JOBS ACT:
ABROGARE L’ART. 18
OVVERO “IL BELLO, IL BRUTTO, IL CATTIVO”
Mirco Rizzoglio (avvocato in Milano).
In
questo periodo in cui il diritto del lavoro è l’oggetto della cronaca di tutti i giorni, mi piace ricordare un vecchio film di Sergio Leone in cui i valori in campo trovavano una
personalizzazione e semplificazione accessibile a tutti. Rispetto ai protagonisti attuali del dibattito, attribuirei al Jobs Act il ruolo del “bello”. Basta accendere la televisione, non importa
la rete, per sentirsi ripetere che la riforma proposta dal Governo Renzi è la più avanzata, la più democratica e, ultimamente, anche, la più di sinistra. Quello che non viene spiegato – così come
per ogni tema politico quotidianamente sfornato- è a che cosa quel “di più” si riferisca, mancando sempre qualsiasi dato oggettivo di partenza, in quanto l’obiettivo strombazzato risulta essere
sempre lo stesso: efficienza del mercato del lavoro ed aumento dei posti di lavoro.
Per la verità in un atto legislativo caratterizzato da una pluralità di spunti programmatici talmente generici da consentire al Governo la più totale libertà di legiferare – bypassando le competenze ed il ruolo fisiologico del Parlamento- una norma diversa anche nella formulazione è stata “per magia”, improvvisamente, introdotta, con una precisione nel dettaglio, che non lascia spazio a fraintendimenti: escludere “per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro” e limitare “il diritto alla reintegrazione…..a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”. Purtroppo non c’è tempo per soffermarsi sulla “bellezza” dell’intero testo normativo, ma ci si limita a sottolineare due chicche, che denotano quale sia la vera natura del provvedimento in via di approvazione. All’art. 2, si prevede, tra l’altro, l’esclusione “delle integrazioni salariali” in caso di cessazione di “un ramo dell’attività aziendale”. L’altra particolarità, che si ritiene di segnalare, è sempre parte del famigerato art. 7, dove si stabilisce la previsione “di termini certi per l’impugnazione del licenziamento”. Tale disposizione lascia esterrefatti, se si pensa quale sia stata l’evoluzione della legislazione sul punto. In base alle norme vigenti, il lavoratore licenziato ha l’onere di impugnare il licenziamento entro 60 giorni con lettera raccomandata e di proporre l’azione giudiziaria entro 180 giorni, pena la decadenza. Semplicemente, se il lavoratore non si attiva entro le due scadenze predette, perde irrimediabilmente la possibilità di tutelare i propri diritti, nonostante i comportamenti contra legem del datore di lavoro. Se si pensa che i diritti si prescrivono, in generale, in 20 anni (diritti reali sulla cosa altrui), 10 anni (prescrizione ordinaria) o in cinque anni (risarcimento danni, indennità, etc..), mi chiedo come sia compatibile con l’ordinamento una norma che determina, sostanzialmente, la perdita di diritti del lavoro con copertura costituzionale (Artt. 1, 3, 4, 36, 37, 38, 39 ,40 Cost.), in termini così brevi. La volontà di incidere ulteriormente sui tempi dell’impugnazione del licenziamento, significa soffocare, attraverso le limitazioni alla tutela giurisdizionale, i diritti dei lavoratori con l’effetto di lasciare impuniti i comportamenti antigiuridici dei datori di lavoro. Riprendendo lo spunto cinematografico, il ruolo del “brutto” spetta, senza dubbio, alla cd. “Riforma” Fornero. Escludendo le questioni pensionistiche ed i macroscopici errori programmatici che le hanno connotate, per quanto riguarda gli aspetti lavoristici ed essenzialmente la precedente riforma dell’art. 18, la sola struttura del testo dell’art. 1, comma 42, della L. n. 92/2012, esclude qualsiasi dubbio in merito. Un articolo composto da ben 69 commi, tra cui il predetto comma 42, a sua volta composto da ben 1514 parole, 8.826 caratteri, 14 paragrafi, 111 righe, la dice