La voracità capitalista si è accanita di nuovo in una delle zone più povere del nostro pianeta: il Bangladesh.
di Manuel Almisas Albéndiz; da rebelion.org; 27.11.2012
La notizia di agenzia è scarna: “Nuova Delhi, 25 novembre (EFE). Circa 120 persone sono morte ed un altro centinaio sono ferite nell’incendio che è scoppiato ieri sera in una fabbrica tessile di otto piani, situata nei dintorni di Dacca, la capitale del Bangladesh”. Ed è illustrata da immagini spaventevoli di centinaia di cadaveri carbonizzati, di operaie che si gettano dalla finestra e dell’attività dantesca dei vigili del fuoco.
Ma questa notizia non si può ridurre alla cronaca dei fatti accaduti. Va situata all’interno di una successione di veri e propri assassinii di lavoratrici e lavoratori dell’industria tessile, che trasforma questo dramma operaio in qualcosa senza precedenti, che bisogna ad ogni costo denunciare.
Il capitalismo non impara perché non gli interessa imparare.
E’ servita a qualcosa la tragedia di poche settimane fa a Karachi (Pakistan), dove sono morti bruciati circa 300 lavoratori della fabbrica tessile Ali Enterprise? O l’assassinio di più di 20 operai in un altro incendio accaduto a Lahore (Pakistan) in una fabbrica di scarpe? O, infine, la tragica cifra di più di 500 lavoratori morti in vari incidenti nell’industria tessile in Bangladesh dal 2006?
Non è servito a niente, naturalmente. Al capitalismo interessa solo ottenere sempre più profitti e nient’altro, non gli importa quali sono le condizioni di lavoro della manodopera che sfrutta e spreme in modo inumano. Si ricorre sempre alle stesse spiegazioni: norme di sicurezza inesistenti, installazioni elettriche pericolose, uscite di sicurezza strette e inadeguate, materiali che bruciano con facilità senza alcuna protezione, lavoratori ammassati in spazi ristretti, l’uso di generatori a gasolio per far fronte alle interruzioni dell’elettricità a causa della crisi energetica, ecc. ecc.
E’ chiaro che alle società capitaliste non interessa né la sicurezza né la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Era così anche agli inizi del capitalismo, come constatarono nelle metropoli Flora Tristan nel 1840 (“Passeggiate per Londra”) o F. Engels nel 1845 (“La situazione della classe operaia in Inghilterra”), ad esempio, e così è continuato anche nel secolo seguente.
E negli ultimi decenni la cosiddetta “delocalizzazione” ha permesso ancor più quelle pratiche capitaliste che consistono nel produrre merci in paesi del cosiddetto Terzo Mondo dove la manodopera - (specialmente donne e spesso bambine e bambini) con giornate di lavoro estenuanti, abusi e insulti, salari da miseria (tutto quanto denunciato nei tribunali per i diritti umani – è quasi schiavizzata e la sua vita non vale nulla.
Così è successo nel settore tessile, dove le grandi società con sede negli Stati Uniti, in Europa o in Asia, vanno a comprare in quei “paradisi dello sfruttamento” abiti sportivi, oggetti per la casa e per la moda per poi venderle attraverso le loro catene, come se niente fosse.
E’ successo con il dettagliante tedesco a basso costo KIK, che ha più di 3.000 negozi distribuiti in otto paesi europei e per cui, al momento dell’incendio, la Ali Enterprise stava producendo jeans. E oltretutto KIK non ha ancora indennizzato i familiari delle centinaia di morti e feriti.
E così succede ora con la danese “C&A”, la statunitense “WalMart” e la francese “Carrefour” che, secondo il loro sito web, comprano gli abiti dalla Tazreen Fashion Ltd., la fabbrica bruciata nel Distretto Ashulia di Dacca. Cosa diranno ai loro clienti delle città occidentali dove li commercializzano?
A poco o niente sono servite le azioni di denuncia dell’organizzazione “Clean Clothes Campaign” (Campagna abiti puliti) creata nel 1989 in Olanda contro aziende come Adidas, H&M o Zara.
Bisogna fare un passo avanti nella denuncia e nel boicottaggio di queste multinazionali del tessile.
Pare che questa situazione di supersfruttamento feroce, che tanti profitti a portato agli stati europei, abbia avuto la sua grande opportunità di estendersi e giustificarsi per motivi umanitari nell’estate del 2010, quando le inondazioni di cui hanno sofferto vaste regioni del Pakistan portarono i capi della UE a dare concessioni e benefici commerciali a questo paese “amico” dell’imperialismo statunitense e occidentale.
