Sullo Stato Islamico
di Paul Delmotte (*)
“Un crimine odioso i cui autori vanno castigati” (François Hollande dopo l’assassinio di Hervé Gourdel). “Un assassinio brutale che mette in evidenza la barbarie di quei terroristi (….) Faremo tutto il possibile per trovare quegli assassini e consegnarli alla giustizia” (David Cameron, dopo l’assassinio di Alan Henning).
E’ da quasi dieci anni che il saggista svizzero Christophe Gallaz denuncia che il discorso dei responsabili politici occidentali dal giorno dopo l’11 settembre e gli attentati di Londra (7 luglio 2005) viaggia “esclusivamente su due binari: quello dello ‘stupore’ e quello del ‘volontarismo’”.
Cioè una parte delle dichiarazioni dei nostri
“responsabili” esprimeva, all’unisono con l’opinione pubblica, “la costernazione e la compassione” verso le vittime e dall’altro lato, con il ‘volontarismo’, ribadivano la loro decisione di
“perseguire ferocemente i terroristi”. Così, scriveva Gallaz, i nostri governi – e i nostri media, aggiungerei io – si sforzano di confinare questa opinione “in un contenuto dei fatti puramente
emozionale stabilendo che lo Stato – i nostri Stati – metterebbe fine con successo a tutta la malignità del mondo”.
Così, continuava l’analista, i nostri poteri vedrebbero rafforzata la loro funzione. “A fronte di accadimenti traumatici, secondo loro si tratta di creare nelle moltitudini uno stato di intontimento e di stupefazione adatto a disarmare qualsiasi tentativo di riflessione sul futuro a lungo raggio e sulla loro partecipazione nel concerto delle nazioni”.
I discorsi che ripetevano allora Tony Blair e George W. Bush – oggi sono Obama, Hollande o Cameron – “cercavano solo un obiettivo situato all’interno - insisto - dei loro paesi. Cioè “dissuadere chiunque riflettesse sulla piccola relazione che poteva esistere tra l’intervento militare in Iraq (2003) e gli attentati londinesi, tra i fatti accaduti e gli obiettivi. O la riflessione sulle ripercussioni che possono avere nei paesi poveri le continue aggressioni economiche commesse dai paesi ricchi”. Si trattava, conclude Gallaz, di “organizzare la miopia” (1). La nostra.
Lo Stato Islamico (ISIS) è uno spaventapasseri?
Il fatto che lo Stato Islamico (2) commetta atti spaventosi non impedisce di considerarlo come uno spaventapasseri (3).
Ricordiamo che i bombardamenti aerei statunitensi sul nord dell’Iraq sono stati autorizzati dalla Casa Bianca per “aiutare gli innocenti” – circa 40.000 yazidi, si diceva, rifugiati sul monte Sinjar “minacciati di violenza su una scala terribile”. Barak Obama evocava rischi di “genocidio”. Ricordiamo però meno, perché il fatto è stato poco diffuso, che “quando i consiglieri statunitensi arrivarono sul monte Sinjar, i 40.000 yazidi affamati non erano là!.
Gli statunitensi trovarono meno di 5.000 persone, la metà residente nel luogo, sulla montagna, da molto tempo e i combattenti kurdi del PKK erano stati sufficienti a rompere l’assedio. “La crisi umanitaria, concludevano alcuni (4) non è mai stata quella di cui hanno parlato i funzionari. E sembra che siano molti di più i rovesci inflitti in agosto dall’EI ai peshmerga del governo regionale del Kurdistan iracheno che la sorte degli yazidi che fece entrare in azione la “coalizione internazionale” (5). Un Governo Regionale del Kurdistan che poco prima si era mostrato più “comprensivo” verso l’ISIS quando questo attaccava l’esercito governativo iracheno.
In seguito, il 19 agosto, la barbara esecuzione del giornalista James Foley “per rappresaglia” per i primi attacchi è venuto a fagiolo per trasformare l’ISIS in “nemico pubblico n. 1” degli Stati Uniti (e dei suoi “vassalli” europei, come li ha chiamati una persona così seria come Zbigniew Brzezinski) a sbarrargli la strada.
Secondo il professore della VUB (6) Rik Coolsaet, l’Occidente esagera ampiamente. L’ISIS rappresenta solo una minaccia molto indiretta per l’Occidente. Nell’epoca delle Torri Gemelle, l’islamologo Olivier Roy (7) già pensava che neppure vari 11 Settembre avrebbero messo fine al potere statunitense….
