CLIMA

Senza che nessuno se ne renda conto, ci avviciniamo alla distruzione del nostro pianeta

 

di Roberto Savio (*)

 

 

 

Il 17 aprile gli italiani sono stati chiamati a votare un referendum nazionale sull’estensione delle licenze di estrazione di gas e petrolio in mare. Il governo, i media e i circoli economici hanno preso posizione contro il referendum, proclamando che sarebbe costato 2.000 posti di lavoro. I proponenti il referendum (tra i quali 5 Regioni) hanno perso.

 

L’Italia ha seguito una tendenza comune, dopo la fine del Vertice sul Cambio Climatico (Parigi, dicembre 2015) in cui tutti i paesi (Italia compreso, si sono impegnati solennemente a ridurre le emissioni.

 

Due settimane dopo il Vertice, il Primo Ministro britannico ha preso l’iniziativa di estendere le licenze di estrazione del carbone, spiegando che vi erano 10.000 posti di lavoro a rischio. Poi è stata la volta dell’India, che ha dichiarato che le licenze per le centrali elettriche a carbone sarebbero state estese, visto che lo sviluppo del paese viene prima delle preoccupazioni ambientali.

 

La risposta del governo polacco è stata dire che non aveva alcuna intenzione di ridurre a breve termine l’uso del carbone polacco. Poi l’Ungheria ha fatto una dichiarazione simile sull’utilizzo dell’energia fossile. Così nessuna iniziativa significativa per il controllo delle emissioni è stata annunciata dopo Parigi.

 

Anche tutti i candidati repubblicani hanno annunciato che, una volta giunti alla Casa Bianca, considereranno sepolti tutti gli accordi raggiunti a Parigi, dove il presidente Barak Obama ha avuto un ruolo importante. Di fatto ci sono molte iniziative repubblicane alla Corte Suprema per annullare le misure che limitano l’inquinamento, misure prese dall’amministrazione. Alla fine, anche se con accenti differenti, tutti i partiti xenofobi e della destra radicale hanno annunciato che non considerano gli accordi di Parigi come prioritari.

 

 

La critica principale della comunità scientifica agli accordi di Parigi è che, mentre l’obiettivo era di limitare l’aumento globale della temperatura dall’inizio dell’era industriale a 2 gradi centigradi (e accettando che 1.5 gradi sarebbe stato un obiettivo più realista), in realtà la somma di tutti gli obiettivi individuali stabiliti liberamente dai paesi sarebbe almeno di 3.5 gradi. L’idea è che con altri negoziati, l’obiettivo dei 2 gradi sarebbe stato possibile, grazie alle nuove tecnologie.

 

Adesso ci si trova con un altro problema: non ci sarà alcun controllo dell’implementazione dell’accordo fino all’anno 2030. Fino ad allora ogni paese sarà responsabile dell’implementazione del suo obiettivo e anche dello sviluppo del suo impegno.

 

Sarebbe stato interessante vedere applicata una filosofia simile a livello delle tasse. Ogni cittadino decide quanto deve pagare ed è responsabile di verificare di mantenere il suo impegno fino all’anno 2030. Solo nel 2030 i meccanismi di verifica si attiverebbero e questi non avranno applicazioni o penalità. L’unica cosa che succederebbe sarebbe informare il pubblico su chi non ha rispettato il proprio impegno.

 

E’ chiaro che i paesi industrializzati come Italia e Gran Bretagna – ancora lontani dalla riduzione delle loro fonti di inquinamento – non sono un buon esempio per i paesi in via di sviluppo che si stanno industrializzando e che adesso devono ridurre le loro emissioni per colpa dell’inquinamento emesso dal secolo 19° dai paesi industrializzati.

 

Di fatto, secondo la Banca Mondiale, i sussidi all’industria dei combustibili fossili sono di 88 mila milioni di dollari l’anno. Secondo un rapporto dell’ Overseas Development Institute, i paesi del G20 spendono due volte di più – e in denaro pubblico – nella ricerca di nuove riserve di petrolio, gas e carbone di quanto le maggiori società private spendono nel trovare nuove riserve di petrolio, gas e carbone. Intanto non è ancora del tutto finanziato il fondo di 100.000 milioni di dollari stabilito a Parigi per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adottare nuove tecnologie. E’ ovvio che la verifica si farà nel 2030.

 

 

Tutte le settimane riceviamo notizie allarmanti su come il clima si sta deteriorando molto più rapidamente di quanto pensavamo. Sto parlando delle costanti notizie di catastrofi naturali. Parliamo degli allarmanti richiami della comunità scientifica mondiale.

