Difesa della Costituzione?
Alcune riflessioni critiche alla luce della lotta contro lo sfruttamento e per un sistema socialista
di Michele Michelino (*)
Come sempre succede nella storia i vincitori - che detengono il potere economico, politico e militare - impongono le loro leggi alle classi sottomesse. Vincitori e vinti, oppressori e oppressi, padroni e schiavi sono chiamati a rispettare le regole decise dallo stato che rappresenta gli interessi della classe dominante. La “Costituzione della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza” è spesso definita dai suoi estimatori, ma anche dai suoi detrattori, come la più bella Costituzione del mondo, piena di nobili principi da difendere ad oltranza, o da cambiare per aggiornarli.
La borghesia imperialista sta lavorando da qualche tempo per adeguare la Costituzione ai mutati rapporti fra le classi e le frazioni dell’imperialismo, anche se fra questi borghesi c’è chi si erge a paladino della “Costituzione nata dalla Resistenza”.
I tentativi di cambiare parti della Costituzione, a destra come a sinistra, hanno lo scopo di tutelare e difendere meglio gli interessi delle varie frazioni della borghesia anche nelle formulazioni di principio. Nella crisi la guerra commerciale e militare e la concorrenza fra le varie frazioni del capitale si acuiscono sempre più e ogni frazione della classe dominante usa i suoi partiti di riferimento e i suoi uomini nei vari partiti per fare leggi a favore della propria cordata e adeguare i principi.
Ma cos’è la Costituzione?
Nella battaglia politica non bisogna mai dimenticare che la “Costituzione nata dalla Resistenza” stabilisce una serie di principi, di diritti e doveri dei cittadini di uno Stato democratico borghese capitalista. Invece spesso anche i compagni confondono i principi democratici dello Stato di diritto borghese come se fossero principi socialisti: da qui la difesa ad oltranza della Costituzione, come se questo servisse ad impedire svolte autoritarie.
Non bisogna mai dimenticare che l’Italia è un paese capitalista e che l’art. 1 della Costituzione, citato come uno dei più avanzati del mondo, che recita: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, significa semplicemente che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro salariato, cioè sfruttato e che la sovranità appartiene alla classe borghese al potere.
Per attuare svolte autoritarie non sempre è necessario cambiare i principi, si può anche mantenerli formalmente per non urtare le masse popolari e continuare a non rispettarli.
Gli esempi non mancano. In Germania, una volta preso il potere in modo legale, tramite elezioni, Hitler e i nazisti non ebbero necessità di cambiare subito la democratica Costituzione della Repubblica di Weimar (1919–1933) per applicare la dittatura nazista. Dopo l’incendio del Reichstag (il parlamento tedesco), Hitler convinse il Presidente von Hindenburg a firmare un decreto (Reichstagsbrandverordnung, «Decreto dell'incendio del Reichstag») che, di fatto, sospendeva la maggior parte dei diritti sanciti dalla costituzione della Repubblica di Weimar.
Subito dopo scatenò la repressione preventiva dei comunisti e degli oppositori al Partito nazionalsocialista. Fu solo dopo la nuova tornata elettorale del marzo 1933 quando il Partito nazionalsocialista raggiunse la maggioranza assoluta al Reichstag (i partiti della Destra e lo NSDAP ottenne il 43,9% dei voti. Insieme con gli alleati nazionalisti del DNVP i nazisti ottennero una maggioranza parlamentare semplice con il 51.8% dei voti) che modificarono la Costituzione. Una volta arrivati “democraticamente” con il voto al potere, dopo aver spazzato via anche fisicamente ogni opposizione, bastò imporre con la forza delle armi il regime nazista.
In Italia, con la nascita della Repubblica, venne inserito nella Carta costituzionale il principio dell'obbligatorietà del servizio militare, contenuto nell'art. 52 che recita: ”La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici. L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”. Cioè ancora una volta l’aspetto principale è che le forze armate sono al servizio degli interessi della borghesia imperialista e vanno adeguate rispetto alla difesa dei suoi interessi. Non è un caso che uno dei primi cambiamenti necessari a sostenere la politica aggressiva e guerrafondaia dell’imperialismo italiano nel mondo è stata proprio la riforma dell’esercito che ha trasformato l’esercito di leva (l’esercito dei cittadini, secondo la Carta Costituzionale) in esercito professionale e il servizio militare di leva in Italia è di fatto stato abolito. Istituito con la nascita del Regno d'Italia e confermato alla nascita della Repubblica italiana, in vigore dal 1861 al 2005, per 144 anni, dal 1° gennaio 2005 l'obbligo, sebbene mai formalmente abolito, è, di fatto, terminato, come stabilito dalla legge Martino (legge 23 agosto 2004 n. 226).