Certamente gli yihaidisti che ritornano possono costituire un serio pericolo che i media segnalano ma, si può concludere a partire dal caso Nenmouche, l’assassino del Museo Ebreo di Bruxelles, che rappresentano un serio pericolo? Niente è sicuro su questo tema, dice Coolsaet. E se crediamo all’unico studio scientifico di cui disponiamo, solo 1 su 9 potrebbe costituire un problema. Allo stesso modo, tra i 300 e 400 belgi si sarebbero uniti all’ISIS e ad altri gruppi, dei quali ne sarebbero tornati circa 90, solo una decina potrebbe essere considerata “pericolosa” secondo i nostri servizi di intelligence (9).
D’altra parte potremmo anche interrogarci sulla singolare capacità dell’ISIS di adattare così bene il suo “messaggio” alle ossessioni orientaliste ed ai riflessi di buona memoria occidentali: qui la Sharia, il califfato, sgozzamenti, crocifissioni, decapitazioni, oppressione e vendita delle donne, massacro degli infedeli (yazidi, sciiti, cristiani). Là le case dei cristiani segnalate (come quelle degli ebrei in Germania), foto di esecuzioni di massa che ricordano quelle dell’Olocausto. E il fatto di chiamare i miliziani dell’ISIS “camicie nere” mi sembra abbastanza rivelatore. Non manca alcuno dei nostri peggiori fantasmi.
L’opportuna utilizzazione di Kobane
I cambiamenti di atteggiamento degli Stati Uniti relativamente al sito di Kobane non indicano anche, per caso, che continuiamo sul terreno della rappresentazione?
Dopo un periodo di strana apatia della coalizione di fronte ad una città in cui difensori e popolazione civile che erano là si trovavano “realmente di fronte ad un grave pericolo di violenza”, dopo varie dichiarazioni che lo confermavano e mentre i membri dell’ISIS avanzavano nella città, ecco che a metà ottobre Obama esprimeva la sua “preoccupazione” per Kobane. Alla città che una settimana prima Washington non considerava “obiettivo strategico” (19) e che riteneva di non poter salvare, venivano fornite armi, anche pesanti, oltre ad aiuti alimentari e sanitari. John Kerry dichiarava allora che era “irresponsabile e moralmente inaccettabile” che gli USA voltassero le spalle ad una comunità che combatteva l’ISIS. Due giorni dopo il primo ministro turco, Mevlut Cavusoglu, annunciava che la Turchia avrebbe permesso ai peshmerga iracheni “e a nessun altro” di attraversare la frontiera per soccorrere Kobane…..
Sarà che il valore simbolico di Kobane è cresciuto di colpo a fronte del rifiuto della Turchia ad intervenire e all’indebolimento della ribellione siriana “moderata” e che l’esercito di Bashar al-Assad sembrava finalmente opporsi seriamente all’ISIS?
I peshmerga iracheni di Massoud Barzani sembravano allora “la soluzione”, sia per Washington che per Ankara. Sia come sia, la tragedia di Kobane suscita la domanda di qual è l’autentico grado di pericolosità che viene attribuito allo Stato islamico. E potremmo anche chiederci, dati i calcoli politici, se non si tratti per gli USA più – per parafrasare Obama – di “indebolire” lo Stato islamico più che di “sradicarlo”.
I suburbi
In Génealogie de l’Islamisme (Hachette, 1995) eL’Islam mondialisé (Le Seuil 2002),Olivier Roy sviluppava l’idea del neofondamentalismo, caratterizzato dalla “lumpenizzazione”, una “quartomondializzazione” del reclutamento, che si svolge in luoghi marginali e fuori dalle classi del mondo arabo musulmano e ancor più tra la gioventù “per la perdita di riferimenti”, dei suburbi del mondo europeo, musulmani di origine o convertiti. Roy (11) considera che questi ultimi siano intorno al 25% dei candidati alla yihad!
Un islamismo radicale, certo, ma notevolmente più conservatore che quello della generazione precedente. Radicalizzati in Occidente e scollegati dai grandi movimenti islamici contemporanei questi neo-fondamentalisti, per il fatto stesso della loro emarginazione, si troverebbero molto più a loro agio con le idee waabiste: “rifiuto di tutte le culture compresa quella musulmana”, allineamento ad una stretta osservanza dei principi islamici ridotti a “quanto lecito e quanto non lecito”.