lunga, ma, se si analizzano taluni passaggi della intera norma, lo sconforto - per chi legge e soprattutto per chi dovrebbe far applicare la precedente riforma- è totale. I commentatori, nell’imminenza dell’entrata in vigore della stessa, si sono sforzati di darne una lettura razionale, per quanto possibile, e tra questi mi piace ricordare per tutti F. Carinci, uno studioso, che certamente non pecca di estremismo, il quale in un lavoro intitolato “Complimenti Dott. Frankestein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro”, ha definito la riforma Fornero “capolavoro di italica furbizia”. Le problematiche interpretative, definite da diversi studiosi non solo irrisolte, ma addirittura “irrisolvibili”, sono tali e tante da aver indotto anche le associazioni di magistrati a proporre l’abrogazione della predetta norma per molteplici ragioni. Nelle more, chi ci rimette, come al solito, è il soggetto più debole: il lavoratore. Giungo, quindi, all’individuazione del terzo protagonista della maldestra analogia cinematografica. Qui nasce il dubbio se il ruolo del “cattivo”sia da assegnare proprio all’art. 18, laddove prevede che, il lavoratore licenziato ingiustamente – e colgo l’occasione per sottolineare che l’ingiustizia, nel caso, significa violazione della legge da parte del datore di lavoro- abbia diritto alla reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato. Anche per chi non è tecnico del diritto la soluzione sopradetta appare la più logica e naturale. Tra gli esperti si parla di “risarcimento in forma specifica”, ovvero, chi viene ingiustamente leso in un diritto dovrebbe essere reintegrato nell’identica posizione sostanziale in cui si trovava precedentemente. Al contrario, il “risarcimento per equivalente” costituisce una forma di tutela alternativa, opportuna quando non sia possibile il risarcimento in forma specifica, ma richiede la valutazione dell’entità del bene compromesso, al fine di “monetizzarlo”, con tutte le difficoltà relative a tali processi valutativi. Chiunque comprende, che la soluzione storicamente scaturita dall’art. 18, non ha nulla di “cattivo”, anzi appare ed è, sicuramente, la più corretta e più in linea con il principio di eguaglianza, che caratterizza, o meglio dovrebbe caratterizzare il nostro ordinamento. Viceversa, non è possibile spiegare quante e quali conseguenze avrebbe l’abrogazione del diritto alla reintegra, consentendo al datore di lavoro, di eliminare – a fronte di un indennizzo- i lavoratori più anziani, quelli con maggiori problematiche psico-fisiche e , soprattutto, quelli che rivendicano i propri diritti ed i diritti dei colleghi. Perché, dispiace dirlo, ma in questo periodo storico, i lavoratori che reagiscono dinanzi ai comportamenti illegittimi sono pochi, per cui, una volta eliminati quei pochi, il gioco è fatto! Senza dimenticare l’impatto sulla rappresentanza sindacale – buona o cattiva che sia- e quindi le conseguenze sulla contrattazione e, quindi, sul costo del lavoro e sui diritti dei lavoratori. A questo punto, lascio in sospeso l’attribuzione del ruolo di “cattivo” e racconto sinteticamente una storia di lavoro e di tutela dei diritti del lavoro. Il sig. Bonaventura viene assunto, in qualità di socio lavoratore, dalla cooperativa “Duedipicche”, facente parte del consorzio “Bluff”, che lo destina a lavorare in una grande azienda italiana commerciale “Vendebasta S.p.A.”, insieme a decine di altri operai. Non si capisce per quale motivo “Vendebasta S.p.A.” non assuma direttamente il lavoratore ed i suoi colleghi, in quanto il lavoro non manca ed è costante negli anni. È vero, che gran parte dell’attività viene svolta di notte e nei giorni prefestivi o festivi ma il lavoratore non si tira indietro ed è sempre disponibile quando la cooperativa lo chiama a lavorare. Un giorno, però, si accorge che lo stipendio versato