Così lo Stato italiano si è attrezzato per aggirare e vanificare l’art. 11 della Costituzione che recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Senza modificare una virgola dell’art. 11, si è creata una forza d’intervento militare pronta a difendere non certo la “patria” ma, in ogni momento, gli interessi dell’imperialismo italiano nel mondo. È bastato sostituire la parola “guerra” con “missioni di pace”: lo strumento – l’esercito professionale – era già pronto a partecipare alle guerre imperialiste. Tutti i governi italiani (di destra e di sinistra), insieme ai predoni della NATO, hanno partecipato ai massacri d’intere popolazioni e continuano le guerre per la spartizione del bottino in tutto il mondo (Somalia, Iraq, Afganistan, Jugoslavia, Libia ecc.), con buona pace di tutti i borghesi, “progressisti”.
Lo Stato capitalista ha fatto del governo il comitato d’affari del capitale finanziario, bancario e industriale. La logica del profitto è l’unico diritto riconosciuto dallo Stato (tutti gli altri diritti costituzionali sono subordinati a questo): tale logica è stata applicata attraverso la privatizzazione e i tagli dei servizi sociali.
Lo stesso art. 32 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.), con la privatizzazione della sanità pubblica è ormai carta straccia, un affare per le assicurazioni, gli ospedali privati e le multinazionali farmaceutiche a scapito del diritto alla salute dei cittadini, tuttora formalmente garantito dalla Costituzione.
Lo stesso diritto allo studio, uno dei diritti fondamentali ed inalienabili della persona sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell'ONU, dopo la scolarizzazione e l’università di massa oggi vale sempre più solo per chi ha soldi e mezzi economici per pagarsi gli studi.
La Costituzione, frutto di un compromesso basato sui rapporti di forza fra le classi, fra il proletariato e la borghesia, oggi è messa in discussione e cambiata dalla stessa classe borghese, che in maggioranza ha sostenuto prima la monarchia, poi il fascismo e ora la “Repubblica democratica nata dalla Resistenza” e l’imperialismo italiano, continuando come prima a fare i suoi affari.
Nella crisi l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro è continuo. Tutte le conquiste del movimento operaio, sono cancellate facendo girare indietro la ruota della storia di 60 anni. La difesa dell’art. 1 della Costituzione che recita: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” è diventato ancor più di ieri la difesa dell’industria italiana e degli sfruttatori del lavoro salariato.
La competitività del “made in Italy” si fonda sempre più sulle delocalizzazioni e lo sfruttamento più sfrenato, con licenziamenti, cassa integrazione e disoccupazione in costante aumento. L’Italia è uno dei paesi più corrotti a cominciare dalla sua classe dirigente ma non solo. Anche quando ci sono principi avanzati come l’art. 3 che afferma “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ècompito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”, la situazione non cambia.
Questo vale solo per i borghesi. Basta guardare come lo Stato tratta gli immigrati e, gli stessi italiani delle classi sottomesse ancora oggi, nei fatti, non hanno gli stessi diritti, perché lo Stato non garantisce le stesse possibilità di studio, cura, giustizia e carriera a tutti. In realtà lo Stato in una società divisa in classi è caratterizzato da una condizione astratta, di uguaglianza giuridica, e da una situazione concreta, di fatto, di disuguaglianza sociale ed economica.
Anche se la Costituzione afferma che l’operaio e il padrone sono uguali e hanno stessi diritti, la condizione di completa subordinazione economica sancita dall’ordinamento giuridico borghese fa sì che la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini sia solo formale, essendo l’ordinamento giuridico capitalista fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. In realtà il proletario “libero” nel sistema economico borghese è semplicemente “libero di essere schiavo”.
L’art. 42 della Costituzione afferma che: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.”. Ancora una volta si afferma che la proprietà privata è riconosciuta dalla legge e i beni economici appartengono allo Stato, cioè allo Stato borghese organo del dominio di classe, prodotto dell'antagonismo inconciliabile tra le classi"forza repressiva particolare" del proletariato da parte della borghesia, di milioni di lavoratori da parte di un pugno di ricchi sfruttatori.
Difesa della Costituzione e dei diritti borghesi o lotta per un sistema socialista?
Quando si parla di difesa dei diritti costituzionali bisogna capire quindi quali diritti e interessi si difendono. Vogliamo ricordare citando Lenin che “fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni.”.
La lotta degli operai coscienti, dei rivoluzionari, dei comunisti, per quanto a volte deve necessariamente difendere i singoli diritti civili borghesi per non arretrare, non può mai dimenticare che le costituzioni e le leggi borghesi servono a difendere il sistema imperialista. Noi lottiamo per un’altra società nella quale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia abolito e considerato un crimine contro l’umanità.
