Il compagno Bepo con cui abbiamo combattuto tante battaglie ci ha lasciato a 63 anni (nella foto).
Giovedì 30 abbiamo salutato Bepo all’obitorio dell’ospedale di Castelfranco Veneto.
Oltre a noi, una decina, c’erano parecchie persone. La loro età era piuttosto avanzata, ma abbiamo visto anche bambini e giovani. Persone che non conoscevamo, molti di Castel di Godego, il suo paese, parenti, amici….
Il nostro obiettivo era di salutarlo nel modo migliore, da compagni, mettendo una bandiera rossa con falce e martello sulla bara, dedicandogli un breve ricordo. Ma avrebbe capito quella gente cosa intendevamo, o meglio chi era Bepo per noi? Dovevamo spiegarlo.
Proprio quella bandiera poteva aiutarci a spiegare: quei simboli, falce e martello, a rappresentare il riscatto operaio dalla fatica e dallo sfruttamento sul lavoro. Lui con quei simboli aveva molto a che fare.
Da quando lo abbiamo conosciuto, all’inizio degli ’80, qualcuno di noi, da subito, lo battezzò: era Bepo “l’operaio”. Niente da dire, un soggetto difficile, del quale si narravano le epiche gesta di pugni e sbronze. Se I primi, potenzialmente letali, diventavano ricordo, le seconde erano attualissime e frequenti. Beveva, e avrebbe sempre bevuto. Ma questo è un tema che riprenderemo.
Di mestiere faceva il tubista: una specie di idraulico, saldatore per grandi impianti industriali, con un curriculum di tutto rispetto. Il Superphenix, di Cray-Melville, in Francia, la centrale più potente dell’epoca, e le centrali, pure nucleari, di Montalto di Castro e Caorso, il petrolchimico di Marghera, raffinerie di mezzo mondo, nelle sue amate Russie, come nei Paesi Arabi, in Libia, com’era capitato, a mettere in sicurezza i pozzi di estrazione del petrolio, poco prima dei bombardamenti Nato, o dove capitava. Lo si vedeva poco, era spesso all’estero.
Negli intervalli tra questi lavori, era sempre con noi; alla Riva, l’osteria, ritrovo dell’epoca, e poi allo Stella Rossa, il centro sociale occupato, e soprattutto davanti ai tribunali a difendere la causa degli operai morti di cromo esavalente alla Tricom (non mancò ad una sola udienza), e nelle manifestazioni, quelle che lui sentiva come sue, quelle operaie, con i compagni di Sesto, i nostri compagni, come gli piaceva dire, ma anche antifasciste, lui che andava giustamente fiero del babbo, con quelli di Masaccio, il capo partigiano.
Questo della lotta partigiana era un altro dei suoi marchi di fabbrica, che curò negli anni, attraverso una lettura assidua di testi storici sulla Resistenza, soprattutto locale, che si sciroppava senza paura per lo spessore in cm del testo.
Insomma, operaio e antifascista. Due circostanze di base per la sua immedesimazione nella classe, quella operaia e storica, fosse a Reggio Emilia o a Sesto S. Giovanni. L’istinto proletario e antifascista innato e l’amore per i suoi simboli, il rosso della Bandiera e dell’URSS, formavano il suo comunismo.
Niente di teorico o di spessore politico, come si dice, no, ma tutto cuore ed esperienza vissuta. Quella del lavoro nei cantieri, a saldare e sudare. Con sempre più evidenti i segni di quel lavoro e dell’usura che comportava e dell’alcol col quale sosteneva quella fatica, che era anche fatica di vivere.
Ora ci dicono che la classe operaia non c’è più. Siamo nell’epoca del digitale, dobbiamo aggiornarci, insistono. Saremo tutti imprenditori di noi stessi, e giù a parlare di lavoro e lavoro e lavoro. Ma di lavoratori mai. Sembra che il lavoro si produca da solo, che le merci appaiano all’improvviso e misteriosamente nelle nostre case. Ciò che ha valore è la merce, non chi la produce, la cui attività non ha alcun significato. Il senso del lavoro, dicono, lo trova solo il padrone, che non a caso si chiama anche datore di lavoro. I lavoratori in quanto tali sono fantasmi che possono apparire solo per svolgere la loro funzione, il lavoro.
Bella roba! E come si traduce? Semplice: l’unico diritto riconosciuto è quello al profitto, del padrone. Gli operai, i lavoratori, la forza-lavoro può anche schiattare ed infatti è quello che succede sempre più spesso. Non altrove, da qualche parte nei paesi del terzo mondo. No, qui, in questa terra che scompare sommersa dal cemento a livelli da primato. Dove le condizioni del lavoro generano infortuni e malattie professionali, morti sul lavoro, in quantità record. E niente e nessuno ci potrà distogliere dall'idea, dal chiodo fisso che Bepo sia stato uno di loro e che ne fosse perfettamente cosciente. Certo di malattie ne aveva, l’usura lo aveva consumato. I padroni lo prosciugavano di energie, lui compensava col rosso. Si tirava dietro la sua cirrosi, come le gambe sempre più stanche. Però, alla fine, ad ammazzarlo è stato un tumore ai polmoni: preso come? dove? quando?
Non era un fumatore, circostanza che i padroni agitano per dimostrare la loro innocenza, quando sono chiamati in giudizio, ogni qualvolta degli operai muoiono di amianto, cromo esavalente, cvm. O schiacciati da una pressa. Niente ci impedisce di credere e di dire che lui è morto di malattia professionale, contratta nel luogo di lavoro, come tanti suoi colleghi che l’hanno preceduto, una malattia che non farà testo, che non rientrerà nella casistica nazionale, come per tanti altri operai. Si sa, i padroni, gli imprenditori, i datori di lavoro o come vogliamo chiamarli, non sono mai responsabili e, se lo sono, dura poco, basta aspettare la prescrizione. Questa è la legge ferrea dei nostri tribunali.
Ecco, a noi bastava dire questo, cogliere anche questa occasione per la nostra denuncia contro il sistema capitalista, il potere dei padroni, corrotti e assassini, nocivi allo stesso modo per gli uomini e l’ambiente. Lui sarebbe stato sicuramente d’accordo.
Dopo di noi hanno parlato due signore, una barista e sua cugina, che lo conoscevano bene. Ne hanno parlato come di una persona buona e mite, premurosa e amica, che mai aveva dato loro un qualsiasi problema. Ne hanno parlato in modo semplice e diretto, ci siamo sentiti in sintonia e i dubbi che avevamo nutrito all’inizio per la possibile incomprensione delle nostre parole si sono sciolti. Eravamo a casa.
Ciao compagno. Ci mancheranno il tuo baffo cattivo e i tuoi racconti di cantiere e di officina. Il tuo repertorio di battute glaciali non ci mancherà, no, quello lo portiamo inciso nella corteccia cerebrale, resterà nei secoli. Ci conforta la certezza di essere riusciti a farti bere, almeno un’unica volta, un bicchiere di acqua minerale.
Compagne e compagni di Bassano
2 settembre 2018