non sono stati i socialisti, né i rivoluzionari in alcuna parte del mondo.
“Questo decennio è stato molto difficile (…) ma oggi ci troviamo ad un crocevia della storia, con l’opportunità di muoverci in modo decisivo verso la pace, per farlo dobbiamo tornare alla saggezza di coloro che crearono questa istituzione. Le Nazioni Unite e la loro Carta, che ci spronano a unirci per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
Chi ha basi militari in ogni parte del mondo, chi è il maggior esportatore di armi, chi possiede centinaia di satelliti spia, chi investe più di un milione di milioni di dollari all’anno in spese militari?
“Quest’anno è stato un momento di grandi trasformazioni, più nazioni sono andate avanti a mantenere la pace e la sicurezza e più individui stanno reclamando il loro diritto a vivere in pace e in libertà”.
Cita poi i casi del Sudan del Sud e della Costa d’Avorio. Non dice che nel primo le multinazionali yankees si sono lanciate sulle riserve petrolifere di questo nuovo paese, il cui presidente nella stessa assemblea dell’ONU, ha detto che si tratta di risorse valide ma esauribili e ha proposto l’uso razionale e ottimizzato delle stesse.
Obama non ha detto nemmeno che la pace, in Costa d’Avorio, è stata raggiunta con l’appoggio dei soldati colonialisti di un eminente membro della bellicosa NATO che ha appena finito di lanciare migliaia di bombe sulla Libia.
Poco dopo ricorda la Tunisia e attribuisce agli Stati Uniti il merito del movimento popolare che ha rovesciato il governo di quel paese, un alleato dell’imperialismo.
Più incredibile ancora, Obama pretende di ignorare che gi Stati Uniti sono stati responsabili del fatto che in Egitto si installasse il governo tirannico e corrotto di Hosni Mubarak che, oltraggiando i principi di Nasser, si è alleato con l’imperialismo, ha strappato al suo paese decine di migliaia di milioni e ha tirannizzato quel popolo coraggioso.
“Un anno fa – afferma Obama – l’Egitto aveva uno stesso presidente da 30 anni. Per 18 giorni gli occhi del mondo si sono fissati su piazza Tahrir, dive gli egiziani di ogni parte della società, giovani, bambini, donne, uomini, musulmani e cristiani chiedevano i loro diritti universali. Abbiano visto in questi manifestanti la forza della non violenza che ci ha portato da Nuova Delhi a Selma e abbiamo visto che il cambiamento è arrivato in Egitto e nel mondo arabo con mezzi pacifici.”
“Giorno per giorno di fronte alle pallottole e alle armi il popolo libico non ha rinunciato alla sua libertà e quando sono stati minacciati da quella atrocità che molte volte abbiamo visto negli ultimi secoli, l’ONU ha rispettato la sua Carta, il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato le misure necessarie per evitare un massacro in Libia. La Lega Araba esigeva questo intervento, c’è stata un’alleanza e una coalizione per evitare l’avanzamento delle forze di Gheddafi”.
“Ieri i leaders di una nuova Libia hanno preso il loro posto qui, con noi, e questa settimana le Nazioni Unite e gli Stati Uniti stanno aprendo la loro nuova ambasciata a Tripoli”.
“E’ così che la comunità internazionale deve funzionare e dovrebbe funzionare: che le nazioni si uniscano per cercare la pace e la sicurezza e gli individui esigano i loro diritti”.
“Noi tutti abbiamo la responsabilità di appoggiare la nuova Libia, il nuovo governo libico che affronta la sfida di trasformare questa promessa in una benedizione per tutti i libici”.
“Il regime di Gheddafi è finito, Gbagbo, Ben Ali, Mubarak non sono più al potere. Osama Bin Laden se n’è andato e l’idea che il cambiamento può venire soltanto dalla violenza è stata sotterrata con lui”.
Osservate la forma poetica con cui Obama sbriga la faccenda di Bin Laden, qualsiasi siano state le responsabilità di questo vecchio alleato, giustiziato con uno sparo in viso davanti a sua moglie e ai suoi figli, e gettato in mare da un portaerei, ignorando i costumi e le tradizioni di mille milioni di credenti e principi giuridici elementari stabiliti da tutti i sistemi penali. Questi metodi non portano né porteranno mai alla pace.
“Qualcosa sta succedendo nel nostro mondo – prosegue rispetto alla Libia – il modo in cui le cose sono state è come sarà in futuro. La mano della tirannia è finita, i tiranni sono stati ignorati e il potere è in mano ora al popolo. I giovani rifiutano la dittatura, rifiutano la menzogna che alcune razze, alcuni popoli, alcune etnie non meritano la democrazia.”
“La promessa sulla carta che tutti nasciamo liberi e uguali e con gli stessi diritti è sempre più vicina ad essere reale (…) La misura del successo è se le persone possono vivere in una libertà, dignità e sicurezza sostenibili, e l’ONU e i suoi membri devono fare il necessario per appoggiare questa aspirazione basica, e dobbiamo fare molto lavoro in questo senso”.