Lotta contro lo sfruttamento e le illusioni elettorali
Tutti i partiti e i sindacati confederali difensori del sistema capitalista, davanti ai licenziamenti, agli attacchi ai salari e ai diritti individuali e collettivi dei lavoratori, non vanno oltre frasi di circostanza, onoranze funebri che si limitano a lodare il malato che sta morendo.
I sindacati, se non riescono ad impedire le lotte, si limitano ad organizzare risposte parziali che isolano e dividono il movimento operaio perché il diritto al profitto sancito dalla Costituzione viene prima di tutto. Il sindacato opera perché ognuno si arrocchi nella propria fabbrica, nel proprio territorio, e alimenta l’illusione che nella lotta contro la classe dei padroni sia possibile cavarsela da soli. Quando si è alla fame, con l’acqua alla gola, si cerca di difendere il salario e il lavoro che permette di sopravvivere e si accettano sacrifici sperando che le cose si aggiustino da sole, si presidiano le fabbriche, si sciopera in una logica di difesa senza una strategia, ma i sacrifici di oggi preparano solo quelli ancora peggiori di domani.
Limitarsi a difendere l’esistente, resistere e parare i colpi senza una strategia che mette in discussione il profitto, significa arretrare. Non basta lottare contro gli effetti dello sfruttamento, bisogna lottare contro le cause, il sistema capitalista.
Il solo modo che la classe proletaria ha per superare la sua condizione di sfruttamento e precarietà è passare dalla lotta contro gli effetti del capitalismo alla lotta (politica) contro la causa delle sue miserie, ossia il capitalismo stesso.
L’esperienza ci insegna che la miglior difesa rimane sempre l’attacco, la lotta paga se la resistenza fa parte di una strategia che combina la lotta di difesa generale con la lotta politica anticapitalista nella prospettiva del potere operaio e del socialismo.
Le illusioni elettorali di chi pensa di cambiare il mondo con le elezioni (vale anche per le europee) portano solo a grandi delusioni. La proprietà dei mezzi di produzione in mano ai capitalisti, la divisione del lavoro e le condizioni materiali degli esseri umani sono alla base delle divisioni in classe e se non vengono eliminate continueranno a riprodurre sfruttati e sfruttatori.
È l’essere sociale che determina la coscienza e se il sistema capitalista non viene distrutto e sostituito da un sistema socialista, con il proletariato come classe dominante, in cui si produce per soddisfare i bisogni degli esseri umani e non per il profitto: un sistema in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è punito come crimine contro l’umanità, continueremo a patire guerre, fame, miseria e carestie.
Non basta mandare a casa tutta la classe politica. Pensare di cambiare il sistema semplicemente mandando propri rappresentanti nelle istituzioni e nel parlamento borghese o nella stanza dei bottoni, andando al governo, sperando così di cambiare la classe politica senza distruggere ed espropriare - tramite una rivoluzione proletaria socialista - il potere economico dei grandi capitalisti, della finanza e delle banche, è pura illusione.
Il sistema capitalista è in grado di trasformare (comprare) i cittadini “rappresentanti del popolo” nelle istituzioni borghesi. Anche un partito operaio, rivoluzionario, comunista, che mandi propri rappresentanti in parlamento può diventare la mosca cocchiera del grande capitale. Nella misura in cui i “rappresentanti dei lavoratori” non vivono più la condizione materiale di proletari, ma gli agi e i privilegi dei parlamentari borghesi con lauti stipendi, cambiano condizione materiale, economica-sociale, di classe e anche modo di pensare.
Gli esempi storici non mancano. La Comune di Parigi, prima rivoluzione proletaria della storia, per combattere il carrierismo ed evitare che si formassero dei burocrati isolati dalle masse, stabilì, per gli impiegati e i funzionari civili, il principio della riduzione degli stipendi assegnati a tutti i funzionari dello Stato al livello di "salari' da operai". La retribuzione di tutti gli incaricati di un servizio pubblico non poteva essere superiore al salario di un operaio qualificato.
“Anche durante i primi mesi del potere sovietico lo stipendio di un commissario del Popolo (Lenin compreso) era solo il 'doppio' del salario minimo percepito da un cittadino comune" [Roy A. Medvedev, La democrazia socialista, 1977).
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”.
da “nuova unità”, (RIVISTA COMUNISTA DI POLITICA E CULTURA), marzo 2014
Mail: cip.mi@tiscali.it
Web:http://ciptagarelli.jimdo.com
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