Poco tempo fa (12) Roy attualizzava la sua analisi segnalando un “nichilismo generazionale” che si trova anche in altri luoghi e non solo tra i marginalizzati dei suburbi, cosa che succede sotto altri cieli in ambienti completamente diversi all’Islam: il nichilismo dei “giovani perduti nella globalizzazione, affascinati dalla morte”, dei giovani “senza speciali problemi salvo quelli comuni agli adolescenti in cerca di un ideale e che desiderano essere parte di qualcosa” (13). Il che indica che questo fenomeno supera la sfera musulmana, per cui il fatto di analizzarlo solo sotto il prisma dell’Islam è un grave errore.
L’Islam?
“Persi nella globalizzazione”, giovani di fronte ad un “conflitto generazionale”, alla mancanza di futuro o a un sentimento di perdita della loro esistenza nel nostro mondo ipermaterialista….
Molti esperti minimizzano la dimensione religiosa degli yihaidisti. Una diagnosi confermata dal procuratore della repubblica di Vienne (Isère) dopo aver ascoltato una adolescente che voleva andare in Siria “molto determinata, ma anche molto persa”. La giovane, la cui religiosità era molto superficiale, voleva partecipare alla yihad per realizzare “un’esperienza di vita” (14).
Secondo Jean Pierre Laborde, direttore esecutivo del Comitato contro il Terrorismo delle Nazioni Unite, il 60% delle persone che si uniscono agli islamisti radicali non lo fanno per convinzione religiosa (15). Il che tuttavia non impedisce ai giornalisti di definire le decapitazioni “tipicamente islamiche” mentre uno specialista suggerisce che si tratta invece della volontà di “disumanizzare” il nemico. Ma tutti dimenticano che proprio 10 anni fa, nel settembre 2004, tre ostaggi furono sgozzati e decapitati con lo stesso macabro rituale – e con gli stessi vestiti di color arancio – dal gruppo Al-Tawhid di Abu Moussab Al-zarqaui, “casa madre dell’Emirato Islamico” (16).
Rinchiusi in un orientalismo apparentemente “non sradicabile”, molti media sembrano focalizzarsi unicamente sull’angolo religioso, perdendo di vista la dimensione sociale, economica e politica che sottostanno all’agire dell’EI ed ai suoi successi. Chiusi nel “nucleo duro” altamente ideologizzato che gravita attorno a Abubakr Al-Baghdadi, perdono di vista le cause profonde dell’insurrezione sunnita irachena e anche i componenti non salaafiti. Come, ad esempio, l’esercito della via del Nakshabandi, comandato dall’ex luogotenente di Saddam HussEIn, Ezra Ibrahim Al-Douti (chiamato “Ezzat il rosso” per i suoi capelli color carota), una milizia ibrida di baatisti e membri della fratellanza Nakshabandi la quale, in una specie di divisione dei compiti, “si occuperebbe” delle città conquistate dall’EI. Un’alleanza con un lato antinaturale – sia il Baath “laico” che gli Nakshabandi sono odiati dai salaafisti sunniti – abbastanza rivelatore.
Anche l’espulsione dei cristiani si può considerare importante nel progetto dell’EI: ricreare un califfato islamico che assomiglia più – con l’aiuto dell’influenza waabita – alle costruzione mentali dei suoi leaders che alla società che esisteva ai tempi del profeta. Questa espulsione potrebbe – o dovrebbe? – essere vista come parte importante di una strategia di “omogeneizzazione confessionale”, chiave per un miglior controllo della regione e anche frutto di un calcolo economico, la spoliazione dei beni cristiani, utili per il finanziamento dell’organizzazione, per “l’acquisto” dell’adesione dei diseredati sunniti – come per le donne yazide sequestrate – per alimentare le buone relazioni con le mafie locali.
Tornando ai sobborghi, la focalizzazione sull’elemento religioso nasconde così il malessere, materiale o spirituale, che giace sotto l’aspirazione a “altre esperienze di vita”. Alla fine, cedendo a questa visione, molti giornalisti ed “esperti” possono solo condividere – a far sì che si condivida – la posizione di un Occidente in difensiva che perde di vista allo stesso tempo i fondamenti storici ed economici della violenza nel Vicino Oriente.
