Interventi militari ……. umanitari?
di Roberto Montoya (*)
La decisione unilaterale della Francia di intervenire in Mali, mesi prima della missione prevista dell’ONU, ha fatto sì che il 2012 cominciasse formalizzando definitivamente l’apertura di un nuovo fronte bellico per l’Occidente. Un fronte che potrebbe ampliarsi a tutto il Sahel. Lo si è fatto, una volta di più, in nome della “guerra al terrorismo” e in difesa della popolazione civile.
Ma è proprio questa la motivazione reale di interventi come quelli in Afganistan, Iraq, Libia e, ora, in Mali?
La frontiera della legalità o dell’illegalità di un intervento militare “umanitario” è tanto sfumata quanto le frontiere nel deserto del Sahel. Dal concetto di “non ingerenza” del Trattato di Westfalia si passerebbe quindi a quello del “diritto di ingerenza” e, dopo la fine della Guerra Fredda, all’ “interventismo umanitario”. Il lodevole portato è, ufficialmente, quello di creare un’area di sicurezza necessaria in un determinato paese o regione perché gli organismi umanitari possano, in caso di catastrofi naturali o conflitti bellici, far giungere aiuti umanitari alla popolazione civile”.
Nel secolo XXI si sarebbe rafforzato il concetto con l’idea di “responsabilità di proteggere”, con frontiere anch’esse molto sfumate, con le “missioni di pacificazione”, di “interposizione”, di “protezione della popolazione civile” e un lungo eccetera…
Alcuni analisti ritengono che la profusione di risoluzioni approvate dall’ONU durante gli ultimi 15 anni si spieghino con tentativo di redimere la sua colpa per come ha agito in Somalia nel 1991, o la sua vergognosa passività di fronte alla “pulizia etnica” in Ruanda nel 1994 e in Bosnia-Erzegovina nel 1995.
Certamente l’abbondanza di risoluzioni non sembra essere stata di aiuto perché l’ONU e le grandi potenze cambiassero le caratteristiche degli interventi militari. I casi dell’Afganistan e dell’Iraq lo dimostrano. Due paesi devastati dalle guerre tra gli anni ’80 e i ’90, che tornarono ad essere scenari di nuove guerre a partire dall’11 settembre, e continuano ad esserlo ancora. Una sanguinante prova del fallimento della comunità internazionale.
Armi chimiche statunitensi per Saddam Hussein
Coincidendo con la fine della Guerra Fredda e con l’inizio del Nuovo ordine
Mondiale, sia l’ONU che la NATO non fecero obiezioni al fatto che gli USA facessero credere a Saddam
Hussein che non avrebbero reagito se egli avesse lanciato un’operazione per recuperare il Kuwait. Così fecero cadere in una trappola il vecchio alleato, ormai inservibile. La NATO e l’ONU
accettarono, sempre senza discussione, quell’allarmistico rapporto della CIA sulle armi chimiche in mano a Saddam.
Quel rapporto, tuttavia, non diceva – lo svelò poi il congressista democratico Robert Byrd – che buona parte dell’arsenale biologico utilizzato dall’Iraq, sia contro i ribelli kurdi che nella
guerra contro l’Iran (1980-1988) erano ceppi di antrace e botulino inviati dagli USA.
Anni dopo, nel settembre 2002, The New York Times pubblicò testimonianze di ufficiali statunitensi in cui emergevano dettagli su come il governo di Ronald Reagan aveva destinato 60 ufficiali dell’Agenzia di Intelligence della Difesa (AID) per fornire ai comandi militari di Saddam informazioni importanti sulle truppe iraniane, e per preparare congiuntamente le tattiche da utilizzare in battaglia.
In quegli anni ’80, l’amministrazione Reagan non solo aveva montato la grande operazione di addestramento e finanziamento della contra nicaraguense in territorio honduregno per rovesciare il governo sandinista, ma appoggiava anche in Afganistan i muhjaidin per combattere contro le truppe sovietiche che occupavano quel paese, e appoggiava ugualmente Saddam Hussein perché la facesse finita con il nuovissimo governo dell’ayatollah Komeini.
Washington conosceva benissimo l’armamento dell’Iraq, paese che nel 1985 divenne
il primo importatore di armi del mondo, spendendo 1.000 milioni di dollari al mese.
Parte di questo materiale consisteva in elementi per fabbricare armi chimiche, e veniva dagli USA.
