Riportiamo un interessante articolo pubblicato sulla rivista “nuova unità” di giugno 2013
La morte del genocida Jorge Videla
Neanche morto……
di Daniela Trollio (*)
Siamo a Mercedes, una cittadina a 100 chilometri da Buenos Aires. E’ la sera del 23 maggio e una notizia ha fatto uscire centinaia e centinaia di persone da casa, che si sono riunite nella piazza principale.
La notizia di ieri è quella della morte del genocida ex generale Jorge Rafaèl Videla, ma quello che porta in piazza gli abitanti di Mercedes è il sapere che la famiglia di Videla vuole seppellirlo proprio lì, nel suo paese natale.
Nel cimitero di Mercedes riposano i pochi resti - recuperati anni dopo la loro morte - di Stella Bojorge, sequestrata il 2 luglio 1977; di Carmen e di Rosa Haydée Carnaghi, 3 dei 5 cittadini di Mercedes assassinati durante la dittatura, oltre ai 22 desaparecidos mercedini che non sono mai più apparsi, parte di quei 30.000 uomini e donne che un luogo di riposo non ce l’hanno.
Sui cartelli che i cittadini portano sta scritto: “Né vivo né morto” e “Che non riposi in pace”.
L’assassino se n’è andato senza infrangere il patto di silenzio stretto tra i militari golpisti, senza rivelare nulla sui desaparecidos.
Videla parlò di loro due volte, la prima nel 1979 rispondendo alla domanda di un giornalista del Clarìn, il quotidiano di Buenos Aires: “ Di fronte al desaparecido in quanto tale, ci troviamo in un’incognita. Se l’uomo apparisse avrebbe un trattamento X e se l’apparizione si trasformasse nella certezza della sua morte avrebbe un trattamento Z. Ma mentre è desaparecido non può avere nessun trattamento speciale, è un’incognita, è un desaparecido, non ha entità, non c’è … né morto né vivo, è sparito”.
La seconda nel 2012, in un libro-intervista (Disposiciòn Final) con il giornalista Ceferino Reato: “Abbiamo ucciso 7 o 8.000 persone e ne abbiamo fatto sparire i resti per non provocare proteste dentro e fuori dal paese. Ogni sparizione può essere intesa come il mascheramento, la dissimulazione, di una morte….. Non c’era altra soluzione; eravamo d’accordo (tra i vertici militari, n.d.a.) che era il prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione e avevamo bisogno che non fosse evidente, perché la società non se ne rendesse conto…”.
Ognuno di questi “salvatori” della patria (e non solo in Argentina…) afferma che gli orrori che ha commesso trovano la loro giustificazione nella necessità di restaurare l’ordine e la legge.
Quale ordine uscì dai colpi di stato in Cile, in Argentina, Guatemala, Brasile ….ecc,.ecc.? La “pace dei cimiteri”, il neoliberismo che oggi si è trasferito, dopo aver insanguinato e dissanguato l’America Latina, in Europa.
E’ difficile andare al di là di questo orrore e chiedersi se esista una ragione non “ideologica” in questa barbarie. Eppure qualche dato l’abbiamo.
Partiamo dal livello più basso: i gruppi operativi (le patotas, i gruppi operativi costituiti da membri scelti dei vari corpi dell’esercito e della polizia) sequestravano; venivano immediatamente seguiti dai gruppi addetti al saccheggio che facevano sparire tutti i beni trovati nelle case delle vittime, bambini compresi, che venivano poi spartiti con i superiori. Alla Esma (Scuola Superiore di Meccanica dell’Armata, il principale centro clandestino di tortura e detenzione) fu persino costituita un’agenzia immobiliare, che rivendeva ai militari le proprietà dei desaparecidos.
Saliamo un gradino. Celebre fu il caso di un gruppo di manager del Banco di Hurlingham, sequestrati e torturati in un centro clandestino furono costretti a vendere a prezzo stracciato la banca ad un grande gruppo argentino, nonostante avessero appoggiato la dittatura.
