1° maggio 2015

1° di maggio

di Daniela Trollio (*)

 

Dati: nel mondo ci sono più di 200 milioni di disoccupati, 1 miliardo e 700 milioni di lavoratori poveri (il 30% circa dei lavoratori di tutto il mondo) che guadagnano meno di 3 dollari al giorno, un numero sconosciuto di fantasmi impiegati nella cosiddetta “economia informale” e 21 milioni di schiavi (non solo schiavi salariati, ma proprio schiavi, la cifra più alta nella storia dell’umanità).

Fonte: rispettabilissime istituzioni “borghesi” quali il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU (ECOSOC) e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

 

Il 1° maggio come giornata internazionale dei lavoratori risale ad anni lontanissimi – ma purtroppo solo nel tempo – e precisamente al Congresso Operaio Socialista della 2° Internazionale a Parigi del 1889, che la fissò in omaggio ai Martiri di Chicago (7 di loro erano immigrati di nazionalità tedesca) e in ricordo delle giornate di lotta per le 8 ore di lavoro culminate nella rivolta di Haymarket. La lotta era iniziata dalla fabbrica di trattori McCormik, contro la giornata di 10/12 ore di lavoro, sabato compreso, in condizioni pericolose.

Detto così …. com’è tragicamente attuale, vero? E oggi ci rubano persino la domenica!

E’ passato un secolo e ci ritroviamo nelle stesse condizioni. La precarietà - tratto sempre costante nella storia del capitalismo, non va dimenticato -  sotto l’attacco del cosiddetto neo-liberismo, è diventata la costante delle nostre vite. Dopo  un secolo di lotte sindacali e politiche, a una a una crollano le conquiste: la contrattazione collettiva, un salario che permetta di vivere con dignità o, semplicemente, di vivere, la giornata e il tempo di lavoro, il diritto di sciopero, la negoziazione collettiva, la rappresentanza sindacale, ecc. ecc.  Generazioni di giovani senza lavoro – quindi senza futuro, diciamocelo chiaro – donne ricacciate nelle loro case … e la lista è lunga.

L’obiettivo del capitale, comunque si chiami la versione attuale, è chiarissimo: massima libertà di sfruttare, disciplinare, dividere e indebolire la classe lavoratrice, riversando oltretutto su di noi quello che si chiama “rischio d’impresa”. Privatizzare i profitti e socializzare – al massimo grado – le perdite, ecco il significato vero.

 

Vivere nella precarietà (nel nostro paese, ma non solo) ha molti significati: essere disoccupato; avere un lavoro temporaneo che a volte è di pochi giorni; addirittura lavorare gratis come succede per l’Expo di Milano, dove “farà curriculum” indicare ai visitatori stranieri dove si trovano i bagni… il tutto con l’assenso dei cosiddetti “rappresentanti dei lavoratori” (leggi: sindacati confederali) e delle istituzioni (il sindaco “di sinistra” di Milano in testa).

Anche chi ha il posto “fisso” sa che fisso questo non lo è, grazie ad una serie di leggi di cui il Job Act è solo l’ultima espressione.

Tutto quanto sopra spacciato all’insegna di due parole d’ordine: questo è il miglior mondo “possibile”, ed è “il nuovo che avanza”.

Il concetto che ci sta sotto è molto chiaro: l’ineluttabilità e l’immutabilità della realtà attuale. E se i Martiri di Chicago si rivolteranno nella tomba guardandoci lavorare e soffrire come loro un secolo dopo, proprio il loro sacrificio ci dice invece che la realtà è sempre possibile cambiarla.

 

Perché questo secolo passato dalla rivolta di Haymarket ha visto il sorgere delle prime esperienze di stato socialista, di classe operaia e di sfruttati che hanno preso il potere, di popoli colonizzati che si sono liberati.

Se noi, in Europa e nei paesi cosiddetti avanzati, assistiamo  alla distruzione delle conquiste dei nostri diritti più elementari, e lo spettro della guerra è arrivato anche nelle nostre case, in altre parti del mondo altri milioni e milioni di lavoratori hanno il diritto di festeggiarla, questa giornata dell’unità del proletariato rivoluzionario.

In America Latina, per fare l’esempio più avanzato della lotta di classe oggi, milioni e milioni di lavoratori, di sfruttati, di fantasmi sconosciuti spinti ai margini estremi della società, hanno recuperato il loro futuro, possono avere una vita degna, contano nelle loro società, hanno ripreso nelle loro mani il loro destino. Certo il processo non è concluso – né potrebbe esserlo, la storia ce l’ha insegnato – ma l’obiettivo è chiaro: spedire nella spazzatura della storia il capitalismo in tutte le sue versioni. Il prezzo in morti e feriti è alto, ma ne vale la pena.

