ETTORE ZILLI: MEMORIE DELLA DEPORTAZIONE NEL LAGER DI DACHAU
TESTIMONIANZA DI UN PARTIGIANO DEPORTATO A DACHAU.
Sabato 22 febbraio 2014, presso il Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di via Magenta 88 a Sesto S.Giovanni, provincia di Milano, con la collaborazione di Michele Michelino video intervista a Ettore Zilli, nato il 17 dicembre 1924 a Zoppola (Pordenone), partigiano della Brigata Osoppo, deportato in vari lager nazisti tra cui quello di Dachau, liberato il 29 aprile 1945 dall’esercito USA e per vari anni Presidente della sezione ANED (Associazione Nazionale Ex-Deportati) di Sesto S.Giovanni.
“Mi chiamo Ettore Zilli. Sono nato il 17 dicembre del 1924 a Zoppola, località Ovoledo Castions, da una famiglia contadina e molto numerosa. Io sono il primo di dieci fratelli. Mio papà era un invalido della Grande Guerra ed anche lui era uno di dieci fratelli sparsi un po’ ovunque. I miei zii erano tutti antifascisti e per questo gli fu somministrato l’olio di ricino nel 1922, furono processati e condannati: uno fuggì in Messico proprio due giorni dopo la mia nascita.
Sono dunque cresciuto in mezzo all’antifascismo. A scuola ho dovuto fare il balilla e l’avanguardista e fu proprio lì che presi il mio primo schiaffo dai fascisti, perché non volli andare all’adunata il giorno della dichiarazione di guerra. Scoppiata la guerra io ero ancora giovane e con i miei compagni cercavamo occasioni di divertimento andando a ballare nelle balere, dove venivano anche i militari ed eravamo proprio noi a preparargli da mangiare. Dal marzo del 1943 andai a Fiume come civile militarizzato per costruire i rifugi per i militari. Con l’8 settembre ci fu l’armistizio e subito la sera stessa i partigiani vennero per avvisarci di tornare a casa. Sapevamo che l’armistizio avrebbe fatto arrivare i tedeschi come invasori e due giorni dopo il rientro a casa andai con i partigiani a recuperare del materiale dalla caserma dei carabinieri. Io prelevai dei fucili che nascosi nel fienile. Come ci aspettavamo estesero la legge tedesca fino a Venezia. Sulla porta di casa dovevamo appendere lo stato di famiglia con la sottolineatura in rosso per i componenti in età militare. Io ero segnato in rosso. Sapendo che ero di una famiglia antifascista, i partigiani vennero a cercarmi e mi chiesero di unirmi a loro: così fu. Dormivo a casa ma facevo la staffetta. Portavo viveri e altri oggetti utili; andavo anche a ritirare il materiale dei lanci che venivano effettuati dagli alleati per rifornire i partigiani. Dopo vari trasporti fui arrestato: era il 28 ottobre del 1944 e con me c’erano 34, o 35 persone. Ci portarono davanti al muro della fucilazione ma non spararono, forse eravamo in troppi. Ci trasferirono nelle carceri di Pordenone dove rimanemmo 8 giorni, stipati in 12 per ogni cella. Ci trasferirono poi a Udine, facendoci sfilare per la città come se fossimo dei delinquenti legati l’uno all’altro con catene, ma la città diede una risposta forte a questo primo tentativo di annientare le nostre personalità, chiudendo tutte le persiane in segno di disapprovazione al momento del nostro passaggio. Fu un vero e proprio atto di sfida nei confronti dei tedeschi, che ci diede coraggio. Anche a Udine mi toccò scendere ben due volte al muro della fucilazione, ogni volta che uccidevano un tedesco. Scampato alla morte entrambe le volte fui portato in stazione con un camion insieme ad altri compagni e stipato in un vagone che conteneva 40 persone circa. Con noi c’erano anche 7 ragazze dell’alto Friuli. La destinazione di quel convoglio era Dachau. Durante il tragitto, all’altezza di Salisburgo, ci fu un bombardamento che ci tenne fermi ancora da civili a lavorare per sistemare la ferrovia. Dopo due mesi ci portarono nel campo di smistamento a Zwass, presso Innsbruck, dove restammo un altro mese a lavorare nelle miniere di argento e poi si aprirono anche per me le porte del campo di sterminio: prima Rakenau e poi Dachau. La storia di Dachau è nota, dunque non mi ci soffermo. Vi dico solo che tornato in Italia mi ci vollero ben due anni per ricuperare. Ero disoccupato e lavorai in nero al mulino di Zoppola. Dal 1950 mi sono trasferito a Sesto S.Giovanni, dove ho lavorato alla Pirelli per 35 anni".
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