PRIMAVERE ARABE

Il dentifricio non tornerà nel tubo

di Michele Rogalski, Fondazione Gabriele Péri; da: rebelion.org;

A due anni dalle rivoluzioni arabe di Tunisi e del Cairo, il tempo dell’entusiasmo cede il passo alla riflessione. L’emozione deve lasciare il posto all’analisi. Certo a nessuno dispiacerà la caduta delle dittature, i tiranni rovesciati e la fine del clima di piombo con cui questi regimi, che godevano della benevolenza delle democrazie occidentali, soffocavano i loro popoli.

Ma se l’allegria davanti alla sparizione dei dittatori, il loro timore di essere travolti uno per uno da una contagiosa ondata di collera sono ormai relegati ad un felice e incancellabile ricordo, non sarebbe logico rimanere insensibili davanti ai nuvoloni che minacciano quelle che sono state formidabili insurrezioni sociali e popolari. L’inenarrabile allegria che ci hanno regalato può impedirci di esprimere la nostra inquietudine.

 

L’imprevedibile!

Con assoluta sicurezza quello scoppio non può essere ridotto ad una parentesi e nessuno può suonare la campana di fine intervallo o il fischio di fine partita. Perché le società che sperimentano quelle insurrezioni non sono più docili, e non hanno paura perché la paura ha cambiato posto.

Il dentifricio non tornerà nel tubo. Ma stiamo attenti che non venga schiacciato, perché la gravità, la sete di vendetta e le ambizioni acquattate nell’ombra potrebbero cristallizzare la situazione nel senso contrario a quello dei movimenti emancipatori che gli hanno dato vita. E’ arrivato, quindi, il tempo della vigilanza. Con le sue esigenze, che impongono di incasellare gli accadimenti nella temporalità evolutiva di un’area strategica e culturale.

Perché in due anni la regione si è alterata completamente e il tempo ha accelerato sotto l’impatto delle implosioni interne e delle ingerenze esterne. Le tendenze e le sfide si sono riconfermate e oggi domina l’evoluzione dell’insieme della regione arabo-musulmana. Lo scenario del Mali è ugualmente colpito.

 

Nessun analista può affermare di aver previsto che regimi così autoritari come quelli di Ben Alì o Murabarak affondassero in così poco tempo in modi così poco usuali rispetto agli schemi tradizionali della vita politica. Assenza di un leader riconosciuto, nessuna forma organizzata inquadrata in un partito o in una struttura militante, senza programma, senza accumulazione di lotte di massa. Solo una parola d’ordine e un desiderio: farla finita con i despoti e le umiliazioni.

Nessuna cancelleria ha avvertito l’arrivo della tormenta. Nessun complotto ha tirato i fili né organizzato i fatti successi. I regimi sono affondati perché erano arrivati alla fine della corsa, perché la paura aveva cambiato di luogo e perché gli apparati repressivi sono intervenuti con prudenza, puntando sul futuro e abbandonando il potere costituito.

 

Dopo la sconfitta dei despoti, è cominciato il tempo della ricostruzione. Con il suo drappello di ingerenze e manovre. Le società politiche sono apparse nel loro giorno più scarno. I partiti, in maggioranza unici, legati al potere, si sono isolati tollerando l’essenza della protesta nella società civile. Le forze islamiche, approfittando delle deficienze dello Stato, da tempo avevano preso il controllo, cominciando attività benefiche. Molto presto sono apparse come le uniche forze organizzate capaci di svolgere un ruolo politico più importante e di canalizzare la ribellione. C’era un di più a loro favore: il loro indiscusso statuto di vittime della repressione dei regimi sconfitti e importanti appoggi finanziari dall’esterno, che venivano da regimi che sostengono l’Islam politico, prima di tutto l’Arabia saudita e il Qatar.

 

Uno degli effetti delle Primavere arabe è che hanno mostrato l’importanza dei Fratelli Musulmani, attorniati speso da salaafiti, con il conseguente rifiuto del quadro elettorale per arrivare al potere e la spinta al ricorso alla violenza. L’obiettivo di entrambi è abbastanza vicino per quel che riguarda il loro desiderio di applicare l’essenza dei principi della Sharia in tutta la società.

Rapidamente sono state organizzate consultazioni. Organizzazioni da una parte, legislative dall’altra.

Dovunque il risultato è stato lo stesso. Commozione “islamica”, scarsa penetrazione delle forze laiche, progressiste ed emancipatrici.

Ma, soprattutto, organizzazione strutturata da una parte e sbriciolamenti, divisioni o allegra anarchia dall’altra. Una lotta diseguale la cui fine ancora non è stata scritta, ma che alimenta serie preoccupazioni. La situazione emergente attuale viene da lontano e riflette e convalida molti decenni di evoluzione politica della regione.

