Obama, Trump e i cervelli liberal-progressisti
di John Pilger (*)
Per il giorno dell’inaugurazione della presidenza di Trump, migliaia di scrittori statunitensi si apprestano ad esprimere la loro indignazione. “Per guarirci e avanzare” scrivono i Writers Resist
(gli scrittori resistono), “vogliamo eludere il discorso politico diretto per incentrarci ispiratamente sul futuro e in come noi, come scrittori, possiamo essere una forza unificatrice nel
compito di proteggere la democrazia”.
“Preghiamo vivamente gli organizzatori e gli oratori locali di evitare di menzionare i nomi dei politici o di servirsi di un linguaggio “anti” durante la manifestazione del Writers Resist. E’
importante garantire che le organizzazioni senza fini di lucro, a cui è vietata la partecipazione a campagne politiche, si sentano a posto patrocinando questo avvenimento”.
A quanto pare, bisogna evitare la protesta reale, che non è esente da tasse.
Pargonate questa spazzatura verbale con le dichiarazioni del Congresso degli Scrittori Nordamericani celebrato nella Carnegie Hall di New York nel 1935 e, successivamente, due anni dopo, nel 1937.
Si trattò di avvenimenti elettrizzanti, con scrittori che discutevano come far fronte a fatti ignomignosi che stavano avvenendo in Abissinia, Cina e Spagna. Vennero letti telegrammi di Thomas Mann, C. Day Lewis, Upton Sinclair e Albert Einstein, in cui era riflessa la paura verso il grande potere rampante e la convinzione che non era ormai più possibile dibattere di arte e di letteratura non solo senza parlare di politica, ma senza entrare nell’azione politica diretta stessa.
“Uno scrittore”, dichiarava la giornalista Martha Gellhorn nel 2° congresso,”deve essere ora un uomo d’azione ... Un uomo che abbia dedicato un anno della sua vita agli scioperi dell’acciaio, o che sia rimasto disoccupato per un anno, o che abbia sofferto i problemi del pregiudizio razziale, non ha perso o sprecato il suo tempo. E’ un uomo che è arrivato a capire qual è il suo posto. Se sei sopravvissuto a questo, quello che dirai in seguito non sarà altro che la verità, il necessario e il reale, e per questo sarà duraturo”.
Quelle parole risuonano ora come un’eco attraverso la ‘devozione’ e la violenza dell’era Obama e il silenzio di coloro che hanno collaborato ai suoi inganni.
Che la minaccia del potere rapace – agente da molti anni prima dell’ascesa di Trump – sia stata ben capita dagli scrittori, molti dei quali privilegiati e celebrati, e dai guardiani delle porte della critica letteraria e della cultura (compresa la cultura popolare), è cosa fuori discussione. Non dipendeva da loro l’impossibilità di scrivere e promuovere la letteratura priva di politica. Non dipendeva da loro la responsbilità di parlare chiaro, chiunque occupasse la Casa Bianca.
Oggi il falso simbolismo è tutto. La “identità” è il tutto.
Nel 2016 Hillary Clinton ha stigmatizzato milioni di votanti definendoli “una banda di deplorevoli razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, islamofobi, chiamateli come volete”. Questo insulto l’ha pronunciato durante una marcia LGTB come parte della sua cinica campagna per attrarre le minoranze insultando una maggioranza bianca, principalmente operaia. Si chiama “divide et impera”; o politica dell’identità, nella quale razza e genere, mentre nascondono la classe sociale, permettono di fare la guerra di classe.
Trump l’ha capito alla perfezione.
“Quando la verità viene sostituita dal silenzio” disse una volta il poeta sovietico dissidente Yevtuschenko, “il silenzio è una menzogna”.
Non si tratta di un fenomeno nordamericano. Alcuni anni fa Terry Eagleton, allora professore di letteratura all’Università di Manchester, sosteneva che “per la prima volta in due secoli, non c’è alcun poeta, drammaturgo o romanziere britannico noto disposto a mettere in discussione i fondamenti del modo di vita occidentale”.
Non c’è uno Shelley che parli a favore dei poveri, né un Blake che scriva in favore di sogni utopici; non c’è un Byron che condanni la corruzione della classe dominante, né un Thomas Carlyle ed un John Ruskin che svelino il disastro morale del capitalismo.
