La crisi capitalista e gli obiettivi dei rivoluzionari
Michele Michelino (*)
Ormai chiunque passi davanti a fabbriche o luoghi di lavoro ha modo di vedere sempre più spesso presidi di lavoratori accampati con bandiere e striscioni in difesa del posto di lavoro. Ma la crisi non dipende dalla fatalità, dalla cattiva gestione dei manager delle aziende e dalle ruberie dei padroni, che pur incidono. Le crisi nel capitalismo non sono come le carestie di un tempo, e non dipendono dalla mancanza di capitali e merci.
Il modo di produzione capitalistico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, ciclicamente vive una grande contraddizione: la crisi di sovrapproduzione. Nel passato, cioè nei precedenti modi di produzione, i lavoratori delle classi subalterne che costituivano il "popolo", pativano la fame per effetto delle carestie e della mancanza di generi alimentari, nel sistema capitalista le masse proletarie e popolari possono patire la fame per la troppa abbondanza. Per ottenere una maggiore quantità di profitti, i capitalisti sfruttano più intensamente gli operai, cercano di conquistare nuove fette di mercato, allargano se possibile la produzione, migliorano i processi tecnici, ma questa tendenza ad un'illimitata espansione dell'industria viene inevitabilmente in conflitto con il limitato potere di acquisto delle grandi masse dei lavoratori, esplode: così la contraddizione tra il caratttere sociale della produzione e il carattere privato della appropriazione.
"il capitale, creato dal lavoro dell'operaio opprime i lavoratori, rovina i piccoli proprietari e crea un esercito di disoccupati... Col battere la piccola produzione il capitale porta all'aumento della produttività del lavoro e allo stabilimento di una posizione monopolistica per le associazioni dei maggiori capitalisti. La produzione stessa diventa sempre più sociale; centinaia di migliaia e milioni di lavoratori sono legati ad un organismo economico sottoposto ad un piano sistematico, ma un pugno di capitalisti si appropria del prodotto del lavoro collettivo. L'anarchia della produzione, le crisi, la corsa sfrenata alla conquista dei mercati e l'incertezza dell'esistenza per la massa della popolazione aumentano" (Lenin)
Le cause della crisi non dipendono quindi dell’austerity o dall’euro, come sostengono Salvini della Lega Nord, oppure Grillo del Movimento 5 stelle e/o tutti gli apologeti del sistema capitalista nelle loro varianti; questi semmai ne sono gli effetti nefasti e disastrosi sugli operai e le masse popolari. La crisi è iniziata nel paese capitalista considerato più forte, gli Stati Uniti, dove la moneta corrente è il dollaro, poi ha colpito la Gran Bretagna della sterlina, e quindi l’Europa dell’euro.
A prescindere della moneta corrente, il Prodotto Interno Lordo (Pil) che misura la ricchezza prodotta, è in calo in quasi tutti i paesi. Quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea sono stati o sono in recessione a prescindere dal fatto di avere o non avere l’euro. Mentre scriviamo l'attività economica in Germania è calata dello 0,2%, dopo lo +0,7% dell'inverno, quello della Francia è rimasto fermo (è in piccolissima flessione, che gli arrotondamenti annullano), quello dell'Italia è calato dello 0,2%. Anche i Paesi europei fuori dall’Unione sono stati colpiti: la stessa Svizzera nel 2009 ha avuto una diminuzione della ricchezza prodotta (PIL -1,9%) e, dopo essersi ripresa, oggi è a rischio di una seconda recessione.
È il sistema di sfruttamento capitalista a non funzionare, non la moneta.
La concorrenza sfrenata costringe ogni potenza imperialista a rafforzarsi febbrilmente; ogni paese tenta di sorpassare i suoi rivali. Lo sviluppo diseguale e spasmodico dei singoli paesi diviene più pronunciato, acutizzando gli antagonismi tra essi, il rapporto di forza tra i diversi paesi si altera continuamente e quindi le stesse alleanze stabili tra le potenze imperialiste diventano impossibili portando inevitabilmente ad ogni genere di conflitti.
Paradossalmente, gli unici a credere a un capitalismo dal volto umano in Europa sono quegli spezzoni della sinistra ex comunista (in Italia Rifondazione Comunista, PdCI, Sel e satelliti nati dalle successive frazioni che non hanno mai sostenuto la rivoluzione sociale) che oggi si trovano spesso in cattiva compagnia insieme con i sostenitori delle “monete di popolo”, con i rossobruni e gli “iperkeynesiani” della Teoria Monetaria Moderna (Modern Money Theory).
Nel momento in cui il capitalismo segna il suo fallimento aggravando le già disastrose condizioni di vita e di lavoro dei proletari e delle masse popolari, il sistema capitalista dimostra che anche nella crisi insieme all’aumento della miseria c’è chi aumenta i profitti. Una ricerca della società d’investimento Henderson Global Investors ha rilevato che i dividendi dei maggiori gruppi capitalisti dell’eurozona nel primo trimestre del 2014 sono saliti del 18% pari a 153 miliardi di dollari e dobbiamo ricordare che i dividendi dei grandi gruppi capitalisti europei sono il 40% del totale mondiale. Lo stesso avviene in tutto il mondo.