dalla cooperativa non è corrispondente al lavoro prestato e che la stessa cosa capita anche ai suoi colleghi. Inizia, quindi, a chiedere il giusto compenso ma nessuno gli risponde. Anzi, la cooperativa comincia a farlo lavorare meno ore. Con alcuni colleghi si rivolge ad un’associazione sindacale affinchè lo aiuti a rivendicare i propri diritti e, dopo qualche tempo, si trova a partecipare ad uno sciopero e ad una manifestazione sindacale. Pochi giorni dopo, nel novembre 2011, viene licenziato e perde la propria unica fonte di reddito. Trova un avvocato e ricorre al Giudice, che dopo 7 mesi, accerta l’illegittimità del licenziamento e reintegra il sig. Bonaventura nel posto di lavoro. La cooperativa, invece di riprenderlo a lavorare, apre una procedura di cassa integrazione, mentre tutti gli altri colleghi che non hanno scioperato, continuano tranquillamente la propria attività. Il sig. Bonaventura ricorre di nuovo al Giudice, che dopo 2 anni e mezzo, dichiara illegittimo il comportamento della cooperativa Due dipicche e la condanna a risarcire il danno. Nel frattempo, la cooperativa dà corso alla procedura di scioglimento e di cessazione dell’attività. Nel mentre, Vendebasta S.p.A. affida il lavoro, prima svolto dalla cooperativa Duedipicche, ad un’altra cooperativa, Duedifiori, facente parte anch’essa del Consorzio Bluff e tutti i lavoratori vengono assunti dalla cooperativa Duedifiori. Tutti, tranne il sig. Bonaventura ed i suoi colleghi, anch’essi licenziati, perchè avevano partecipato allo sciopero ed alle rivendicazioni salariali. La cooperativa Duedipicche, quindi, licenzia per la seconda volta il sig. Bonaventura per cessazione della attività. A questo punto, il malcapitato lavoratore decide di ricorrere nuovamente al Giudice, pur rendendosi conto della difficoltà di chiedere ragione alla cooperativa Duedipicche, ormai in liquidazione. Analizzando l’intera vicenda e talune circostanze emerse nel corso dei precedenti giudizi, il Bonaventura inizia a sospettare che anche Vendebasta S.p.A. poteva aver affiancato e avuto un ruolo attivo nei comportamenti discriminatori subiti, per cui chiama in causa l’azienda appaltante, avendo rilevato anche problematiche attinenti la sicurezza sul lavoro. Su quelle basi, chiede, tra l’altro, oltre all’annullamento del licenziamento illegittimo, anche la costituzione del rapporto di lavoro con Vendebasta. Nel frattempo, però, è operativa da due anni la “brutta” riforma Fornero. Quest’ultima, tra le varie problematiche irrisolvibili, ne presenta una del tutto particolare. Con il dichiarato scopo di ridurre i tempi dei processi dei licenziamenti, è stata introdotta una nuova procedura, con fasi temporalmente cadenziate e astrattamente più snella, nella quale però non possono essere introdotte questioni diverse dal “licenziamento”, ad eccezione di quelle relative alla “qualificazione del rapporto” ex art. 1, comma 47, legge n. 92/2012, o “fondate sugli identici fatti costitutivi”ex art. 1, comma 48, legge n. 92/2012. La formulazione letterale non è molto felice tanto è, che nel 2013 la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 643/2013, aveva chiarito che “tale locuzione legale vada intesa come limitata ai soli casi in cui si tratta di qualificare come subordinato un rapporto avente veste formale diversa, rilevandosi che la domanda del lavoratore è sostanzialmente diretta a fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con il committente , sicchè il fatto che si tratti di pronuncia costitutiva o che la qualificazione del rapporto investa principalmente l’aspetto soggettivo (cioè l’imputazione del rapporto) non appare ostativa all’applicazione del rito accelerato dettato dalla legge n. 92/2012”. Al povero lavoratore licenziato non restava, quindi, che attenersi a tale soluzione interpretativa anche se il Tribunale di Milano si era