William Morris, Oscar Wilde, HG Wells o George Bernard Shaw oggi non hanno un loro equivalente. Harold Pinter è stato l’ultimo a levare la voce. Tra le insistenti voci dell’attuale femminismo di consumo, nessuna si fa eco di Virginia Woolf, colei che così bene descrisse “gli intrighi per dominare gli altri ... e per strada sottomettere, uccidere o acquisire terre e capitale”.
C’è qualcosa di venale e profondamente stupido in quegli scrittori che si avventurano fuori dal loro mondo viziato per abbracciare una “causa”.
Nella parte delle rassegne del Guardian dello scorso 10 dicembre c’era una immagine pacchiana di Barak Obama che guardava il cielo con queste diciture: “Grazia affascinante” e “Addio, capo”.
Il servilismo adulatorio scorreva pagina per pagina come una specie di rigagnolo di puzzolente chiacchiericcio. “E’ stato una figura vulnerabile in molti sensi ...Ma la grazia! La grazia integrale: nelle maniere e nelle forme, nell’argomento e nell’intelletto, con humor e sobrietà ... E’ un brillante tributo a quello che è stato e che può tornare ad essere... Sembra disposto a continuare la lotta e continua ad essere un formidabile campione che dobbiamo mantenere dalla nostra parte ... La grazia ...i quasi irreali livelli di grazia...”.
Ho messo insieme alcune di queste citazioni. Ce ne sono altre ancor più agiografiche e mancanti di moderazione. L’apologista-capo di Obama su The Guardian, Gary Younge, si è sempre curato di mitigare un poco gli omaggi. Il suo eroe “avrebbe potuto fare di più” ma, oh “quelle soluzioni calme, misurate e consensuali...”.
Ma nessuno può superare lo scrittore nordamericano Ta-Nehisi Coates, il fortunato con una borsa di studio per “geni” di 625.000 dollari concessa da una fondazione di sinistra liberale. In un interminabile saggio per The Atlantic intitolato “Il mio presidente era nero”, Coates ha dato un nuovo significato alla prostrazione. Il “capitolo” finale intitolato “When You Left, You Took All of Me With You” (Quando te ne andrai, mi porterai tutto con te) – un passo della canzone di Marvin Gaye – descrive lo spettacolo di un Obama “che esce dalla limousine, al di là della paura, sorridendo, salutando, sfidando la sfiducia, sfidando la storia, sfidando la gravità”. L’Ascensione, niente meno.
Uno dei tratti persistenti della vita politica nordamericana è un estremismo del culto molto vicino al fascismo. Si è espresso e rafforzato durante i due mandati di Barak Obama. “Io credo nell’eccezionalità americana con ognuna e con tutte le fibre del mio essere” disse Obama, che ha portato il passatempo militare nordamericano favorito – i bombardamenti e gli squadroni della morte (“operazioni speciali”) – ai livelli più alti di qualsiasi altro presidente dalla Guerra Fredda.
Secondo la ricerca del Consiglio delle Relazioni Estere, solo nel 2016 Obama ha lanciato 26.171 bombe. Cioè 72 ogni giorno. Ha bombardato i più poveri della Terra: Afganistan, Libia, Yemen, Somalia, Siria, Iraq, Pakistan.
Ogni giovedì - ci informa il New York Times – selezionava personalmente chi doveva essere assassinato con i diabolici missili lanciati dai droni. Matrimoni, funerali o pastori di greggi si trasformarono in bersagli, insieme a quelli che cercavano di ricomporre i corpi disseminati dall’ “obiettivo terrorista”. Un senatore repubblicano, Lindsey Graham stimava – ricevendo applausi – che i droni di Obama avevano ucciso 4.700 persone. “A volte viene colpita gente innocente, e io odio questo fatto” ha detto “ma abbiamo colpito membri molto importanti di al Qaeda”.
Come con il fascismo degli anni ’30, grandi menzogna servite con precisione da metronomo: grazie ai mezzi di comunicazione onnipresenti, che potrebbero essere descritti oggi con le parole del procuratore di Norimberga “Prima di ogni grande aggressione, con alcune eccezioni opportunistiche, cominciavano una campagna stampa programmata per indebolire le loro vittime e preparare psicologicamente il popolo tedesco ... Nel sistema della propaganda ... la stampa quotidiana e la radio erano le armi più importanti”.