Davanti ai licenziamenti, alla miseria crescente, gli operai giustamente lottano per sopravvivere. Tuttavia limitarsi a rivendicare la cassa integrazione, il sussidio di disoccupazione, il salario minimo garantito (per altri il reddito di cittadinanza), pur necessari per sopravvivere, non risolve il problema.
La chiusura delle fabbriche per fallimento o il loro trasferimento nei paesi dove i salari sono più bassi e le condizioni di lavoro sono di sfruttamento selvaggio senza regole e diritti, e la tassazione è più conveniente; come pure l'attacco ai servizi pubblici come sanità, trasporti e scuola - pone al movimento operaio e sindacale la questione della lotta contro le privatizzazioni e della nazionalizzazione delle imprese in crisi o delocalizzate.
Sarebbe illusorio e deviante pensare che rivendicare le nazionalizzazioni, essendo previste dalla nostra Costituzione, peraltro dietro lauto indennizzo, possano essere realizzate con raccolte di firme o petizioni popolari e parlamentari.
Noi sappiamo, per esperienza storica e pratica, che i capitalisti sono disposti pacificamente solo a socializzare le perdite e privatizzare i profitti e che la nazionalizzazione non è la fine dello sfruttamento capitalistico, che può essere anche realizzato all’interno del sistema a controllo statale. Siamo coscienti che il monopolio di Stato (a maggior ragione dello Stato borghese) sui mezzi di produzione non è un periodo di transizione verso il socialismo ma una nuova forma di produzione capitalista.
Sono i rapporti di forza che determinano i cambiamenti e la possibilità di realizzare le parole d'ordine della resistenza operaia e popolare, non le petizioni nè schematiche ripetizioni di slogan "rivoluzionari", ma una rinnovata coscienza di classe unita ad una forte ripresa delle lotte e della unità del movimento operaio possono permettere di portare avanti rivendicazioni come l'esprorio senza indennizzo e la nazionalizzazione .
I comunisti devono essere parte attiva di questo movimento affiancando i lavoratori nella lotta di resistenza, denunciando i travisatori che vogliono conciliare la lotta o ridurla a quella istituzionale e parlamentare.
In queste battaglie possiamo sia contrastare l'assillante propaganda liberista del "meno Stato più mercato" alimentato dalla borghesia italiana ed internazionale approfittando delle inefficienze e ruberie effettuate dai vari boiardi super-pagati del nostro Stato diventati principali finanziatori dei vari partiti parlamentari e degli stessi sindacati concertativi, che hanno lotizzato per anni le assunzioni e le cariche, per confezionare con i soldi pubblici, sottratti con le tasse principalmente al mondo del lavoro, grandi aziende monopolistiche da regalare al grande capitale (vedi Poste, Ferrovie, Autostrade, Eni, Alitalia ecc. ecc) o approfittando degli errori e delle successive sconfitte del campo socialista. Idee borghesi penetrate anche in larghi strati popolari che i comunisti devono contrastare per affermare la nostra visione di una società nuova dove lo Stato in mano alla classe produttrice della ricchezza, la classe operaia, decide e pianifica la produzione sulla base dei bisogni della società, del suo benessere e non del profitto.
Spiegando però con chiarezza che dalla crisi si esce solo con una rivoluzione proletaria che vada fino in fondo, e che non ci sono altre strade.
La necessità del cambiamento della società oggi è presente in milioni di proletari, bisogna darsi gli strumenti e delle istanze per organizzare questa voglia di cambiamento. Gli operai coscienti che fino ad oggi si sono impegnati in attività prevalentemente sindacali, spesso isolati nelle singole vertenze, possono diventare politici rivoluzionari, comunisti organizzati, ricostruendo il loro partito con un chiaro programma comunista senza delegare agli specialisti della politica, agli intellettuali di turno i loro interessi immediati e storici.
Bisogna lottare per la distruzione del sistema capitalista-imperialista, per la presa del potere politico e la costruzione dello Stato operaio, l’unico in grado di nazionalizzare le banche e socializzare le grandi imprese.
La storia dimostra che non si può fare una rivoluzione a metà, quando si comincia bisogna andare fino in fondo, perchè fermarsi prima è un errore fatale che si paga caro, col sangue proletario.
Non è umanamente accettabile che il 10% degli italiani possieda oltre il 50% della ricchezza nazionale mentre milioni di persone sono costretti a vivere sotto la soglia di povertà, senza lavoro, pensione, casa, servizi sociali, sanità, dignità e che decine di migliaia di lavoratori e cittadini continuino a morire di e da lavoro per il profitto.
La liberazione della classe operaia dalla dominazione capitalista può essere raggiunta solo attraverso la lotta del movimento operaio. Il socialismo può essere realizzato solo attraverso la lotta per l’abolizione del sistema classista di sfruttamento tramite la fine dei rapporti di produzione capitalisti.
L’obiettivo della classe operaia, dei lavoratori rivoluzionari, dei comunisti è chiaro: abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della proprietà privata dei mezzi di produzione.
(*) Da nuova unità - rivista comunista di politica e cultura
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