Qualche riflessione sull’8 marzo
E adesso?
di Daniela Trollio (*)
Un altro 8 marzo è passato. E’ stato caratterizzato da “scioperi”, anzi per meglio dire da manifestazioni, in tutto il mondo. L’azione più incisiva l’hanno fatta in Brasile 800 donne del Movimento Sin Tierra occupando la stamperia del gruppo editoriale Globo, il più grande dell’America Latina. La protesta è stata diretta contro il governo e i suoi provvedimenti anti-lavoratori, contro la stampa asservita e contro l’utilizzo dell’esercito in città come Rio de Janeiro.
Sembrano rivendicazioni un po’ poco femministe. Ma non è così, per varie ragioni.
La principale è molto semplice: va bene l’8 marzo, ma c’è un prima e un dopo - altri 364 giorni - in cui continuiamo a vivere la nostra vita di sfruttate e di oppresse. Un intero anno in cui dovremo lottare, a quanto pare non più come – genericamente - “donne” ma come parte di quell’immensa maggioranza che sono i proletari, i lavoratori; un anno in cui ci troveremo davanti, tutti i giorni, i nemici di cui sopra.
Parole
E qui veniamo ad una parola d’ordine “storica” e centrale del femminismo nordamericano ed europeo : “il corpo è mio e lo gestisco io”. Bellissima parola d’ordine che sottoscrivo come desiderio, ma il corpo delle donne non esiste in un luogo senza spazio e senza tempo, ma nella realtà nuda e cruda di ieri, di oggi, di domani. Se è vero che il corpo è “mio”, chi lo gestisce sono altri. Se devo lavorare per vivere, il mio corpo sarà gestito dai miei padroni, che stabiliranno il suo valore, l’uso del suo tempo, la sua utilità.
In altre parole stiamo parlando di salario, orario di lavoro, licenziamenti. Temi per nulla solo “femministi”, che accomunano invece l’intero mondo dei lavoratori, la classe dei proletari, escludendo invece, paradossalmente, quella porzione di donne che di questo mondo non fa parte.
Dimostrazione: per gli operai del gruppo Marcegaglia, per fare un piccolo esempio, è forse cambiato qualcosa quando Emma ha sostituito il padre alla guida dell’azienda? SI (si fa per dire): chiusura di alcuni stabilimenti con relativi licenziamenti, lotta spietata alla sindacalizzazione, operai costretti a trasferirsi in altre regioni con buona pace dell’unità della famiglia, tanto sbandierata come principio cristiano ma che i padroni si mettono sotto i piedi nella realtà di ogni giorno.
“Femminicidio” è un’altra parola che leggiamo, purtroppo tutti i giorni sui giornali. Ma non quando a morire sono le operaie e le lavoratrici perché allora, come per i loro compagni maschi, questo sacrificio è “normale” nella corsa al progresso.
Dal 1973 ad oggi nella città messicana di Ciudad Juarez, almeno una donna sparisce ogni settimana, per venire poi ritrovata barbaramente torturata e uccisa (470 omicidi e 600 sparizioni circa). La città è stata definita la “capitale dei crimini contro le donne”. Tutte le donne uccise erano povere e la stragrande maggioranza lavorava come operaia nelle maquiladores – industria principale di Ciudad Juarez – fabbriche di proprietà di multinazionali dove si assemblano prodotti per l’esportazione in regime di esenzione fiscale, con un salario medio di 4 dollari per 10 ore di lavoro, condizioni di lavoro fondamentali perché questo tipo di rapporto di produzione, dove la mano d’opera è per il 99% donna, generi il massimo del profitto. Traetene voi le conclusioni.
