Il primo anniversario dei bombardamenti “umanitari” sulla Libia
di Neirlay Andrade (*); da: rebelion.org; 21.3.2012
Un anno fa cadeva la prima bomba dell’intervento “umanitario” in territorio libico. Due giorni prima l’ONU emetteva la Risoluzione 1973, un documento che dava il via libera all’alleanza imperiale per “prendere tutte le misure necessarie (…) per proteggere i civili e le zone popolate da civili che si trovino sotto minaccia di attacco”, oltre alla creazione di una zona di esclusione aerea.
Gli artefici del testo furono la Francia, l’Inghilterra e il Libano. Dei quindici membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, cinque si astennero dal votarlo, due di essi con diritto di veto: Russia e Cina; gli altri tre furono Germania, India e Brasile.
Il primo colpo lo assestò la Francia. Nella notte del 19 marzo 2011 gli Stati Uniti e il Regno Unito si erano aggiunti all’operazione militare in “difesa” dei civili che, paradossalmente, lasciò più di 50.000 morti e un paese distrutto.
Quando fu lanciato il primo missile contro un’installazione militare libica già la diplomazia dell’Unione Europea aveva già dato le prime zampate: il 10 marzo l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) rafforzava il blocco navale in vista di un “possibile” intervento e la Francia e il Regno Unito avevano “riconosciuto” come “interlocutore valido” i capetti pro-colonialisti che volevano un’invasione di terra.
La copertura mediatica sui bombardamenti contro il popolo libico si alimentava di due “non-distinzioni”: primo, azione umanitaria e azione militare venivano assunte come sinonimi e, secondo, assassinare civili per proteggere civili non presupponeva alcuna contraddizione.
L’ “appoggio” ai mercenari, definiti “insorti” dalla stampa internazionale, fu senza condizioni. La Francia definì come “obbligo morale” l’invio di armi e denaro ai futuri assassini di Muhammar Gheddafi, come rivelò il giornale Le Figaro nell’edizione del 29 giugno.
Una settimana prima l’ex ministro francese della Difesa, Hervé Morin, affermava che i 160 milioni di euro che le potenze straniere investivano nell’invasione della Libia erano una piccola somma considerato che sarebbero serviti “per permettere alla popolazione di accedere alla democrazia”.
Prima della prima bomba la Libia era il terzo produttore di petrolio del continente africano, con 1,6 milioni di barili al giorno ed aveva un debito pubblico che non superava il 3% del suo prodotto interno lordo (PIL), valutato in 76.557 milioni di dollari e con un incremento del 6,7% annuo.
Le sue riserve, stimate in 46.000 milioni di barili, sono le più grandi della regione e rappresentano il 3,4% delle riserve mondiali stimate dall’OPEC.
Non è stato per caso che fosse Bengasi, l’enclave petrolifera del paese, la capitale della “resistenza”, come neppure è stato un caso che questo mese la Cirenaica, dove si trova il 66% del petrolio del paese, si sia dichiarata “indipendente”.
Questa è la notizia più recente della “Nuova Libia”; intanto il popolo magrebino aspetta il compimento delle “Vecchie Promesse” che accompagnavano ogni bomba “democratica” e che facevano da necrologio ad ogni morto dell’intervento “umanitario”.
(*) Giornalista venezuelano
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S. Giovanni)
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