 

Il Centro Nazionale della Restaurazione Climatica ha pubblicato una specie di riassunto di tutti questi richiami, in un allarmante rapporto del professor Kevin Andersen del Centro del Cambio Climatico de Tyndall, Regno Unito, in cui dice:

 

“… secondo nuovi dati pubblicati dall’Amministrazione Nazionale dell’Atmosfera e degli Oceani degli Stati Uniti, misurazioni prese nell’osservatorio di Mauna Loa alle Hawaii mostrano che le concentrazioni di carbonio (CO2) sono aumentate a 3.08 parti per milione (ppm) nel 2015, il più grande aumento annuale in 56 anni di ricerca. Il 2015 è stato il quarto anno consecutivo in cui il CO2 è cresciuto più di 2 ppm. Gli scienziati sono sbalorditi e sconvolti dai dati riguardanti temperature senza precedenti della NASA relativi al febbraio 2016, che mostrano un aumento di 1.65° dall’inizio del secolo XIX e di 1.9°C dall’era pre-industriale…”

 

Secondo il professor Michael Mann questo significa che “non abbiamo posto, nel nostro bilancio del carbone, per l’obiettivo di 1.5 gradi e l’opportunità di mantenere l’obiettivo dei 2° sta svanendo rapidamente, a meno che il mondo cominci a tagliare le emissioni immediatamente e rapidamente. Le condizioni attuali di El Niño hanno contribuito a queste cifre senza precedenti ma anche paragonate a Niños precedenti, siamo davanti a temperature incredibili”.

 

Per avere un’idea di ciò che ci aspetta nel futuro basta guardare al Venezuela, dove gli edifici pubblici funzionano solo tre volte alla settimana per ridurre il consumo di acqua e di energia.

 

Stefan Rahmstorf, dell’Istituto per la Ricerca sul Cambio Climatico di Potsdam dice che “nel 2012 l’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti ha analizzato dettagliatamente come una siccità in Siria – dal 2007 al 2011 – ha costituito un fattore cruciale per la guerra civile che cominciò nel 2011. Più di 3 milioni di persone lasciarono le loro fattorie per dirigersi a città sovrappopolate e impreparate, dove furono ispirati dalla Primavera Araba a ribellarsi contro un regime che non li aiutava.

 

Il giornalista Baher Kamal, corrispondente di Inter Press per Africa e Medio Oriente, ha pubblicato in due parti un’inchiesta sull’impatto del cambio climatico sulle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa, che mette in chiaro che possono diventare inabitabili nell’anno 2040.

 

Ad esempio il Nilo potrebbe perdere l’80% del suo flusso d’acqua. Bahrein, Kuwait, Libano, Palestina, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono tutti a grave rischio. Ma lo sono anche Algeria, Iraq, Giordania, Libia, Marocco, Siria, Tunisia e Yemen.

 

Il Dott. Moslem Shathout, vice-presidente dell’Unione Araba per l’Astronomia e lo Spazio, ritiene che i paesi arabi del Nord Africa siano di gran lunga i più colpiti dalle conseguenze del cambio climatico globale.

 

In altre parole, dobbiamo aspettarci grandi masse di popolazione che si spostano sulle coste del Mediterraneo e, di conseguenza, in Europa. La categoria di rifugiati climatici non esiste in alcuna legislazione.

 

Mentre la popolazione europea rappresentava il 24% della popolazione mondiale all’inizio del XIX secolo, alla fine del corrente secolo sarà solo il 4%. L’Europa perderà 40 milioni di persone, che dovranno essere sostituite da immigranti per mantenere la produttività e il funzionamento del sistema pensionistico.

 

L’arrivo di 1.3 milioni di persone – due terzi dei quali giovani con un’educazione – ha creato un’enorme crisi politica e spaccature nel progetto europeo.

 

I rifugiati climatici avranno età differenti e molti apparteranno al settore agricolo, il più conservatore e di basso livello educativo nel mondo arabo.

 

Il Primo Ministro italiano Matteo Renzi e il primo Ministro britannico David Cameron – che per ragioni elettorali ha toccato il tema di alcuni posti di lavoro persi nell’industria fossile – hanno una idea di come affrontare questo futuro imminente?

 

Probabilmente no, ma a loro non importa. Questo problema non avverrà durante i loro governi.

 

Per questo il cambio climatico non è nelle agende politiche quale tema prioritario.

 

I media seguono gli eventi, non i processi, per questo non danno alcun allarme. Intanto una dopo l’altra catastrofe porta a grandi disastri …

 

Quando tutti si accorgeranno che, come dice il proverbio, Dio perdona sempre, gli uomini lo fanno a volte e la natura mai?!

 

 

(*) Giornalista argentino, co-fondatore di Inter Press Service (IPS).

 

Da surysur.net;22.4.2016

 

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

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