All’improvviso se la prende con altri paesi musulmani dove, come si sa, i suoi servizi di intelligence insieme a quelli di Israele assassinano sistematicamente gli scienziati più esperti di tecnologia militare.
Immediatamente dopo minaccia la Siria, dove l’aggressività yankee può condurre ad un massacro molto più spaventoso di quello della Libia: “Oggi, uomini, donne, bambini sono stati assassinati e torturati dal regime siriano; migliaia sono stati assassinati, molti durante il mese sacro del Ramadan; migliaia hanno attraversato la frontiera della Siria. Il popolo siriano ha mostrato dignità e coraggio nella sua ricerca di giustizia, protestando pacificamente e morendo per gli stessi valori che questa istituzione difende. Bene, la questione è semplice: appoggeremo il popolo siriano o appoggeremo i suoi oppressori? L’ONU ha già applicato sanzioni ai leaders siriani. Appoggiamo il trasferimento del potere che risponda ai desideri del popolo siriano e molti si sono uniti a noi in questo sforzo; ma, per il bene della Siria e per la pace e la sicurezza del mondo dobbiamo parlare con una sola voce: non vi è giustificazione per l’azione. E’ arrivato il momento che il Consiglio di Sicurezza sanzioni il regime della Siria e appoggi il popolo siriano”.
Qualche paese è rimasto per caso escluso dalle minacce sanguinarie di questo illustre difensore della sicurezza e della pace internazionale? Chi ha concesso agli Stati Uniti tali prerogative?
“Dobbiamo risponde alle richieste di cambiamento nella regione. In Yemen donne, bambine, uomini si sono riuniti nelle piazze, tutti i giorni, con la speranza che la loro determinazione e lo spargimento del loro sangue porti ad un cambiamento. Il popolo statunitense appoggia queste aspirazioni. Dobbiamo lavorare con i vicini e gli amici nel mondo per cercare una strada che porti ad una transizione pacifica dal governo di Saleh, e che ci siano elezioni libere e giuste il più presto possibile”.
“In Bahrein si sono prese misure per la riforma nella resa dei conti. Siamo contenti di ciò, ma ci vuole molto altro. Siamo amici del Bahrein e continueremo ad esigere dal governo e dagli oppositori che ricerchino un dialogo significativo, che porti a cambi pacifici e realizzi i desideri del popolo. Crediamo che il patriottismo del Bahrein possa essere più grande del settarismo che lo divide; è difficile, ma si può fare”.
Non menziona in assoluto il fatto che là si trova una delle più grandi basi militari della regione e che le multinazionali yankees controllano e dispongono a loro piacimento delle più grandi riserve di petrolio e gas dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi.
“Crediamo che ogni nazione debba avere la sua strada per riuscire a soddisfare le aspirazioni dei popoli. Non possiamo essere d’accordo con tutti quelli che si esprimono politicamente, ma difenderemo sempre i diritti universali che sono stati appoggiati da questa Assemblea, diritti che dipendono da elezioni libere e giuste, governi trasparenti che rendano conto, rispetto per i diritti delle donne e delle minoranze, giustizia eguale e giusta. Questo merita il nostro popolo. Questi sono gli elementi di una pace che possa durare”.
“Gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare le nazioni che vanno verso la democrazia con maggiore commercio e investimenti, perché la libertà sia seguita dall’opportunità. Continueremo il nostro impegno con i governi, ma anche con la società civile, gli studenti, gli imprenditori, i partiti politici, la stampa, i mezzi di comunicazione. Abbiamo condannato coloro che violano i diritti umani e impediscono che questi giungano in quei paesi. Castighiamo coloro che violano quei diritti e saremo sempre al servizio quale voce di coloro che sono stati fatti tacere”.
Dopo questa lunga perorazione, l’insigne Premio Nobel per la Pace entra nello spinoso tema della sua alleanza con Israele che naturalmente non figura tra i privilegiati possessori di uno dei più moderni sistemi di armi nucleari e mezzi capaci di raggiungere obiettivi a distanza. Sa perfettamente bene quanto arbitraria e impopolare è questa politica.
“So che questa settimana c’è un tema che è fondamentale in questo senso, per questi diritti. E’ una prova per la politica estera degli Stati Uniti mentre il conflitto tra Israele e i palestinesi continua. Un anno fa, da questo podio, ho insistito perché ci fosse una Palestina libera. Credevo allora, e lo credo oggi, che il popolo palestinese meriti il suo Stato, ma ho anche detto che una pace genuina può essere ottenuta solo tra gli israeliani e i palestinesi stessi. Un anno dopo, nonostante molti sforzi degli Stati Uniti e di altri, le parti non hanno potuto superare le loro differenze. Davanti a questa stasi ho suggerito una nuova base per le negoziazioni, l’ho fatto nel maggio scorso. Questa base è chiara, è nota a tutti: gli israeliani devono sapere che qualsiasi accordo deve avere garanzie per la loro sicurezza; i palestinesi debbono conoscere le basi territoriali del loro Stato. So che molti sono frustrati per la mancanza di avanzamenti e anch’io lo sono stato e lo sono. La questione non è la meta che cerchiamo, ma come raggiungiamo questa meta.”.