Ricordiamo la catastrofe in Libia. Nel 2011 Obama disse che il presidente libico Muhammar Gheddafi stava pianificando un “gonocidio” contro il suo stesso popolo. “Sappiamo .... che se aspetteremo un altro giorno Bengasi, una città delle dimensioni di Charlotte, potrebbe patire un massacro che si rifletterebbe in tutta la regione e macchierebbe la coscienza del mondo”.
Era la proverbiale menzogna sulle milizie islamiche, che in realtà stavano per essere sconfitte per mano delle forze governative libiche. Si trasformò nella storia prediletta dei mezzi di comunicazione; e la NATO – diretta da Obama e da Hillary Clinton – lanciò 9.700 “incursioni punitive” contro la Libia, delle quali un terzo diretto contro obiettivi civili. Vennero usate testate all’uranio; le città di Misurata e Sirte furono spianate. La Croce Rossa trovò fosse comuni, e l’UNICEF riportò che “la maggioranza (dei bambini morti) avevano meno di 10 anni”.
Sotto Obama, gli USA hanno esteso le operazioni delle “forze speciali” a 138 paesi, il 70% della popolazione mondiale. Il primo Presidente Afroamericano ha lanciato quella che equivale ad un’invasione su larga scala dell’Africa. Ricordando la Grande Divisione dell’Africa di fine XIX secolo, il Comando Africano USA (Africom) ha costruito una rete di richiedenti e supplicanti tra i regimi africani collaborazionisti, avidi di bustarelle e armi statunitensi. La dottrina “soldato a soldato” dell’Africom prevede ufficiali statunitensi ad ogni livello di comando, dal generalato all’ultimo furiere. Mancano solo i caschi coloniali.
E’ come se l’orgogliosa storia della liberazione africana, da Patrice Lumumba a Nelson Mandela, fosse stata destinata al diimenticatoio da una nuova élite dominante nera, la cui “missione storica” – come avvertiva Franz Fanon già mezzo secolo fa – è la promozione di “un capitalismo rampante anche se camuffato”.
E’ stato Obama, nel 2011, ad annunciare quello che ha finito per essere conosciuto come “la leva Asia”, per cui quasi due terzi delle forze navali statunitensi sono state trasferite nel Pacifico asiatico per “affrontare la Cina” (parole del suo segretario alla Difesa). Non c’era alcuna minaccia cinese: l’avventura era del tutto inutile. Era una provocazione estrema, per far felice il Pentagono e i suoi impazziti profittatori.
Nel 2014 l’amministrazione Obama ha diretto e finanziato un golpe eseguito da fascisti in Ucraina contro il governo democraticamente eletto, minacciando la Russia sulla frontiera occidentale dalla quale Hitler invase l’Unione Sovietica, con una perdita di 27 milioni di vite. E’ stato Obama a piazzare missili che puntavano sulla Russia nell’Europa dell’Est, ed è stato il vincitore del Premio Nobel per la Pace ad aumentare la spesa per le testate nucleari al livello più alto di qualsiasi altra amministrazione dalla Guerra Fredda (dopo aver promesso in un emozionato discorso a Praga di “aiutare a liberare il mondo dalle armi nucleari”).
Obama, il giuscostituzionalista, ha perseguitato più ‘infiltrati’ dell’informazione di qualsiasi altro presidente nella storia, nonostante la Costituzione statunitense li protegga espressamente.Ha dichiarato colpevole Chelsea Manning prima della fine di un processo che era una farsa. Ha rifiutato il perdono a Manning, che aveva patito anni di un trattamento disumano che l’ONU equipara alla tortura. Ha dato fiato ad una persecuzione giudiziaria falsa contro Julian Assange. Ha promesso di chiudere di concentramento di Guantànamo e non lo ha fatto.
Assecondando il disastro nelle relazioni pubbliche che era stato George W.Bush, Obama – il delicato operatore di Chicago via Harvard – si è dedicato a restaurare quello che chiama “leadership” su scala planetaria.La decisione del Comitato del Premio Nobel è stata parte di questo: il tipo di sdolcinato razzismo al contrario che ha beatificato l’uomo solo perchè era attraente per le sensibilità liberal-progressiste e, bisogna dirlo, per il potere nordamericano, non certo per i bambini crivellati nei paesi impoveriti, in maggioranza musulmani.