E così l’ideologia comincia a scolorare in volgare economia….
Il Ministro del Lavoro della dittatura, generale Horacio Tomàs Liendo descrive così il suo programma per distruggere la “sovversione” nelle fabbriche:
“… è necessario conoscere i sistemi e i metodi per poter combattere e distruggere la sovversione nelle fabbriche. Essa si sviluppa secondo uno di questi metodi:
1. l’indottrinamento individuale o di gruppo da parte di sovversivi che si pongono alla testa di false rivendicazioni lavorative;
2. la creazione artificiosa di conflitti che portano allo scontro con la dirigenza della fabbrica;
3. lo screditamento degli autentici rappresentanti dei lavoratori.
Il governo e le forze armate compiranno il massimo sforzo per garantire la libertà di lavoro, la sicurezza familiare e individuale degli impresari e dei lavoratori e l’annichilamento di questi nemici di tutti.”.
Un dato: il 30% dei desaparecidos, secondo la Commissione Nazionale sulla Sparizione delle Persone, sono operai e il 15% impiegati. Il primo giorno del golpe, nei cantieri navali Mestrina e Astarsa di Buenos Aires vengono sequestrati 10 sindacalisti e circa 60 operai. Viene sequestrato anche il segretario generale dei metalmeccanici della provincia di Cordoba. Alla Ford di Buenos Aires vengono arrestati 25 sindacalisti.
Una storia esemplare: lo stabilimento Mercedes Benz di Gonzàlez Catàn, provincia di Buenos Aires. Quello che segue è un articolo in merito pubblicato su archivio.rassegna.it il 10 luglio 2000:
La Mercedes-Benz coinvolta nellastrage dei desaparecidos
di Davide Orecchio
La casa automobilistica tedesca Mercedes-Benz è implicata negli eccidi che si verificarono in Argentina durante la dittatura militare. Nel gennaio 1977, pochi mesi dopo il colpo di Stato, 20 sindacalisti dello stabilimento Mercedes-Benz di González Catán (non lontano da Buenos Aires) furono rapiti, tenuti in prigionia e infine uccisi. Altre venti persone che si vanno ad aggiungere ai 30, 50 mila desaparecidos vittime della dittatura dal 1976 al 1983, anno della sua fine.
Un avvocato tedesco, Wolfgang Kaleck, ha sporto denuncia per «omicidio, sequestro di persona e lesioni colpose aggravate» contro un dirigente della Mercedes-Benz, Juan Tasselkraut, all'epoca direttore dello stabilimento. Kaleck ha ricostruito le indagini, e i risultati conseguenti, in un'intervista al settimanale tedesco Jungle World.
Stando a quanto scoperto dall'avvocato, i rapimenti e gli omicidi perpetrati nella fabbrica di González Catán furono l'esito di una collaborazione tra la polizia e il management della filiale Mercedes. Del resto, a parere dell'avvocato, il golpe militare non fu un atto isolato ma il frutto di un «progetto economico-politico» concordato con i «maggiori gruppi sociali ed economici». «Si tratta - ha dichiarato Kaleck - delle grandi imprese e in parte anche delle multinazionali, che erano chiaramente interessate a un congelamento del movimento operaio rafforzatosi tra il 1973 e il 1976, ossia in un periodo di intervallo tra due dittature militari. Non a caso la repressione colpì soprattutto la cosiddetta "area sovversiva", situata a nord della capitale, dove i principali gruppi automobilistici (Ford, Peugeot, Mercedes ecc.) avevano le proprie filiali». Le forze dell'ordine e i paramilitari non arrestavano i semplici operai, ma puntavano alle persone attive sindacalmente. In queste operazioni si avvalevano della collaborazione delle aziende, che fornivano nomi e indirizzi dei sindacalisti. La complicità della Ford è stata dimostrata chiaramente. Nell'area dello stabilimento di proprietà dell'impresa americana fu addirittura organizzata una prigione dove gli operai venivano rinchiusi e torturati.