Salvador Maluquer, direttore delle relazioni internazionali del Consiglio Intertessile Spagnolo, denunciava questo trattamento di favore che riguardava questioni politiche e militari, e non gli interessi del settore tessile, dicendo il 5 novembre di quell’anno: “Le concessioni commerciali al Pakistan, concretatesi nell’esenzione del pagamento dei dazi all’entrata nel mercato comunitario per i prossimi tre anni a partire dal 1° gennaio 2011, beneficeranno unicamente importatori ed esportatori, e in sintesi le società che, nel caso del confezionamento tessile, sono altamente capitalizzate e molto competitive, con una fatturazione media tra i 100 e i 200 milioni di euro. Non aiuteranno in alcun caso le aree e le persone colpite dalle inondazioni…” (http://www.noticierotextil.net/impresion/imprimir.asp?idnoticia=103576).
Denunciava anche che il Pakistan aveva destinato gli aiuti umanitari sotto forma di concessioni alla sua industria tessile che già occupava una posizione dominante sul mercato europeo con prodotti come pigiami, pantaloni di cotone, biancheria da cucina e da bagno e che non aveva alcun bisogno di deroghe speciali per crescere.
Allo stesso modo l’unione degli industriali tessili europea, la EURATEX, avvertiva che questo trattamento di favore del Pakistan metteva in pericolo 120.000 posti di lavoro in Europa e non corrispondeva all’obiettivo perseguito da questi pretesi aiuti umanitari, dato che le industrie tessili pachistane non si trovavano nelle zone inondate. E ricordava che era successa la stessa cosa con la guerra intrapresa dagli USA in Afganistan nel 2001, fatto che aveva favorito le importazioni europee di biancheria da letto in cotone dal Pakistan, che da allora è stato favorito nell’accesso al mercato comunitario senza alcun dazio.
Nel caso dello stato spagnolo, la preoccupante crisi in cui si trova l’industria tessile fa sì che si ricorra sempre più al modello “produrre fuori e progettare dentro”, processo iniziato da più di una decina di anni con l’importazione di abiti dalla Cina, e che tra gli anni 2004 e 2009 ha fatto sparire il 30% del settore tessile spagnolo (tradotto in numeri, sono sparite in quegli anni 4.647 aziende).
Ma dal 2009 non è più redditizio ricorrere ai centri tessili cinesi a causa dell’aumento dei costi di produzione, e si comincia a spostare le fasi di produzione in altri paesi asiatici come il Bangladesh, il Vietnam e il Pakistan o in paesi vicini come l’Ungheria e il Marocco, con l’obiettivo di abbattere ancor di più i costi grazie all’avvicinamento della catena logistica. “Adolfo Domìnquez” è un esempio: nel 2011 ha prodotto in Cina circa un 45% in meno del 2010.
Lo stesso è successo in numerosi stati capitalistici europei, nordamericani e asiatici facendo sì - per esempio, e nel caso del paese che ha visto la nuova tragedia del lavoro, il Bangladesh – che la sua industria tessile rappresenti l’80% della produzione totale, cioè 24.000 milioni di dollari in esportazioni annuali e occupando il 40% della forza lavoro industriale. Questo indica che è diventato il secondo esportatore mondiale di confezioni, nonostante resti un paese di estrema povertà.
Sono le contraddizioni del capitalismo.
Il Ministero del Lavoro del Brasile segnalava nell’estate 2011 che in almeno 33 laboratori appaltati dalla multinazionale Inditex, proprietaria della firma Zara, erano state riscontrate irregolarità lavorative quali affollamento dei lavoratori, condizioni insalubri di lavoro e salari da miseria, che sfioravano il lavoro schiavistico.
Nella stessa direzione puntavano le denunce di SETEM e della già nominata “Abiti Puliti”, derivate dalla ricerca di Sales i Campo e Pineiro (2011, intitolata “La moda spagnola a Tangeri”), dove si documentavano le condizioni delle operaie delle confezioni marocchine che soffrono orari di lavoro lunghissimi, bassissimi salari, abusi verbali e fisici, arbitrarietà nella contrattazione e nei licenziamenti, misure disciplinari sproporzionate e ostacoli all’azione sindacale (http://www.ropalimpia.org/adjuntos/noticias/materiales/ ).
Nonostante il presunto superamento, nei paesi “sviluppati”, del capitalismo più sfruttatore e inumano, la verità è che questo non ha fatto altro che spostarsi geograficamente e rendersi invisibile agli occhi dell’opinione pubblica europea e occidentale.
Oggi come ieri, il capitalismo deve perpetuarsi, adattandosi per sopravvivere anche se a costo della vita di migliaia di lavoratrici e lavoratori poveri e dimenticati del Terzo Mondo.
Non abbiamo nulla da dire o da fare?
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)
Scrivi commento