espresso in senso diverso, tanto che la decisione era stata annullata dalla Corte “Superiore” e, che si trova al piano superiore dello stesso stabile di via Pace, n. 10. Alla prima udienza di discussione del ricorso proposto dal sig. Bonaventura, il Giudice del Tribunale di Milano investito della questione, senza entrare nel merito, pur dando atto di conoscere l’indirizzo della Corte d’Appello, dichiarava il ricorso improcedibile e condannava il malcapitato lavoratore a pagare, alle controparti, Euro 5,000,00, oltre accessori, a titolo di spese processuali. È impossibile spiegare, in questa sede, la ragionevolezza delle argomentazioni che sorreggono la diversa interpretazione della Corte d’Appello di Milano, rispetto a quella del Tribunale di Milano, ma appare a tutti evidente che tra le due soluzioni il sig. Bonaventura non potesse che seguire la soluzione del Giudice “superiore”, a cui necessariamente sarà devoluta la questione nelle fasi giudiziarie successive. Nel contempo, il sig. Bonaventura, senza lavoro e senza reddito, si trova esposto ad una richiesta di pagamento di Euro 5.000,00 da parte del legale della cooperativa Duedipicche, che ha già preannunciato una procedura esecutiva nei suoi confronti. A questo punto, non avendo ancora individuato il “cattivo”, direi che il ruolo possa essere definitivamente assegnato al “lavoratore” che, infatti, è stato severamente punito per aver troppo rivendicato i propri diritti. L’episodio mi fa venire in mente un breve brano tratto dal Pinocchio di Collodi ed inserito nel preambolo del bel libro di Livio Pepino “Forti con i deboli” : “Il Giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhialini d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni. Pinocchio, alla presenza del Giudice, raccontò per filo e per segno la iniqua frode di cui era stato vittima; dette il nome ed il cognome e i connotati dei malandrini, e finì con il chiedere giustizia. Il Giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: si intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero subito due cani mastini vestiti da giandarmi. Allora il Giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: ‘Quel povero è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo, dunque, e mettetelo subito in prigione’”. A prescindere dalla decisione del Tribunale cui si porrà rimedio nelle fasi successive, pare utile, in conclusione, riportare alcune acute osservazioni di Glauco Giostra sul Corriere della Sera del 23.11.2014, secondo cui a causa di “una politica legislativa forte con i deboli e debole con i forti, si è ormai diffusa, nella collettività, la percezione di una giustizia diseguale e lontana. Troppo spesso, agli ultimi della società (gli invisibili, gli immigrati, i disoccupati, gli emarginati) la legge mostra solo il volto della pretesa (‘contro i poveri c’è sempre la giustizia’, direbbe Manzoni); mentre agli esponenti del potere politico, economico, ecclesiastico, mostra quello del protettivo privilegio. In mezzo ci sono tutti gli altri, che riescono a far valere il proprio diritto soltanto se sopravvivono a quella selezione naturale che -in una sorta di darwinismo giudiziario- consente a pochi, provvisti di particolari risorse, economiche e psicologiche, di superare il lunghissimo percorso ad ostacoli di un processo”. Le ultime riforme del lavoro, ed, in particolare, il Jobs Act, in sostanza, forse vogliono dire questo: poiché in Italia la illegalità nel mondo del lavoro, e non solo, è molto diffusa, come lo dimostrano le 200.000/250.000 cause introdotte ogni anno, eliminiamo le tutele e le possibilità di ricorso al Giudice cosicchè risulterà ridotta la illegalità.
Mirco Rizzoglio (avvocato in Milano).
Si allegano le due sentenze della Corte d’Appello di Milano e del Tribunale di Milano citate.
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