Giorni storici, epoche storiche
di Fernando Martìnez Heredia (*)
Lo scorso venerdì 14 non è stato un giorno storico a Cuba, ed è necessario negare che lo sia stato. Chiamarlo così potrebbe essere un’iperbole perdonabile se non ci fossero in gioco la sovranità nazionale e la società che abbiamo creato nell’ultimo mezzo secolo.
Cuba ha un buon numero di giorni storici da ricordare, memorabili pietre miliari della strada che questo popolo ha percorso. Il 10 ottobre è il primo giorno della patria cubana, il giorno in cui cominciarono ad essere sconfitti l’impossibile che il calcolo freddo segna e il destino inesorabile che rende il colonizzato un essere inferiore. Quel giorno cominciammo ad imparare che la libertà e la giustizia devono andare molto insieme, devono sposarsi. Il 24 febbraio è il giorno in cui cominciò l’epopea popolare nazionale in cui la gente partecipò in massa alla guerra rivoluzionaria, sopportò tutti i sacrifici e vinse la palma dell’eroismo. Questa impresa creò le cubane e d i cubani, la nazione e la cultura nazionale, la repubblica cubana. Il 1° di gennaio è il giorno della vittoria del popolo e l’inizio della liberazione da tutte le dominazioni e la creazione di una società e di una vita nuove. Segna la fine del dominio coloniale e neocoloniale nella storia di Cuba. Il 19 aprile il socialismo, bagnato di sangue, vinse a Giròn il blocco dei nemici del popolo cubano: gli imperialisti e i borghesi.
Questi sì che sono giorni storici!
Anche il 20 maggio fu un giorno storico, nonostante non sia sopravvissuto all’epoca storica che inaugurò. Giorno singolare e ambiguo come pochi, conciliava due realtà opposte. Da un lato, grandissima euforia popolare, gioia immensa per il fatto che sembrava rendere realtà le motivazioni e gli ideali per i quali un popolo di caste, unificate da una coscienza politica, partecipò in massa alla grande guerra popolare e all’olocausto, e poi esigette la ritirata dell’occupante straniero con tutte le sue energie e in tutte le forme possibili. Dall’altro lato, i problemi e la disillusione che portava con sé il nuovo Stato, con una sovranità nazionale molto ridotta dalla potenza straniera, e la sconfitta del progetto rivoluzionario, perché dalla fine della guerra le classi che reggevano il paese diedero la priorità al ritorno all’ordine e rifiutarono di soddisfare gli aneliti di giustizia sociale.
Quello fu uno storico giorno di post-rivoluzione, l’inizio di un’epoca che portò un compagno vicino ad Antonio Maceo a scrivere, nel 1909:
“la mente si perde al solo pensare cosa sarebbe successo in questo paese, se fossero vissuti i due Maceo nel periodo del primo intervento americano e in mezzo alle grandi misere che ne sono seguite. Ma è obbligatorio arrivare a questo dilemma: o non vi sono mai prove di repubblica e corrono fiumi di sangue, e la convulsione non è intermittente ma continua, o la repubblica si stabilisce su basi ferme e perdurabili con tutta la verità dei principi rivoluzionari” (1).
Quel periodo dovette essere sconfitto da un’altra grande rivoluzione perché Cuba arrivasse ad essere padrona di se stessa, realmente libera e sovrana. E la colossale trasformazione sloggiò il 20 maggio dal luogo secondario che aveva nella galleria dei giorni storici della patria.
Da dicembre dello scorso anno abbiamo assistito ad una nuova congiuntura politica. Due Stati che hanno, tra loro, una differenza abissale in quanto a potere materiale, e che hanno vissuto più di cinquantasei anni in virtuale stato di guerra – perché il più potente applica costantemente misure di guerra all’altro – si sono seduti a negoziare la pace e sono riusciti a fare un primo passo, molto piccolo: ristabilire relazioni diplomatiche. Quello potente le aveva rotte cinquantaquattro anni fa, quando era sicuro di sconfiggere il governo dell’altro tramite un’invasione e la forza militare. L’intero pianeta conosce la storia della sua aggressione sistematica, da allora fino ad oggi.
Ognuno ha delle carte a suo favore.
Gli Stati Uniti, la necessità di Cuba di migliorare la sua posizione nelle relazioni economiche internazionali in un mondo in cui fino ad ora predomina il capitalismo imperialista. La possibilità di mercanteggiare ed ottenere concessioni dal governo cubano in cambio dello smantellamento graduale del suo sistema di aggressione permanente. La speranza di dividerci tra pratici e sagaci, quelli che capiscono, e i rabbiosi e i ciechi, quelli antiquati che si afferrano al passato. Il sogno che gli Stati Uniti incarnino l’ideale di “tecnologie” e consumi di cui possa godere quella specie di classe media che si affaccia nello spettro nazionale cubano. Far lievitare la speranza di migliorare la loro situazione ai settori meno coscienti dell’ampia frangia di povertà che esiste. Esercitare la loro capacità di farci una guerra che non è di pensiero ma di induzione a non pensare, ad una idiotizzazione di massa. E sempre qualcosa che è hanno lasciato intendere molto chiaramente: il ricorso all’utilizzo di tutte le forme di sovversione del regime sociale cubano che siano alla loro portata.