E anche in Europa ci sono sussulti che tolgono il sonno ai capitalisti: al di là delle valutazioni che ognuno di noi può dare, a torto o a ragione, dell’esperienza di Syriza – e dovremmo sempre ricordare che vanno analizzati non solo i fatti ma i processi che sono in atto – un fatto è chiaro. Meno “anestetizzato”, più organizzato, il popolo greco da più di cinque anni sta lottando ogni giorno contro l’ultimo esperimento del capitale, mangiarsi anche gli stati nazionali. Perché la Grecia questo è stata: l’equivalente del Cile di Allende, un laboratorio avanzato del capitale.

Anche in Spagna e Portogallo le cose non si presentano poi così facili: scioperi ogni giorno, settori di lavoratori che si organizzano, “scene” di lotta di classe. 

 

Parlavamo della guerra. La guerra del capitale ai popoli di tutto il mondo non è solo guerra militare, a cui esso ricorre – sempre più spesso oggi quando questi “altri mezzi” falliscono grazie alle mobilitazioni popolari -  quando ha esaurito gli altri mezzi. E sulla guerra militare ci sarebbero pagine e pagine da scrivere.

E’ prima di tutto guerra economica, rapina delle materie prime, imposizione degli interessi di classe di pochissimi alla maggior parte dei popoli.

Qui c’è un curioso paradosso: oggi sono ancora pochi quelli che conoscono e denunciano il TTIPP, una serie di accordi commerciali tra USA, Canada ed Europa che ci porterebbero ad arrenderci alle esigenze del capitale globale superando ogni legislazione nazionale. Qualcuno ricorda il Vertice del 2005 a Mar del Plata, Argentina, dove i popoli sudamericani, rappresentati da Hugo Chàvez, Nestor Kirchner e Lula da Silva, dopo mesi di mobilitazioni e lotte, “seppellirono” l’ALCA, l’Accordo di Libero Commercio delle Americhe proposto dagli USA, forse la prima, vera e bruciante sconfitta economica, e quindi profondamente politica, dell’imperialismo con casa madre a Washington nell’era della globalizzazione? Fu la mobilitazione organizzata di un continente a renderla possibile: è una lezione di cui dobbiamo tenere conto.

Accordi di questo genere sono stati brutalmente e sanguinosamente imposti all’Africa con tutti i mezzi,  e oggi si stanno discutendo il più segretamente possibile a Bruxelles. Il Terzo Mondo è qui, nella civile ed avanzata Europa, dopo che l’esperimento neo-liberista e imperialista è fallito in altri luoghi del mondo.

Mondo a cui dovremmo guardare più spesso, perché non tutto è sconfitta e perché spesso ce ne vengono esempi su cui ragionare..

E in questa giornata di 1° maggio 2015 rivolgiamo anche un pensiero alle vittime di queste guerre, militari ed economiche, che giacciono in quella tomba che lambisce l’Italia e che chiamiamo Mediterraneo. Al di là di ogni sentimento di umanità, di solidarietà, di giustizia, ricordiamoci che se non ci mobilitiamo, se non lottiamo, le prossime vittime, saremo noi.

 

Lotta di classe, dicevamo. Strumento insostituibile, alla faccia dei vari professorini e intellettuali della mutua degli ultimi decenni, per cambiare la realtà che, in tutte le epoche della storia umana, non è mai stata né ineluttabile né, soprattutto, immutabile.

In questo panorama ci serve con urgenza – ognuno ne sia consapevole – una cosa al tempo stesso semplice ma difficilissima grazie alla storia di tradimenti, deleghe, inganni e beghe di cortile che ci portiamo dietro: un’organizzazione, un partito di classe, un “qualcosa” – chiamatelo come volete - che sappia unire gli innumerevoli rivoli di critica, di rivolta, di lotta che si esprimono dappertutto, ma solo slegati uno dall’altro e sembra che non riescano mai ad unirsi. Un’organizzazione che dia a tutti questi rivoli la consapevolezza di star combattendo un’unica battaglia, quella per rovesciare il barbaro e mortifero sistema del capitale, che fornisca la consapevolezza e gli strumenti perchè se vogliamo vivere, e non morire o sopravvivere miseramente, abbiamo bisogno di un’altra società, una società che ha nome Socialismo.

Sono così di estrema attualità le parole pronunciate nel 1924 dal grande marxista peruviano José Carlos Mariàtegui, fondatore del Partito Comunista peruviano, nel lontanissimo 1° maggio del 1924, quando invitava tutto il proletariato ad unirsi in quella giornata: “Non impiegate le vostre armi e non dilapidate il vostro tempo nel ferirvi uno con l’altro ma usatele per combattere l’ordine sociale, le sue istituzioni, le sue ingiustizie e i suoi crimini”.

 

Non ci servono cortei “festosi” e rituali , ci serve che il 1° maggio diventi davvero solo il simbolo della lotta di tutti gli sfruttati e gli oppressi negli altri 364 giorni dell’anno.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto San Giovanni


Pubblicato sulla rivista "nuova unità"

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