FAME E GUERRA

 

L’Arabia Saudita, come i nazisti, usa la fame come arma contro gli yemeniti

 

di Belèn Fernàndez (*)

 

L’Arabia Saudita, il mese scorso, ha ampliato il suo repertorio di pagliacciate concedendo la cittadinanza ad un robot di nome Sofia; una misura che, a quanto pare, pretendeva di aumentare la verniciatura di modernità e progresso che le tiranniche autorità saudite si sforzano di mantenere.

 

In una recente intervista con il Khaleej Times, un giornale saudita, il robot Sofia speculava con l’idea che “sarebbe possibile fabbricare dei robots più etici degli umani” e che ci sono solo due opzioni per il futuro: “O ci muove la creatività e inventiamo macchine che riescano a raggiungere una super-intelligenza trascendentale, o la civiltà crolla”.

 

D’accordo … ma molti membri della popolazione mondiale stanno attualmente lottando con problemi molto più prosaici, tipo cercare di sopravvivere sotto il blocco ed i bombardamenti diretti dall’Arabia Saudita, come succede nel vicino Yemen. Lì potremmo perdonare il fatto che i suoi abitanti abbiano già dato per certo che la civiltà è ormai collassata.

 

Carestia imminente

 

Dimenticatevi della pioggia di creatività: invece i sauditi ed i loro soci criminali hanno già fatto cadere tutta la distruzione possibile sullo Yemen, oltre a favorire un’imminente carestia. Fondamentale in tutto questo sforzo di guerra è stato il ruolo degli Emirati Arabi Uniti, un territorio che in maniera simile cerca di nascondere la sua essenza brutale dietro una facciata di moderno sviluppo a base di edifici di pregio e centri commerciali con piste da sci.

 

Altri contributi guerrafondai provengono da territori molto più lontani. La rivista New Yorker segnala che “le forze armate saudite, spalleggiate da più di 40.000 milioni di dollari di spedizioni statunitensi di armi autorizzate sia dall’amministrazione di Obama che da quella di Bush, hanno assassinato migliaia di civili negli attacchi aerei lanciati sullo Yemen”. Naturalmente gli USA sono anche responsabili di un bel mucchio di atrocità stile “fatevelo da voi”, compresi gli attacchi con i droni sulle feste di nozze yemenite.

 

Ma torniamo alla fame, visto che – dopotutto - niente parla tanto di modernità e progresso come provocare un’inedia di massa. Considerate, ad esempio, le parole dell’esperto militare romano del secolo IV, Vegezio, che era chiaramente avanzato già diciassette secoli fa: “E’ preferibile sottomettere un nemico per mezzo della fame , di incursioni e di terrore che per mezzo di una battaglia dove la sorte tende ad influire più del coraggio”. 

 

Emulando i nazisti: la fame come arma di guerra

 

Le epoche belliche più recenti hanno visto anch’esse come la fame venisse brandita come un’arma. In un saggio del giugno 2917 per la London Review of Books intitolato “I nazisti la utilizzarono, noi la utilizziamo”, Alex de Wall cataloga l’utilizzazione dell’inedia come “uno strumento efficace di assassinio di massa” nella 2° Guerra Mondiale. Anche se la “inedia forzosa” fu, naturalmente, “uno degli strumenti dell’Olocausto”, i nazisti avevano ideato anche un “piano fame” per diverse zone dell’Unione Sovietica, secondo i piani agro-territoriali tedeschi.

 

(Curiosamente anche al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman piace a volte parlare dei nazisti, come quando disse a Thomas Friedman, specialista degli esteri del New York Times che il leader supremo dell’Iran, Alì Kamenei, è “il nuovo Hitler del Medio Oriente” e che “non vogliamo che il nuovo Hitler dell’Iran ripeta in Medio Oriente ciò che successe in Europa”).

 

Intanto i nazisti non furono gli unici che approfittarono della fame nel secolo XX. De Waal scrive che “circa 750.000 civili tedeschi morirono di fame”, cortesia del blocco britannico della Germania durante la 1° Guerra Mondiale, e che “il nome scelto per il minamento aereo dei porti giapponesi nel 1945 da parte della Forza Aerea degli Stati Uniti fu “Operazione Inedia”.