Cuba è molto forte e ha molte carte a suo favore. La prima è l’immensa cultura socialista di liberazione nazionale e antimperialista accumulata. Questa è stata decisiva per vincere le battaglie e guidare la resistenza negli ultimi decenni, e su di essa si basa la coscienza politica e morale della maggioranza, che in alcun modo cederà né la sovranità nazionale né la giustizia sociale. La legittimità del mandato di Raùl e il consenso con gli atti del governo che presiede assicurano la fiducia e l’appoggio alla sua strategia, e gli permettono di condurre i negoziati con l’assoluta aderenza ai principi e flessibilità tattica.
La solidità del sistema statale, politico e di governo cubani, la potenza e la qualità del suo sistema di difesa, il controllo degli elementi fondamentali dell’economia del paese, e le abitudini e le reazioni difensive forniscono un insieme formidabile che sta alla base delle posizioni cubane.
La storia degli atteggiamenti degli Stati Uniti contro l’indipendenza di Cuba nel secolo XIX, il crimine che commisero contro la rivoluzione trionfante nel 1898 e la loro oppressione neocoloniale sfruttatrice e umiliante fino al 1958, e tutto ciò che hanno fatto e fanno contro il nostro popolo dal 1959, costituiscono una condizione colpevole e fragile che li squalificano come parte in cui confidare in un negoziato.
Quasi quasi ammiro il fatto che i funzionari nordamericani credano che fare visite e sembrare simpatici sia sufficiente perché i cubani si sentano riconoscenti e gratificati, cosa spiegabile solo con la sottovalutazione di chi si sente ‘imperiale’ e con il disprezzo che già José Martì conosceva.
Che Cuba goda della ragione nei suoi reclami contro gli Stati Uniti è stato quasi universalmente riconosciuto per decenni da governi, parlamenti, istituzioni internazionali, organizzazioni sociali e politiche e dalle più varie personalità.
I negoziati non avanzeranno realmente se gli Stati Uniti non faranno passi unilaterali che mutino la situazione illegale e criminale creata dai loro continui atti a danno di Cuba. Restituire ai suoi cittadini parte dei diritti che sono stati calpestati e facilitare ad alcuni loro imprenditori l’avvio delle relazioni con Cuba non ha a che vedere con quei passi imprescindibili, né può sostituirli.
Questa asimmetria favorisce Cuba. La compensazione in diritto per le nazionalizzazioni cubane degli anni Sessanta avrebbe un saldo molto inferiore a quello degli indennizzi che essi devono per la perdita di varie migliaia di vite e i danni e i mali causati a Cuba.
Eventi internazionali come quello di venerdì 14 sono molto rumorosi e estremamente pubblicizzati. Ma la questione decisiva per la politica internazionale di qualsiasi Stato è costituita sempre dai dati fondamentali della sua situazione e politica interne. La questione davvero principale è se il contenuto dell’epoca cubana che si sta dispiegando negli ultimi anni sarà o non sarà post-rivoluzionario.
Nelle post-rivoluzioni si retrocede, senza rimedio, molto più di quanto i ‘giudiziosi’ coinvolti abbiano considerato necessario all’inizio. Gli abbandoni, le concessioni, le divisioni e la rottura dei patti con le maggioranze preludono ad una nuova epoca in cui si organizza e si stabilisce una nuova dominazione, anche se questa si vede obbligata a riconoscere parte delle conquiste dell’epoca precedente.
Le rivoluzioni, al contrario, combinano iniziative audaci e salti in avanti con uscite laterali, pazienza e abnegazione con eroismo senza pari, astuzie tattiche con offensive incontenibili che fanno salire alla luce le qualità e le capacità della gente comune e creano nuove realtà e nuovi progetti. Sono l’imperio della volontà cosciente che diventa azione e sconfigge le strutture che incarcerano gli esseri umani e i saperi stabiliti. E quando riescono ad avere la dimensione di un popolo sono invincibili.
Molto presto saremo nel mezzo di una grande battaglia di simboli. La tranquilla e svergognata parata di auto “americane” durante l’evento di venerdì scorso tendeva a cancellare tutta la grandezza cubana e riportare il paese alla nostalgia dei “bei tempi”, prima che comandassero la marmaglia e i castristi (2).
La strategia attuale degli Stati Uniti contro Cuba ci offrirà un buon numero di tattiche “morbide” e “intelligenti”, moderne “fregature” della guerra del secolo XXI.
La dichiarazione che siamo disposti ad avere relazioni diplomatiche è stata molto positiva, nonostante tali relazioni formino parte di una nuova fase della politica diretta a sconfiggere e dominare Cuba. Quanto all’ipocrisia che di solito adorna certe uscite diplomatiche, questa è diretta più al nostro popolo che all’altra parte.
Togliere di mezzo confusione e sgonfiare le speranze puerili è uno dei compiti necessari. Nella misura in cui la maggior parte della popolazione partecipa alla politica, ogni volta più attivamente, essa stessa produrrà iniziative e genererà formule che sbaraglieranno la pretesa nordamericana e le sue mercanzie materiali e spirituali. Nelle rivoluzioni il popolo è sempre decisivo.
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Note
[1] José Miró Argenter: Cuba: crónicas de la guerra. Las campañas de Invasión y de Occidente, 1895-1896, Editorial Ciencias Sociales, La Habana, 1968, p.544.
[2] Vedere“Símbolos”, il magnifico articolo di Rosa Miriam Elizande pubblicato domenica 18 su Cubadebate.
(*). Saggista e storico cubano, ha diretto il Dipartimento di Filosofia dell’Università dell’Avana. E’ stato direttore della rivista Pensamiento crìtico. Attualmente lavora come ricercatore titolare del Centro “Juan Marinello” del Ministero della Cultara cubano.
da: cubadebate.cy; 20.8.2015
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)
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