Che fece l’ONU per frenare quell’operazione “coperta” che vari paesi facevano in appoggio all’Iraq e contro l’Iran, armandolo anche di armi chimiche? Nulla.
Chiaramente si trattava di una guerra per il controllo del petrolio iraniano. La rivoluzione islamica l’aveva finita con il governo del pro-occidentale e laico regime dello Shah Reza Pahlavi, il che alterava completamente le regole del gioco e metteva in pericolo i rifornimento di petrolio dell’Occidente.
Nonostante gli appoggi ricevuti, Saddam non poté schiacciare la nascente
rivoluzione islamica. Così smise di essere utile e divenne incontrollabile e pericoloso. Gli USA volevano
disfarsi di lui. Lo indussero ad invadere l’emirato del Kuwait e, con questo, Washington ottenne senza problemi l’appoggio dell’ONU per attaccarlo. Aveva violato il territorio sovrano di un altro
paese.
A fine agosto 1990, poche settimane dopo l’invasione del Kuwait, il Consiglio di
Sicurezza approvava la sua prima risoluzione di condanna contro Saddam, la n. 660, a cui sarebbero
seguite le 665 e 670, per finire con la 678, che diede semaforo verde all’uso della forza. Gli USA guidarono la più grande forza militare – parteciparono 34 paesi, compresa la Spagna – che si
fosse vista dalla 2° Guerra Mondiale.
Le “guerre contro il terrore” di Bush e dell’ONU
Il 12 settembre 2001, un giorno dopo l’11 settembre, Bush junior ottenne che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvasse la risoluzione 1368 in cui si riconosceva il diritto degli USA alla loro “legittima difesa individuale o collettiva”. La 1373 riaffermò in seguito, ancor più, il “diritto alla difesa” degli USA.
Washington invocò anche, nel Consiglio della NATO, l’articolo 5 del Trattato, mai utilizzato fino ad allora, per cui un paese che soffre un atto di guerra può reclamare l’azione solidaria degli altri membri.
Né l’ONU né la NATO fecero alcuna obiezione, né allora né in seguito, nonostante fosse chiaro che Bush usava un’interpretazione libera del “diritto di difesa” e che, senza mostrare né all’ONU né ai suoi alleati solide prove contro il regime di Kabul, decidesse di iniziare i demolitori bombardamenti con l’Afganistan nell’ottobre 2001.
Nonostante e numerose irregolarità commesse in relazione a quanto stabilito dalla Carta fondativa dell’ONU, questa nuova guerra venne riconosciuta come “legale”.
Gli USA trovarono, nell’argomento della “legittima difesa” l’alibi per cominciare la sua desiderata invasione dell’Afganistan. Negli anni ’80 si erano limitati ad armare ed addestrare nei paesi vicini le milizie yihaidiste che combattevano contro il regime appoggiato dall’URSS. Anni in cui Osama bin Laden era alleato degli USA, stava dalla parte dei “buoni”.
Dopo aver rovesciato il regime talebano, gli USA riuscirono ad imporre, fino ad oggi, Hamid Karzai, un ex dirigente della grande corporation dell’energia statunitense Unocal. E questa era proprio la multinazionale che fino al 1998 partecipava come socio maggioritario al consorzio che negoziava con il regime talebano la costruzione di un gasdotto che doveva attraversare Turkmenistan, Afganistan, il mar d’Arabia e l’oceano Indiano.
A differenza di quella guerra in Afganistan definita “legale”, la seconda guerra
contro l’Iraq,
iniziata nel 2003, inizialmente fu denunciata come “illegale”, come una guerra “unilaterale” e di “aggressione”. Ma la sua definizione sarebbe cambiata in poco tempo.
Gli USA, con il Regno Unito, la Spagna di Aznar ed un pugno di altri paesi, non
tenendo conto delle resistenze a fare una nuova guerra contro l’Iraq di paesi come la Germania, la
Francia, la Russia e altri che chiedevano prove effettive dell’esistenza delle “armi di distruzione di massa”. Ma gli USA sapevano i circo 2.000 ispettori specializzati in armi di distruzione di
massa che agivano sul terreno non le avrebbero mai trovate. I loro esperti sapevano che quelle armi non esistevano più, sapevano che o erano state distrutte nella guerra 1990-1991 o durante i 12
anni seguenti nei quali l’Iraq era stato sottomesso ad un ferreo embargo da parte dei vincitori.