 

Una zona fortemente perturbata

In effetti questa zona araba-musulmana ha conosciuto da decenni le peggiori derive. Questo vasto insieme di aree di liberazione e di costruzione nazionale, unito da un forte sentimento antimperialista, è stato devastato da numerose guerre. Il movimento nazionalista è stato distrutto. Le forze progressiste o marxiste che giocarono un ruolo importante durante i decenni del ’50 e ’60 sono state, dovunque, oggetto di una repressione feroce e indicate come il nemico principale dalle forze oscurantiste e religiose che si affermavano. L’Islam politico ed integralista ha ucciso più arabi che occidentali. Il nuovo panorama politico emergente ha sostituito la vecchia trama con nuove linee di forze organizzate in uno schema che favorisce gli scontri etnici e religiosi. Queste oscillazioni determinano gli scontri attuali e li rendono meno comprensibili agli occhi di altri continenti.

 

Dalla Palestina al Sahel, passando per i paesi del Maghreb, l’Egitto, la Siria e i paesi del Golfo, si afferma una nuova trama che traduce l’incameramento dei conflitti nazionali etnici e religiosi da parte dell’islamismo.

La regione viene attraversata da una tenace e sanguinosa opposizione tra sunniti e sciiti, che si appoggiano a determinati Stati. Una delle sue forme più estreme – il salaafismo – alleata a volte con Al Qaeda, compie azioni antioccidentali con la speranza di rafforzare il suo prestigio nel mondo musulmano e apparire come il più deciso e determinato, con l’obiettivo di attrarre quei segmenti di popolazione umiliata e vittima delle politiche neoliberiste imposte in tutta la regione.

 

Questa zona è diventata un vasto campo di intervento militare, di ricomposizione e di ingerenza politica. In qualsiasi luogo tuonino le armi, gli Stati si indeboliscono e restano alla mercé delle rivalità dei clan, in cui prosperano gli affari e i contratti all’ombra dei fragili conati di pace.

L’Iraq e la Libia sono stati devastati da uomini d’affari senza scrupoli in connivenza con i potentati locali.

La Somalia è diventata uno Stato in fallimento, abbandonato a bande rivali ce prosperano con gli assalti e la pirateria. Il Sahel è sulla strada per diventare una vasta zona di insicurezza in cui l’attenzione verrà posta solo su isolette di risorse fortemente difese, senza la più piccola considerazione per l’oceano di miseria che le attornia.

In questa regione l’imperialismo, il caos e l’islamismo si muovono alla pari, per grande disgrazia delle sue popolazioni.

 

Le Primavere arabe sono al centro di queste tormente. Si confrontano con le derive autoritarie dei nuovi poteri e con l’aggravarsi della violenza che le accompagna. Sia in Egitto che in Tunisia appaiono milizie repressive paramilitari. Seminano il terrore e cercano di imporre un nuovo ordine nello spazio pubblico decimando le libertà individuali. Come in Iran, sorgono comitati sui buoni costumi, sulla base di principi religiosi. Un passo avanti è stato fatto con l’assassinio di un leader politico della sinistra tunisina. Il messaggio è chiaro. I progressisti devono capire che è arrivato il tempo di instaurare un potere islamico, attraverso le urne o con la forza e che la “Primavera” deve essere dimenticata rapidamente.

Questo tipo di modello si sta stabilendo da alcuni anni in Marocco, Turchia, Iran, Sudan e nel Golfo. Ci sono forti pressioni tendenti ad orientare le “rivoluzioni arabe” in questo senso.

 

Si è parlato molto dei modelli di riferimento che hanno ispirato le “Primavere arabe”. Si sono ricordati, via via, lo spirito europeo del 1848, le transizioni democratiche dell’America Latina degli anni ’80, poi il giro a sinistra di questo stesso continente verso il 2000, poi le transizioni dell’Europa dell’Est. Ci si è posta la domanda di quale può essere il ruolo giocato dalla “questione palestinese” o di quali fossero le dimensioni antimperialiste del movimento. Ma, nella misura in cui gli avvenimenti si sviluppavano, le spiegazioni perdevano via via validità perché tutto finiva per essere in relazione alle specificità della regione, soprattutto con il dispotismo governativo e il peso dell’impronta religiosa.

Ci piace credere che i giochi non siano ancora stati fatti. E, soprattutto, che l’immensa speranza per una più grande libertà e dignità non rimarrà senza futuro.

  

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli” Via Magenta 88 Sesto San Giovanni)

 

 

 

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