Credo siano pochi quelli che hanno fatto attenzione alle parole pronunciate dal portavoce del “califfo Ibrahim”, Abubakr Al-Baghdadi, nel suo appello all’assassinio “ovunque e in ogni forma” dei cittadini della coalizione. “Volete una vita di umiliazioni e disonore?” chiedeva Mohammed Al-Adnani il 22 settembre ai suoi “fratelli” arabi musulmani. Ma quanti di noi hanno la minima idea di questa umiliazione, di questo disonore e delle loro cause?
Specchio, specchietto…
Sicuramente esiste una scelta – deliberata – dell’ultra violenza da parte dell’EI. Ci sarà, come in uno specchio, una scelta simile tra i nostri dirigenti? A volte si è detto che tutte le atrocità imputate all’EI non sono state dimostrate e in fin dei conti non sono diverse da molte altre commesse nel mondo in conflitti “asimmetrici”. Bene, queste atrocità vengono amplificate sia dallo stesso ISIS sia dai mezzi di comunicazione (17). Per questi ultimi si tratta di mantenere lo “stupore” … e gli indici di audience per tutto il tempo (una sorta di Hallowen tutto l’anno). Per l’organizzazione yihaidista si tratta in primo luogo di compensare con il terrore i suoi limiti numerici: gli effettivi dell’EI sono stati stimati tra 15 e 20.000 combattenti. In ogni caso meno di 30.000. Sul terreno, il massacro dei soldati governativi iracheni mediatizzato nelle reti sociali ha svolto il suo ruolo nell’affondamento dell’esercito di Nouri Al-Maliki, senza parlare del rifiuto di morire per un comando corrotto e propenso alla confusione. Qui, questo terrore iper-mediatizzato – e quella sconfitta – hanno potuto essere interpretai da un settore della gioventù immigrata come un segnale di autentica paura occidentale… e anche del fatto che l’EI potrebbe essere l’unico capace di “cambiare le cose” in Medio Oriente. Cosa che per alcuni “perduti della globalizzazione” avrebbe un’attrattiva maggiore.
“Barbarie”, “terrorismo”, “crudeltà”, “codardia”, atti “vergognosi”, “ignobili”, “schifosi”. Queste parole ricorrenti dei nostri dirigenti nel condannare l’EI cercano di segnalare con chiarezza dove sta “Il Male”. Pochi segnalano invece la questione razziale inerente alla decapitazione degli ostaggi. James Foley, Steven Dotloff, David Haines, Hervé Gourdel e Alan Henning sono stati assassinate per il fatto di provenire da paesi coalizzati contro l’EI, non perché facevano il loro lavoro o perché, senza che si sapesse, avessero commesso qualche atto ostile contro il gruppo yihaidista. Ma curiosamente – e ad eccezione di Libé Gourdel, assassinato per essere francese – questo fatto non è stato segnalato dai nostri responsabili politici né dalla maggior parte dei media. Lo stesso Hollande ha riutilizzato Libé per snaturarlo con una lunga verborrea francese (18). Come se la responsabilità – e l’errore – collettiva nazionale fosse ammessa da tutti. Davvero un atto di barbarie, ma considerato quasi inevitabile.
Miopia… perché?
Mettere in evidenza le atrocità del EI e focalizzarsi sulla dimensione religiosa tende ad alimentare l’amnesia storica dei nostri concittadini. Si potrebbe dire che uno degli effetti “positivi” dell’emergenza Califfato è stato – aiutato dalle commemorazioni della Prima Guerra Mondiale – ricordarci gli accordi segreti Sykes-Piquot del 1916. Lo smembramento delle province arabe dell’Impero Ottomano trasformate arbitrariamente e in maniera fluttuante in Stati nel decennio 1914-1923 spezzò, come disse Picaudou (19), il Medio Oriente fino ad un punto del quale si ha poca coscienza in Francia. Questo smembramento ed il regime coloniale che seguì sono incommensurabilmente responsabili della creazione di “nazioni non finite”, un fenomeno di sprofondamento brutale dello Stato, come a loro modo illustrano Siria e Iraq.
D’altra parte, è necessario risalire tanto nel tempo?
Non è per caso evidente che le condanne moralistiche di Barack Obama tendono a nascondere gli effetti molto più recenti dell’embargo, dopo l’invasione anglostatunitense dell’Iraq nel 2003?