Ma, ancora, l’odore del petrolio attraeva con forza irresistibile il petroliere Bush e i suoi alleati. Davanti all’impossibilità di recuperare il controllo dell’Iran, l’Iraq diventava ancor più importante. Il petrolio, il gas, più l’appetitoso bottino che presupponevano e presuppongono le costosissime opere di ricostruzione del paese.
Qual è stato il ruolo dell’ONU e della comunità internazionale? Di nuovo piegarsi. Germania e Francia, che per mesi avevano rifiutato un’azione militare affrettata contro l’Iraq, cambiarono radicalmente posizione non appena fu rovesciato il regime di Saddam. Avevano il terrore di perdere la loro parte del bottino che l’Iraq post Saddam offriva.
E altrettanto fece Kofi Annan, il segretario generale dell’ONU, che legittimò subito l’occupazione dell’Iraq e, facendo una libera interpretazione della Carta Magna delle Nazioni Unite, nominò USA e Regno Unito “forze occupanti”, il che conferì loro il potere di gestire l’attività economica, politica e militare del paese.
La primavera araba e la guerra di Libia
La primavera araba nei paesi del nord dell’Africa irruppe con forza sullo
scenario mondiale a partire dal dicembre 2011, abbatté i dittatori di Tunisia, Egitto e Libia, cerca ancora di farlo in Siria, e ha obbligato a cambiare modo di muoversi a despoti come quelli del
Marocco e dell’Algeria. L’Europa, più ancora degli USA, reagì in ritardo di fronte a un tale terremoto, rimase allibita. Le sue relazioni economiche, finanziarie e militari con tutti quei regimi
antidemocratici si erano bruscamente alterati in pochi giorni. Ma, alla fine, l’Unione Europea
(UE), come gli USA, si adattò ai nuovi venti, si allontanò dai despoti che erano da anni al potere, e cercò – e cerca – di far sì che i nuovi governi siano docili nell’ora delle negoziazioni, e
che abbraccino entusiasti il libero mercato e le ricette neoliberiste.
Il caso libico fu il primo della primavera araba che diede luogo ad un
intervento militare
straniero. Il risultato, un vero boomerang, che ha fatto sì che oggi ci siano tante divisioni nella UE al momento di decidere se ripetere l’esperienza in Siria.
Gheddafi era stato accusato da Washington di esser dietro agli attentati
terroristi nel 1985
contro gli aeroporti di Roma e Vienna, e di un attacco ad una discoteca di Berlino frequentata da soldati statunitensi. Per questo nel 1986 Ronald Reagan fece bombardare la sua jaima,
bombardamento in cui morì sua figlia Jana. Nel 1988 accusarono la Libia di essere dietro l’attentato contro un aereo della PanAm in pieno volo sulla Scozia, che provocò 270 morti. E Gheddafi finì
per accettare la sua responsabilità, consegnando gli agenti accusati dal Regno Unito e indennizzando le vittime.
Correva l’anno 2003, Gheddafi aveva cominciato la sua grande svolta. Quell’anno
annunciava l’eliminazione del suo programma di armi di distruzione di massa e, dopo quello, gli USA ristabilivano le relazioni diplomatiche. Nel 2009 lo faceva la UE, che iniziò a ricevere ogni
giorno più di un milione di barili di petrolio.
Berlusconi stabilì con lui una stretta relazione economica e politica. Sarkozy è indagato ora con l’accusa di aver finanziato parte della sua campagna elettorale che lo ha portato alla presidenza
della Francia con denaro di Gheddafi. Obama stringeva la mano di Gheddafi in un incontro in Italia tra il G-8 e i paesi africani. Per l’Occidente Gheddafi era diventato buono. Ma
l’idillio sarebbe terminato con l’irrompere sulla scena di un protagonista non invitato: il popolo libico. E Gheddafi, il più vecchio dittatore di tutta la regione, mostrò la sua carta più
sanguinosa, ordinando di uccidere, in una disperata lotta per afferrarsi al potere.
L’Occidente si vide obbligato ad agire.
Paradossalmente fu Sarkozy a prendere l’iniziativa e, approfittando dell’ambiguità della risoluzione 1973 dell’ONU – che parlava di “responsabilità di proteggere la popolazione civile” – inviò una flottiglia di caccia a bombardare posizioni libiche. L’operazione Odissey Down passò subito sotto controllo dell’Africom, il potente comando regionale USA per l’Africa. La risoluzione non autorizzava esplicitamente l’uso della forza ma questa imprecisione fu utilizzata dalla NATO per prendere apertamente posizione a favore di una delle due parti, come una forza in più dei ribelli.