“La pace esige molto lavoro, la pace non arriverà attraverso risoluzioni o dichiarazioni davanti all’ONU, se fosse così facile la si sarebbe già ottenuta. Gli israeliani e i palestinesi devono sedersi, e dovranno vivere insieme, sono loro che devono cercare una soluzione fattibile sulle loro frontiere, devono cercare una soluzione su Gerusalemme, sui rifugiati. La pace dipende dall’accordo tra coloro che devono vivere insieme dopo che i nostri discorsi saranno finiti, molto dopo che noi avremo votato”.
Si allunga ancora nella tiritera per spiegare e giustificare l’inspiegabile e l’ingiustificabile.
“.. Non vi è dubbio che i palestinesi hanno visto ritardare questo per troppo tempo, ed è perché crediamo tanto nelle aspirazioni del popolo palestinese che gli Stati Uniti hanno investito tanto tempo e tanto sforzo nel costruire uno Stato palestinese e negoziazioni che possano realizzare questa meta delo Stato palestinese; ma bisogna capire anche questo, gli Stati Uniti hanno un impegno con la sicurezza di Israele, è essenziale; la nostra amicizia con lo Stato israeliano è profonda e duratura.”
“Il popolo ebreo ha formato uno Stato di successo e merita riconoscimento e relazioni normali con i suoi vicini, e gli amici dei palestinesi non fanno loro alcun favore ignorando questa verità. (…) ogni parte ha aspirazioni legittime e questo è parte di ciò che fa la pace qualcosa di tanto difficile, e il termine finale scadrà solo quando ognuna delle parti imparerà a mettersi nei panni dell’altra, quando ogni parte possa vedere il mondo con gli occhi dell’altra. Questo lo dobbiamo incoraggiare, dobbiamo promuovere questo”.
Nel frattempo, i palestinesi continuano ad essere esiliati dalla loro patria, le loro case vengono distrutte da mostruose attrezzature meccaniche e un muro odioso, molto più alto di quello di Berlino, separa alcuni palestinesi da altri. La cosa migliore che Obama ha riconosciuto è che gli stessi cittadini israeliani cominciano ad essere stanchi dello spreco di risorse investite nella sfera militare, che li priva della pace e del’accesso ai mezzi elementari di vita. Come i palestinesi, essi stanno soffrendo le conseguenze di quelle politiche imposte dagli Stati Uniti e dagli elementi più bellicosi e reazionari dello Stato sionista.
“Nella misura in cui facciamo fronte a questi conflitti e a queste rivoluzioni, dobbiamo riconoscere e ricordare che (….) la pace vera dipende dal creare le opportunità che fanno sì che valga la pena di vivere la vita, e per questo dobbiamo affrontare i nemici comuni dell’umanità: le armi nucleari, la povertà, l’ignoranza e le malattie”.
Chi riesce a capire questo guazzabuglio del Presidente degli Stati Uniti davanti all’Assemblea Generale?
Immediatamente dopo postula la sua inintellegibile filosofia:
“Per far fronte alla distruzione mondiale dobbiamo lottare per un mondo senza armi nucleari; negli ultimi due anni abbiamo cominciato a seguire questa strada. Dal Vertice di Washington molte nazioni hanno iniziato a garantire l’assicurazione del loro materiale nucleare contro possibili terroristi”.
Ci può essere terrorismo più grande della politica aggressiva e bellicosa di un paese il cui arsenale di armi nucleari potrebbe distruggere varie volte la vita umana su questo pianeta?
“Gli Stati Uniti continueranno a lavorare per proibire gli esprimenti sul materiale nucleare e sui materiali per queste armi nucleari” continua promettendoci Obama. “Abbiamo cominciato, quindi, ad avanzare nel modo corretto. Gli Stati Uniti si sono impegnati a mantenere i loro obblighi; ma mentre manteniamo i nostri impegni speriamo che anche le istituzioni aiutino a limitare l’espansione di queste armi (…) L’Iran non ha potuto dimostrare che il suo programma di armi nucleari sia pacifico”.
Ecco di nuovo la solfa! Ma stavolta l’Iran non è solo: lo accompagna la repubblica Democratica della Corea.
“La Corea del Nord deve prendere misure per ridurre le sue armi e ridurre la sua belligeranza verso il Sud. C’è un futuro con molte opportunità per i popoli di queste nazioni se i loro governi rispettano i loro obblighi internazionali; ma se continuano sulla strada fuori dal diritto internazionale, devono sentire maggiori pressioni di isolamento, per questo il nostro impegno verso la pace e la sicurezza esige che si agisca così.”.
Continuerò domani.
Fidel Castro Ruz
26 settembre 2011, ore 22.30
(traduzione di Daniela Trollio del Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88 – Sesto S.Giovanni (Mi)
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wlp (giovedì, 25 giugno 2015 12:43)
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