Da Tahrir a Sao Paulo, passando per Gezi Park
di Daniela Trollio (*)
Chi ha dato precipitosamente per morte le “primavere arabe” in questi giorni è costretto, suo malgrado, a riconsiderare la sua diagnosi. L’Egitto è nuovamente in fiamme, questa volta contro Morsi e i Fratelli Musulmani usciti vincitori dalle elezioni seguite alla caduta di Mubarak. “Morsi ha tradito la rivoluzione” secondo le centinaia di migliaia di persone che manifestano, a prezzo della loro vita (già ci sono decine di morti). Se l’esito delle elezioni aveva rallegrato l’impero – l’Egitto è una pietra angolare della strategia imperiale in Medio Oriente, il retroterra di Israele – che vedeva realizzarsi il suo piano di “transizione morbida” (il “Cambiare tutto per non cambiare niente” gattopardesco non è un’esclusiva del nostro paese), oggi qualcuno a Washington sta sudando freddo, nonostante l’intervento dell’esercito per recuperare legittimità e sviare un’altra volta la ribellionesu canali che non mettano in pericolo il sistema imperialista.
Anche un’altra chiave di volta del sistema imperiale sta scricchiolando, questa volta si tratta della Turchia. E questo quando la Turchia, paese regionale emergente che negli ultimi anni ha sperimentato tassi di crescita che sfioravano il 10% annuo, si sta facendo sempre più importante per la prossima avventura imperialista della NATO, l’aggressione diretta alla Siria.
E, dall’altra parte del globo, nel cuore di un paese tanto “emergente” da costituire ormai una sfida persino per la vecchia Europa, sprofondata in una crisi di cui non si vede la fine (la B di Brics sta per Brasile), milioni di persone nelle strade da settimane gridano che un professore, la cultura, l’istruzione, la sanità, valgono di più di uno stadio di calcio.
In altra parte di questa pagina, il politologo argentino Atilio Boron spiega diffusamente quello che sta succedendo in Brasile; noi vorremmo provare a interpretare alcuni fili che legano tutte queste ribellioni che – nelle loro differenze, nella loro genesi - hanno comunque uno scenario in comune: il capitalismo globale in crisi.
Protagonisti
Aver fatto una “rivoluzione”, chiamate come volete quella egiziana che ha abbattuto un presidente ed il suo regime, significa per chi vi ha
partecipato prima di tutto aver preso coscienza della propria forza, aver sperimentato che sognare un mondo migliore non è, appunto, solo un sogno ma che è possibile realizzarlo, che non si è
soli a sognarlo ma che, nella realtà della lotta, si diventa la maggioranza. “Pane, giustizia e libertà” erano le tre parole d’ordine del movimento di massa contro il regime di Mubarak:
se l’elezione “democratica” di un presidente non allevia la condizione di miseria della maggioranza, allora lo si può spazzare via. E’ questa l’essenza della tanto sbandierata democrazia, è
prendere in mano le redini del proprio destino senza delegare ma partecipando. E sembra che la classe operaia e le classi sottomesse del popolo egiziano lo abbiano capito molto bene.
L’esercito – da sempre sovvenzionato, armato e addestrato dagli USA – ha preso le redini di questa nuova sollevazione. Alcuni vi vedono un colpo di stato morbido, ma con milioni di persone nelle
strade e uno sciopero generale non dichiarato in atto, si tratterebbe comunque di un colpo di stato perlomeno anomalo.
Se consideriamo che una rivoluzione non si consuma mai in un atto, ma è un processo, a volte molto contradditorio, di accumulo di coscienza, di forze e di organizzazione, certo non abbiamo ancora
visto la fine della “primavera araba”: è’ difficile cancellare – una volta sperimentatala - la coscienza della propria forza.
“Non è solo un parco” dicono i manifestanti di piazza Taksim, “Non sono solo le tariffe del trasporto pubblico” dicono quelli di Sao Paulo, di Brasilia e di decine di altre città brasiliane.