Armi e combattenti dalla Libia al Mali
Mentre la Libia affondava in una situazione caotica dopo la morte di Gheddafi,
con scontri sanguinosi in seno alla file ribelli, migliaia di combattenti tuareg reclutati da Gheddafi e yihaidisti salafiti che avevano combattuto contro di lui si impadronivano delle armi
fornite dalle potenze attaccanti e di quelle degli arsenali libici stessi, e cominciavano a dirigersi verso il Mali. Già l’Unione Africana aveva avvertito del pericolo nel suo vertice in
Mauritania del marzo 2011. Lo yihaidismo non riconosce frontiere da che gli USA lo aiutarono negli anni ’80 a lanciare contro l’Esercito Rosso in Afganistan la prima yihad del secolo XX e a
creare Al Qaeda. Di nuovo fu la Francia – in questo caso per mano di Francois Hollande
– chi lanciò l’intervento militare a richiesta dell’antidemocratico potere militare del Mali, sorto dal colpo di stato che in marzo 2012 rovesciò il presidente Touré. I ribelli stavano per
impadronirsi della capitale, Bamako, e la Francia decise di agire. Nonostante l’aver agito prima unilateralmente rispetto all’intervento approvato dall’ONU con truppe africane nell’ottobre 2013,
sia l’ONU che la UE, come la NATO, legittimarono rapidamente l’intervento e vi si aggiunsero.
Hollande dichiarava che la Francia non aveva alcun interesse proprio nel conflitto e i mezzi di comunicazione lo ripetevano. Nascondeva così il fatto che mai la Francia ha abbandonato il controllo economico, politico e militare delle sue ex colonie divenute indipendenti agli inizi degli anni ’60. Sarkozy era già intervenuto in Costa d’Avorio nel 2011.
La storia si ripete, La Francia non si rassegna a perdere, né per la Cina né per
gli salaafiti, il
controllo di risorse naturali tanto preziose. Il Mali è il terzo produttore di oro del mondo; ha l’uranio e la società petrolifera francese Total esplora il suo sottosuolo in cerca di petrolio.
Confina con sette paesi, tra cui il Nige, dove la Francia sfrutta, attraverso la multinazionale Areva, due delle sue miniere di uranio, dalle quali estrae il 40% del minerale di cui ha bisogno
per mantenere in funzione i suoi 59 reattori nucleari. La Spagna partecipa in Areva con il 10% del suo capitale attraverso la società Enusa. Non è un caso che sia stata tra i primi paesi ad
inviare militari per appoggiare l’intervento in Mali. Il distaccamento Avorio – che fa parte della missione di addestramento della UE (EUTM Mali) – protegge la base di Koulikoro, vicino a Bamako,
e forma l’esercito maliense, ripetutamente denunciato per le sue gravi violazioni dei diritti umani. Questo esercito che reprime ogni giorno – proprio come fanno i militari in Niger – coloro che
manifestano contro lo spoglio delle loro ricchezze naturali e contro la contaminazione dell’ambiente.
Gli USA hanno ottenuto l’autorizzazione del Niger ad installare una base dei suoi mortiferi aerei senza equipaggio, i droni, rafforzando il forte schieramento che la Francia ha in tutto il Sahel. Non sfugge a nessuno che l’intervento in Mali può estendersi a tutta l’Africa subsahariana.
Un’altra volta, e come lo faceva Bush con la sua guerra al terrore, le potenze interventiste giustificano il loro agire con gli avanzamenti del terrorismo yihaidista. Un pericolo reale senza dubbio, ma una tesi falsa, ipocrita. Ciò che nascondono è quanta responsabilità hanno nel suo apogeo, con la loro avarizia neocolonialista di controllo delle risorse di quei paesi; con la loro complicità interessata con molti dittatori; con la loro visione a corto raggio che le porta ad alleanze con settori estremisti che poi si trasformano in boomerang; con le loro sopraffazioni costanti contro la popolazione civile che dicono di difendere e che, in definitiva, è quella che continua a metterci i morti.
(*) Giornalista e scrittore specializzato in politica internazionale;
da: revistapueblos.org; 27.7.2013
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)
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