 

Quanto ad esempi più contemporanei di privazione per le popolazioni civili delle materie necessarie alla loro sopravvivenza, mi vengono in mente le sanzioni dell’ONU contro l’Iraq dei primi anni del decennio 1990, così come la risposta che nel 1996 diede l’allora ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Madeleine Albright, quando le chiesero cosa pensava del fatto che mezzo milione di bambini iracheni fossero morti a causa di quelle sanzioni: “Pensiamo che il prezzo sia valso la pena”.

 

Non tutto il mondo era d’accordo, come apparve chiaro in un articolo del New York Times del dicembre 1995 su un rapporto compilato da due scienziati che vivevano negli USA per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). Il rapporto esaminava l’impatto delle sanzioni, ad esempio l’aumento drastico del numero di bambini iracheni “colpiti da ‘consunzione’ o magrezza estrema che avevano bisogno di cure urgenti”. L’articolo del Times citava gli autori del rapporto che affermavano: ”Il braccio umanitario delle Nazioni Unite offre palliativi per alleviare le sofferenze mentre il suo Consiglio di Sicurezza continua a cercare di prolungare le sanzioni”.

 

Quando il giornalismo si trasforma in un’arma

 

Proseguiamo verso il 2017 e incontriamo le ‘avvertenze urgenti’ dell’ONU sull’imminenza di una carestia catastrofica che colpisce milioni di esseri umani in Yemen, e uno non può evitare di sospettare che, probabilmente, Sofia ha ragione quanto all’etica superiore dei robots.

 

E proprio quando sembrava che il panorama non potesse essere più fosco, la Coalizione contro il Terrorismo Islamico, guidata dai sauditi – un’alleanza di 40 paesi – ha scovato, a quanto pare, un’opportunità d’oro nel letale attacco di venerdì scorso contro una moschea egiziana.

 

La Reuter ci informa che, in una riunione avvenuta domenica a Riad tra i responsabili della difesa della Coalizione per “galvanizzare” l’entità antiterroristica, il principe erede Mohammed bin Salman ha annunciato che l’attacco in Egitto era “un fatto molto doloroso” e che “la più grande minaccia del terrorismo e dell’estremismo non è solo l’uccisione di persone innocenti e la propagazione dell’odio, ma macchiare la reputazione della nostra religione e distorcere le nostre credenze”.

 

Queste definizioni mi sembrano corrette, ma forse sarebbero più autentiche se non venissero da qualcuno che in questo momento sta terrorizzando lo Yemen.

 

Fortunatamente per sauditi & company, la complicità degli USA in attività criminali è sufficientemente assicurata finchè le entrate del petrolio saudita – senza parlare di altri contributi al caos regionale – continuano, traducendosi in bigliettoni verdi per l’industria degli armamenti statunitense.

 

Intanto qui ci sono, grazie all’aiuto dell’establishment politico statunitense, certi media ossequiosi che si danno da fare presentando i reali sauditi come pionieri innovatori e di mentalità riformista.

 

In una lunga esposizione della sua esclusiva intervista con Mohammed bin Salman, il sopra indicato Friedman fa un’unica menzione dello Yemen, che riduce a “incubo umanitario”, invece che risultato diretto del lavoro di quegli esseri umani che egli sta “ripulendo”. Naturalmente si tratta dello stesso Friedman che una volta affermò che “il problema con l’Arabia Saudita non è che abbia poca democrazia. E’ che ne ha troppa”. Tra le sue molte prodezze, c’è la prescrizione di una “nuova regola generale”, dopo che aveva masticato qat  (un allucinogeno diffuso in Africa e penisola arabica, n.d.t.) nella capitale yemenita nel 2010: “Per ogni missile Predator che lanciamo qui contro un obiettivo di al-Qaeda, aiuteremo lo Yemen a costruire 50 scuole nuove e moderne”.

 

Purtroppo il giornalismo armato non sembra essere passato di moda. E mentre lo Yemen già si prepara per la carestia del XXI secolo, anche la carestia etica sta spianando il terreno. 

 

 

(*) Saggista e scrittrice statunitense, tiene un blog su TeleSUR in inglese; da: rebelion.org 1.12.2017.

  

(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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