No infatti, si tratta della speculazione più brutale che vede decine di migliaia di turchi espropriati e cacciati dalle proprie case per far posto
a centri commerciali e a costruzioni di lusso, si tratta del capitalismo che divora le città e il territorio distruggendo le minime condizioni decenti di vita della maggioranza, che decide di
opporre i propri corpi alle scavatrici e alla polizia. E questo ha unito turchi e kurdi, giovani nelle strade e gente che li
sostiene, dà loro riparo durante gli attacchi della polizia, porta acqua agli occupanti delle piazze.
A Sao Paulo e nelle decine di città brasiliane la scintilla dell’aumento del prezzo del trasporto pubblico ha incendiato la prateria e milioni di persone ora reclamano, nonostante gli indubbi miglioramenti nelle loro vite, la fine delle disuguaglianze e risposte concrete ai problemi che permangono. Risposte che ben difficilmente la socialdemocrazia al potere può dare, se non rompe con il progetto neo-liberista. E l’America Latina – il continente di cui il Brasile è parte integrante - ha grandi esempi da dare: da Cuba al Venezuela, alla Bolivia, all’Ecuador…
Non è tutto rose e fiori….
Nelle loro differenze, le rivolte in questi tre paesi hanno comunque grandi caratteristiche in comune. L’irrompere – spesso inaspettato - sulla scena politica di grandi masse di giovani di tutte le classi sociali, che tutti ritenevano spoliticizzati perché così viene interpretato il loro rifiuto dei partiti politici esistenti che hanno in comune, oltre al rappresentare gli interessi di una parte o dell’altra della classe dominante, l’essere basati sulla delega e il vedere come fumo negli occhi la partecipazione popolare. (Non ci pare che, da questo punto di vista, ci sia molta differenza con quanto succede anche in Europa, e questo dovrebbe suonare da monito).
E’ questo il senso del discorso di Erdogan – nonostante Gezi Park il centro commerciale si farà lo stesso - e dei Fratelli Musulmani appena arrivati al potere e nonostante la loro organizzazione capillare di aiuti alla popolazione che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’elezioni di Morsi. E’ il caso del Brasile dove, se c’è stata un’indubbia redistribuzione della ricchezza, il potere delle élites dominanti non è stato neppure scalfito. Partiti politici che hanno perso qualsiasi riferimento e vengono colti assolutamente di sorpresa.
Nell’era del neoliberismo, quando la democrazia borghese si evidenzia agli occhi della maggioranza delle classi sottomesse come democrazia al servizio del capitale imperialista ed è stata svuotata di ogni contenuto, diventa chiaro che, per chiunque si voti, il risultato è lo stesso, assistiamo allora alla comparsa di ciò che chiamiamo “movimenti”, che esprimono un ventaglio di richieste ampio ma a volte contradditorio. La loro forza è grande e possono cambiare politiche, rovesciare governi, portare a forme localizzate di potere popolare, ma possono anche essere sviate una volta conquistato l’obiettivo, parziale, su cui ci si era mobilitati. Mancano ancora di una base organizzativa coerente, di un progetto complessivo alternativo di società….. in una parola, di un’organizzazione. E’quanto abbiamo già visto con i movimenti degli “indignados” in Spagna o degli “Occupy” in altre parti del mondo. Diciamo “ancora” perché il radicalizzarsi delle lotte è, secondo noi, il modo migliore di capire questa necessità e di rispondervi. Ma il primo passo, appunto, è la lotta.
Lotta contro il capitalismo che, nella crisi, getta ogni maschera democratica e, soprattutto, si dimostra uguale nella sua rapacità in ogni angolo del mondo.
Quanto a noi, ogni volta che ci troviamo ad esprimere un giudizio su lotte, rivolte, rivoluzioni, non dimentichiamo che ogni contraddizione, ogni arretramento, ogni sconfitta del capitale, in qualsiasi paese avvenga, è un passo avanti nella grande battaglia per abbattere questo barbaro e sanguinario sistema. In ogni caso non dimentichiamo che non basta sostituire un raìs con un altro, sostituire i presidenti e i partititi al potere se non si distruggono gli attuali rapporti di produzione e le classi al potere. Che il sangue dei morti non sia sparso invano.
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni
Anteprima della rivista “nuova unità”
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