E’ questa la “Attrattività di Obama”. Non è molto diversa dal fischio canino: inudibile per la maggioranza, irresistibile per coloro che sono immersi nell’incanto e nell’imbecillità, e in paticolare per i “cervelli liberal-progressisti annegati nella formaldeide delle politiche di identità”, come ha detto Luciana Bohne (professoressa di Psicologia all’Università dela Pennsylvania, n.d.t.). “Quando Obama entra in sala” sottolineava George Clooney, “tu vuoi seguirlo, dappertutto”.
William I.Robinson, professore dell’Università dela California e membro di uno dei gruppi di pensiero strategico incontaminati, che hanno mantenuto la loro indipendenza durante gli anni dei fischietti canini seguiti all’11 Settembre, scriveva questa settimana:
“Può essere che il Presidente Barak Obama .... abbia contribuito più di chiunque altro alla vittoria di Trump. Nonostante l’elezione di Trump abbia dato fiato ad una rapida espansione delle correnti fasciste nella società civile statunitense, una deriva fascista del sistema politico è ben lontana dall’essere inevitabile.... ma il contrattacco ha bisogno di chiarezza nella diagnosi di come siamo arrivati al bordo di questo pericoloso precipizio. I semi del fascismo del secolo XXI sono stati piantati, fertilizzati e annaffiati dall’amministrazione Obama e dall’elite liberale politicamente sconfitta”.
Robinson segnala che “sia nella sua variante del XX secolo che nell’incipiente variante del secolo XXI il fascismo è, soprattutto, una risposta a profonde crisi strutturali del capitalismo, come quella degli anni ’30 e quella iniziata con la fusione finanziaria del 2008 ... C’è una linea quasi diretta che va da Obama a Trump ... Il rifiuto dell’élite liberale ad affrontre la rapacità del capitale multinazionale e il suo ricorrere alle politiche di identità è servito ad eclissare il linguaggio delle classi lavoratrici e popolari ... spingendo gli operai bianchi ad una “identità” di nazionalismo bianco e aiutando i neofascisti ad organizzarli”.
Il terreno di semina è la Repubblica di Weimar di Obama, un paesaggio di povertà endemica, politica militarizzata e carceri barbare: la conseguenza di un estremismo di “mercato” che, sotto la sua presidenza, spinse al trasferimento di 14 bilioni di dollari di denaro pubblico alle imprese criminali di Wall Street.
Forse la sua più grande eredità è la cooptazione e il disorientamento di qualsiasi opposizione reale. L’ingannevole “rivoluzione “ di Bernie Sanders rimane al margine. La propaganda è il suo trionfo.
Le menzogne sulla Russia – nelle cui elezioni gli USA sono spesso intervenuti – hanno trasformato in pagliacci la maggioranza dei giornalisti autoproclamatisi i più importanti del mondo. Nel paese che gode costituzionalmente della stampa più libera del mondo, il giornalismo libero sopravvive solo grazie ad onorevoli eccezioni.
L’ossessione su Trump è una copertura per molta della sedicente “sinistra liberale”: una proclamazione di decenza poplitica. Non sono “di sinistra” e neanche particolarmente “liberali”.Buona parte dell’aggressione nordamericana al resto dell’umanità è venuta da amministrazioni Democratiche autoproclamatesi liberal-progressiste: come quella di Obama. Il ventaglio politico nordamericano va dal mitico centro fino alla destra lunatica. La “sinistra” è fatta da rinnegati senza tetto, che Martha Gellhorn descriveva ai suoi tempi come “una fraternità così strana quanto assolutamente ammirevole”. Esclusi quelli che confondono la politica con l’autofissazione sul proprio ombelico.
Mi domando se, mentre “guariscono” e “avanzano”, i portavoce di Writers Resist ed altri anti-Trump riflettono su questo. O, più appropriatamente: quando sorgerà un genuino movimento politico di oposizione? Arrabbiato, eloquente, tutti per uno e uno per tutti.
Finchè la politica reale non tornerà nella vita della gente, il nemico non è Trump, siamo noi.
(*) Giornalista, scrittore e documentarista australiano, è stato corrispondente di guerra in Vietnam, Cambogia, India, Egitto e Biafra.
(traduzione di Daniela Trollio da: lahaine.org; 25.1.2017
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via magenta 88, Sesto S.Giovanni)
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