Centinaia di migliaia di morti iracheni, un paese “riportato al Medio Evo” e l’insediamento, sempre sotto gli auspici di Washington, di un sistema politico confessionale che obbligava tutti gli attori politici iracheni al settarismo. In questo senso l’ex primo ministro Nouri Al-Maliki ha svolto perfettamente il ruolo di capro espiatorio. E se diamo credito al rapporto “Absolute Impunity-Militia Rule” sull’Iraq di Amnesty International le cose in tal senso sembrano non migliorare sotto il governo di Al-Abadi, che ha preso il potere dopo un “golpe morbido” di Washington per liberarsi di un Al-Maliki troppo testardo.
Non dimentichiamo infine che è stato l’avventurismo di Bush jr. e dei suoi sbirri neoconservatori ad offrire ad Al Qaeda la possibilità di radicarsi in Iraq. Quali che siano le peripezie sul terreno, la responsabilità grandissima degli USA per quanto succede oggi in Iraq è indiscutibile. E l’organizzazione della miopia di cui parla Gallaz è percettibile urbi et orbi. E l’opinione occidentale è la prima nel mirino.
“In una società che si sgretola” scriveva l’editorialista di Liberationnell’epoca degli “anni di piombo” italiani “i buchi si tappano con la paura”. Da vari anni si sono allargate le crepe: sociali, nazionali, generazionali…. Come nel periodo tra le due guerre con la Grande Crisi, sarebbe aberrante pensare che le nostre élites costruiscono “un altro nemico interno, ieri l’ebreo oggi il musulmano, somministrando così l’antidoto ideale al consolidarsi della lotta anti sistema e al rifiuto dell’ordine sociologico stabilito da quelli che si arricchiscono, dovunque, aldi là delle differenze nazionali, culturali o religiose?
Lasciamo la parola “fine” ad Edwy Plenel (20): “l’oligarchia che da trent’anni ha deciso a suo piacere la deregulation e la finanziarizzazione vuole che i poveri la lascino tranquilla invece di cercare quello che li unisce”.
Ecco qui tutto l’interesse nel costruire l’islamofobia. Con l’aiuto prezioso dello Stato Islamico.
Note:
(1) Liberation, 27.7.2005.
(2) EI (ISIS) lo chiamano così gli statunitensi. I francesi preferiscono Daesh (Organizzazione dello stato islamico.
(3) La parola è presa da Pierre-Jean Luizard in Mediapart, «Siamo caduti nella trappola tesa dallo Stato Islamico», 21.9. 2014.
(4) Atlas Internacional, 14.8.2014.
(5) Allan Kaval, «Les Kurdes? Combien de divisions?», in Le Monde diplomatique, novembre 2014.
(6) Vlaamse UniversitEIt van Brussel, Universita fiamminga di Bruxelles. R.Coolsaet ès autore di Jihadi Terrorism and the Radicalisation Challenge. European and American Experiences (Ashgate 2011).
(7) Les illusions du 11 septembre. Le débat stratégique face au terrorisme, Le Seuil, 2002.
(8) Pubblicato da un anno dopo la partenza di combattenti stranieri che sono stati negli ultimi 20 anni in Bosnia, Afganistan o Iraq
(9) Le Monde, 23.9.2014.
(10) Le Figaro, 8.10.2014.
(11) Intervista a Le Monde, 28-29.9. 2014.
(12) Ídem.
(13) Gli statunitensi Eugene Armstrong (20 settembre) e Jack Hensley (21 settembre) e il britannico Kenneth Bigley (7 ottobre).
(14) Le Figaro, 6.10. 2014.
(15) Le Monde, 13.10. 2014.
(17) Pensiamo alle direttive di alcuni direttori di giornali citati da Daniel Scheneidermann in Liberation (21.9.2014).
(18) Secondo Hollande, H. Gourdel è stato assassinato perché il suo paese (la Francia) “combatte il terrorismo e perché rappresentava un popolo innamorato della libertà che lotta contro la barbarie”.
(19) La décennie qui ébranla le Moyen-Orient (1914-1923), Complexe, colección Questions au XXe siècle, 1992.
20) Pour les musulmans, La Découverte, 2014, p.122
Fonte: http://www.michelcollon.info/A-propos-de-l-Etat-Islamique.html?lang=fr
(*) Professore di politica internazionale all’Istituto di Studi sulla Comunicazione Sociale (IHECS) della Libera Università di Bruxelles (ULB); da: rebelio.org; 25.11.2014
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)
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wlp (giovedì, 25 giugno 2015 12:43)
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