CAPITALISMO

Il suo nome è “Crisi”

di Alejandro Nadal (*); da: jornada.unam.mx; 3.8.2012

 

Quando è stata l’ultima volta che un’economia capitalista è stata in espansione e in armonia sociale? Sembra che si debba fare un buon esercizio di memoria, perchè non è facile ricordare un simile momento di calma. Invece, nell’immaginario sociale, perdura la credenza che, in un’epoca perduta che bisognerebbe recuperare, il capitalismo ha potuto distribuire buoni risultati. Forse l’anelo profondo dell’essere umano è quel mondo di pace, benessere e giustizia. Ma questa aspirazione non significa che quell’anelato mondo sia possibile sotto la feroce regola del capitale.

 

La storia del capitalismo rivela un processo di continua espansione e questo è stato interpretato come segnale di successo. In quella stessa storia c’è una nutrita successione di episodi di contrazione e disastro. Come se la crisi incessante fosse lo stato naturale del capitale.

La lista di crisi e dislocazioni traumatiche nella marcia del capitalismo è lunga. In essa si intrecciano la speculazione finanziaria, la caduta della domanda aggregata provocata dai tagli salariali, l’eccesso di capacità produttiva e, naturalmente, le aspettative ottimistiche degli investitori, smentite varie volte dal mercato. In diversi momenti i limiti all’accumulazione di capitale hanno condotto a confronti inter-imperialistici e a politiche di colonizzazione che cercavano di superare quei limiti. In tutti questi casi la sequenza di disoccupazione e impoverimento, distruzione e guerre, ha lasciato cicatrici oscure.

 

 Il mitico periodo glorioso del capitale è qualcosa di assai debole.

Lasciamo perdere le crisi dei secoli precedenti, come quella della South Sea Company inglese (1720) o quelle del secolo XIX: la depressione post-napoleonica, la crisi del 1837 negli Stati Uniti, quella del 1847, quelle del 1857 e 1873-96 (chiamata “Lunga Depressione”). Passiamo al secolo XX.

Nel 1907 a New York scoppia una crisi feroce che minaccia tutto il sistema bancario e sbocca nella creazione della Riserva Federale. Nel 1920-21 si presenta una crisi deflazionaria che precederà la grande depressione. Questa lascerà un’impronta profonda nella storia economica e politica della prima metà del secolo.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale viene la cosiddetta epoca dorata dell’espansione capitalista. Questa fase (1947-1970) fu supportata da circostanze eccezionali e insostenibili: la domanda di ricostruzione post bellum e di consumo posticipato dalla crisi del 1929.

L’era dorata durò poco: alla fine degli anni Sessanta comincia l’esaurimento delle opportunità redditizie per gli investimenti. Nel 1973 finisce la crescita dei salari e parte la crisi di stagnazione con inflazione, crisi che sbocca nel brutale rialzo dei tassi di interesse e scatena la crisi degli anni ’80 su scala mondiale.

In America Latina ci abituammo a chiamarlo il decennio perduto degli ’80. Dimenticammo che nei paesi centrali la crisi aveva avuto la sua gestazione proprio nell’era dorata. La crisi degli anni ’80 colpisce tutto il mondo.

 

A fine degli anni ’70 la crisi delle casse di risparmio e di credito negli Stati Uniti. Il costo fu enorme e gli effetti si prolungarono per altri 10 anni finchè, nel 1987, arrivò il Lunedì Nero. Durante gli anni ’90 l’economia statunitense sperimenta un episodio di bonaccia artificiale e persino le finanze pubbliche arrivano ad avere un avanzo di bilancio.

Mentre negli Stati Uniti la bolla delle imprese ad “alta tecnologia” sta nascendo, nel resto del mondo ci sono una nutrita serie di crisi: Messico, Thailandia e sud-est asiatico, Russia, Turchia, Brasile. Quando avvengono gli attentati dell’11 settembre, la crisi stava già colpendo da due anni gli Stati Uniti.

 

Non c’è un attimo di respiro. Il capitalismo vive attraverso mutazioni patogene continue. E’ come se si trattasse di un malato che, nei momenti di apparente buona salute, stesse preparando i momenti di grandi convulsioni.

 

Non bisogna cadere in una visione riduzionistica. Non tutte le crisi sono uguali, nè tutte hanno avuto le stesse cause. Lo sviluppo del capitalismo è un processo contraddittorio e per questo ha avuto fasi di relativa prosperità. Proprio in queste tappe di stabilità si generano le mutazoni che portano a più crisi.

 

L’analisi di taglio marxista offre le prospettive più ricche per l’analisi teorica della crisi come essenza del capitale. Ma anche con un atteggiamento riformista, à la Keynes, è facile osservare che la crisi è il nome del capitalismo: non esiste un meccanismo di aggiustamento che permetta di risolvere il problema dell’instabilità delle funzioni di investimento e di preferenza della liquidità in un’economia monetaria in maniera tale da raggiungere una situazione di pieno impiego.

Il punto è questo: non è che il meccanismo non funzioni, è che non esiste.

 

La visione ingenua del capitalismo deve andare definitivamente a riposare nel museo dei miti curiosi. Da qui nasce l’importante compito politico e storico per la sinistra, l’unica forza capace di mettere in discussione le basi del capitalismo.

 

(*) Economista ed editorialista del quotidiano messicano La Jornada

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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