La Mercedes, invece, si comportò in modo più "discreto", ma Kaleck è riuscito a scoprire almeno un episodio in cui il direttore della filiale Juan Tasselkraut fornì ai militari l'indirizzo di un sindacalista (arrestato la notte del 13 agosto 1977 e da allora mai più ricomparso).
Dopo il golpe, inoltre - afferma ancora Kaleck nell'intervista -, alla Mercedes fu istituito un nuovo servizio di vigilanza aziendale costituito perlopiù da ufficiali di polizia della provincia di Buenos Aires, molti dei quali coinvolti nella repressione. In particolare il capo del servizio, il commissario Rubén Luis Lavallén, si macchiò di diversi crimini (dei quali fu riconosciuto colpevole dall'autorità giudiziaria nel 1984). Lavallén adottò anche la figlia di una propria vittima: Paula Logares, di 23 mesi, che non avrebbe mai più rivisto i genitori, scomparsi nelle segrete della dittatura militare.
Dunque indizi e prove di complicità tra la Mercedes-Benz e la «junta» militare non mancano in quest'ennesima inchiesta europea sulle atrocità delle dittature latinoamericane. Tuttavia Kaleck non si è limitato a sporgere la denuncia contro Tasselkraut e i militari, ma l'ha anche estesa a ignoti della direzione centrale Mercedes-Benz (e oggi Daimler-Chrysler) di Stoccarda.
«E' chiaro - sostiene l'avvocato tedesco - che Tasselkraut (tuttora impiegato presso la Mercedes, ndr) non è l'unico responsabile della collaborazione dell'azienda con l'apparato repressivo, ma che ha agito con l'approvazione e la partecipazione di altri». Per il momento Kaleck ha trovato solo indizi di ulteriori coinvolgimenti, ma confida che nel prosieguo del procedimento le prove vengano fuori.
Niente di nuovo sotto il sole: nelle fabbriche di Sesto S.Giovanni (Breda, Falck, Pirelli, Ercole Marelli, Magneti Marelli, ecc. ), dopo gli scioperi del maggio 1944, erano le direzioni aziendali a fornire direttamente a fascisti e nazisti i nominativi degli operai ribelli da deportare in Germania, la maggior parte dei quali non fece più ritorno.
Se l’uomo della strada sa molto sugli orrori del nazismo, poco invece sa del coinvolgimento degli industriali tedeschi o dell’appoggio a Hitler dei grandi gruppi industriali e finanziari nordamericani come Rockfeller, IBM e Ford, ad esempio.
E, a casa nostra, chi si ricorda dei “patriottici” industriali amici dei fascisti che vendevano, a caro prezzo, le scarpe di cartone alle “centomila gavette di ghiaccio” che sarebbero morte congelate in Russia?
Anche Videla, nell’intervista a Reato, dice: “Gli imprenditori se ne lavarono le mani. Ci dissero ‘fate quello che dovete fare’ e ci diedero via libera. Quante volte mi hanno detto ‘Avete fatto poco, avreste dovuto ammazzarne mille, diecimila in più!’”.
Torturatori, sequestratori e assassini sì, ma entrare nella storia come volgari ladri servi dei capitalisti…. forse per questo nessuno dei militari argentini (e non solo) ha spezzato il patto del silenzio.
Il vero problema è che il genocida dei suoi compatrioti è morto, ma il sistema che l’ha generato gode ancora di buona salute. Se trent’anni di dittature hanno insegnato ai popoli dell’America Latina come liberarsi, noi questa lezione non l’abbiamo ancora imparata.
Eppure si presenta con la stessa faccia: privatizzazioni, liberalizzazione dell’economia con la flessibilità salariale e lavorativa, distruzione dei diritti, subordinazione totale agli interessi capitalisti, disoccupazione, miseria e la fame che fa capolino ad un orizzonte non più tanto lontano. Due generazioni di giovani a cui hanno rubato il futuro. Ma non chiamiamolo fascismo: questa è l’essenza del capitalismo.
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni
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