Oggi il tratto distintivo delle nostre società in tutto il mondo è la violenza: le guerre, il militarismo, il neo-colonialismo. Violenza senza più maschere per riprodurre capitale e profitto. C’è quindi da stupirsi se questa violenza si esercita in primis sui soggetti più “deboli” e che tali devono restare perché sono la maggioranza? Esempio: nel decennio 1970 in Bolivia l’avanguardia del movimento che rovescia la sanguinaria dittatura di Hugo Banzer sono le donne indigene di El Alto che lavorano in miniera. E, per venire ad oggi, pensiamo alla giovanissima palestinese Ahed Tamimi che schiaffeggia un soldato israeliano e finisce in carcere con 18 capi di accusa e rischia 10 anni di carcere, o alla italiana Lavinia Cassaro, la maestra che ha insultato i poliziotti che difendevano i nazisti di CasaPound a Torino pochi giorni fa, per cui si invoca il licenziamento e che sta subendo un enorme, inedito, linciaggio mediatico (senza che alcuna voce “femminista” si sia levata a protestare). Sono donne che lottano, che non chinano la testa e possono trasformarsi in un pericolosissimo esempio. Anche perchè le donne rappresentano, nel mondo, il 49% della forza lavoro e, dei 1.500 milioni di persone che vivono nella miseria assoluta, il 70% sono – per l’appunto - donne.
Patriarcato... o capitalismo?
Si attribuisce la causa del femminicidio alla mentalità distorta maschile, al “patriarcato”. Ma cos’è oggi il patriarcato? E’ un prodotto storico che il capitalismo ha “sussunto” (parola ostica che potremmo sostituire con “assumere”) come ha fatto con altre forme economiche e culturali.
Non è possibile pensare al patriarcato come ad una struttura autonoma dal capitalismo. Il capitalismo, in questo caso, ne fa un duplice uso: la mercificazione (meglio sarebbe dire “cosificazione”, il rendere tutto “cosa”) e la gerarchia.
L’operaio, e l’operaia, sono diventati merce e le merci sono interscambiabili, si usano, si consumano, si gettano. La merce che acquisto è “cosa mia” e così veniamo al corollario orribile di molti “femminicidi”: l’uccisione dei figli, anch’essi cose, proprietà private e non esseri umani.
La gerarchia è necessaria al capitalismo per il mantenimento di un sistema di privilegio e di esclusione. Ci dicono che è un processo naturale: c’è il padrone e c’è l’operaio; ci sono i paesi sottosviluppati e quelli sviluppati, i ricchi e i poveri. E i morti sul lavoro, siano essi uomini o donne, sono un corollario certo doloroso ma inevitabile. E’ sempre stato così e non può essere altrimenti.
La lotta delle donne – sfruttate e oppresse – dimostra invece che in tutto questo non c’è nulla di naturale né di eterno, svela la carica di violenza dei rapporti di produzione e di riproduzione e la possibilità concreta di distruggerli per costruire un mondo diverso.
Cosa viene prima?
Lottiamo prima contro il capitalismo e poi per la liberazione delle donne o viceversa?
E’ un vecchio dibattito, avvenuto decenni fa non solo nel nostro paese: negli Stati Uniti ha portato femministe “storiche” a teorizzare sia la lotta “totale” contro gli uomini sia il ritorno a casa da “regine” delle donne. Triste fine del femminismo borghese.
Le due cose non possono andare distinte; è impossibile lottare contro lo sfruttamento capitalista e la sottomissione dei popoli del mondo senza contare sulla lotta delle sfruttate e delle oppresse, così come è impossibile ottenere la liberazione delle donne – sfruttate e oppresse, è importante ripeterlo perché le “femministe” borghesi possono sì voler cambiare la sovrastruttura ma non certo la struttura, di cui sono parte integrante – senza abbattere quel sistema che genera il loro sfruttamento e la loro oppressione.
E’ un errore che abbiamo già fatto, non ripetiamolo.
E quindi, anche per quello che riguarda la liberazione delle donne, abbiamo bisogno degli stessi strumenti che servono alla liberazione del proletariato, di cui siamo parte integrante: lotta e organizzazione.
Diceva Assata Shakur, la rivoluzionaria afroamericana ex membro delle Pantere Nere: “Difendo l’autodeterminazione del mio popolo e di tutti i popoli oppressi...Mi batto per la fine dello sfruttamento capitalista, per l’abolizione delle politiche razziste, lo sradicamento del sessismo e l’eliminazione della repressione politica. Se questo è un crimine, sono assolutamente colpevole”.
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto San Giovanni (Mi)
mail: cip.mi@tiscali.it Web: ciptagarelli.jimdo.com
Anteprima della rivista comunista nuova unità