Un 9 ottobre vollero uccidere il Che e lo resero immortale.
In un giorno come oggi dell’anno 1967, la CIA e diversi soldati boliviani uccisero il Che. Ignoravano le ripercussioni che avrebbe avuto nel mondo il suo assassinio e che decine di migliaia di persone appartenenti alle generazioni future avrebbero visto nel “comandante eroico” un esempio di vita e di lotta.. (da: lahaine.org)
Agano, il soldato n. 37 del Che Guevara in Congo
di Wilkie Delgado Correa (*); da: lahaine.org; 8.10.2018 (estratto)
Oggi ha 80 anni e viene da un paesino rurale chiamato La Fama nel municipio di San Luìs, a Santiago di Cuba. Ora vive in un modesto appartamentino con sua moglie. Mi guarda e sorride come se occhi e denti fossero stelle nel suo viso. E di fronte alle domande affastellate per risvegliargli i ricordi, racconta con netta precisione e con dettagli le pietre miliari di una storia personale che fa parte di una storia più grande, appartenente alla lotta di liberazione dei popoli dell’Africa, in particolare del Congo.
E’ stato uno dei combattenti della guerriglia del Che in appoggio al movimento rivoluzionario congolese.
Al trionfo della rivoluzione il giovane contadino, nato il 22 luglio 1938, si unì alle milizie nazionali rivoluzionarie e cominciò la preparazione fisica e militare in condizioni difficili. Presto venne inserito nelle file dell’Esercito Ribelle che si organizzava in quei primi anni della Rivoluzione.
Fu così che accettò volontariamente, insieme ad altri quattro compagni della Divisione 50 a cui apparteneva, di compiere una missione di cui non conosceva allora lo scopo. Fu inviato, per una preparazione militare intensiva, in un luogo montagnoso della provincia di Pinar del Rio, la più occidentale del paese. Là si accorsero di quello che qualcuno, per scherzo, diceva: mai avevano visto tanti neri insieme.
Ricorda che Fidel fece loro visita in tre occasioni, e nell’ultima chiese loro discrezione e diede l’autorizzazione a visitare le loro famiglie, residenti in tutti i punti della geografia di Cuba. Più tardi, dopo quelle 72 ore per congedarsi dalle famiglie, tornarono all’Avana per l’addio finale. Come d’abitudine, Fidel li salutò nella stessa casa dove stavano quegli 8 uomini – in maggioranza della provincia di Oriente – che formavano il suo gruppo.
Poi ci sarebbe stato il trasferimento all’aeroporto dell’Avana e finalmente il lungo viaggio verso Mosca, Praga, Il Cairo, Nairobi e Dar-es-Salam. Nel suo racconto accenna all’impressionante Kilimangaro.
Arrivano finalmente a Kigoma e attraversano il lago di notte verso il terriorio congolese; sbarcano e risalgono la ripida altura dove si trova l’accampamento centrale e lì li accoglie, con parole commoventi il Che, che parla loro dell’importanza della missione, che sarebbe stata difficile e avrebbe potuto durare anni.
Là svolsero i diversi compiti della guerriglia. Lavori di sussistenza, preparazione difensiva, addestramento delle truppe angolane, cura delle ferite fisiche e sentimentali, la nostalgia, gli incidenti e accidenti della guerra... insomma, l’adattamento ad un luogo geografico e umano in terra straniera, ma condiviso e assunto come fratello per un ideale ed una solidarietà senza frontiere.
Agano ricorda ancora un incidente, l’incendio di una capanna causato dalla sua scatola di fiammiferi. Il fatto era di tale gravità che il Che lo sanzionò severamente. Poco dopo, forse analizzando le circostanze, il Che gliene regalò una nuova per risarcirlo della perdita.
E il tempo passò, con tutti gli incidenti, accadimenti, contraddizioni, sfide, scoramenti, problemi e audacie tipiche della vita guerrigliera.
Le circostanze della politica internazionale africana determinarono la fine della missione internazionalista guidata dal Che, che era rimasto in Congo dal 24 aprile fino all’alba di domenica 21 novembre 1965.
Nel viaggio di ritorno sul lago il gruppo di internazionalisti viaggiava su due imbarcazioni. In una di queste si può vedere Agano in una foto, in piedi in mezzo al gruppo, in quell’attimo in cui si mescolavano allegria e tristezza. In quel momento, alle 7 del mattino e vicino alla sponda di Kigoma, il Che li informa che devono separarsi e dice qualcos’altro:
“Questa lotta che abbiamo combattuto è stata una grande esperienza. Spero che, se un giorno Fidel vi proporrà un’altra missione di questo tipo, alcuni sappiano rispondere ‘presente’. Si è rivoluzionari solo quando si è disposti a lasciare ogni comodità per andare a lottare in un altro paese. Magari ci rivedremo a Cuba o in un’altra parte del mondo”.
Nel suo diario su quest’esperienza del Congo, il Che fece un riassunto delle sue valutazioni sui componenti della truppa. Scrisse:
“Vorrei scrivere qui i nomi di quei compagni sui quali ho sempre sentito che mi potevo appoggiare, per le loro condizioni personali, la loro fede nella rivoluzione e la decisione di compiere il loro dovere succeda quel che succeda.... Ci sono stati sicuramente altri compagnia di questa categoria ma non ho avuto un contatto intimo con loro e non posso precisarlo. E’ una lista incompleta, personale, molto determinata da fattori soggettivi; che quelli che non ci sono mi perdonino e pensino che erano della stessa categoria ...”
Questi sono gli 11 nomi che iniziano la lista: : Moja, Mbiti, Pombo, Azi, Mafin, Tumaini, Ishirini, Tiza, Alau, Aziri, Agano.
Agano non incontrò più il Che. Mesi dopo il suo ritorno a Cuba si trovava alla scuola militare. Arrivarono due persone, chiedendo di due compagni presenti in aula che avevano accompagnato il Che in Congo. Dopo un periodo di addestramento, essi raggiunsero dopo un viaggio di 52 giorni Zanzibar per una missione di collaborazione che durò un anno e mezzo.
E un giorno, in quel luogo remoto a 13.514 chilometri dall’Avana, giunse la notizia della morte del Che in Bolivia il 9 ottobre 1967. Così il dolore raggiunse anche Arquìmedes Martìnez Sauquet, il soldato n. 37, che il suo capo aveva battezzato col vocabolo swaili di Agano, che significa “Patto”. Agano ricordò le parole del Che e pensò di aver realizzato l’esortazione del Che Guevara.
Così, mentre stava per piovere, abbiamo concluso la nostra conversazione. Mentre Arquìmedes apriva la porta io lo vedevo grande con i suoi 96 chili per un metro e ottanta, i suoi capelli bianchi e i suoi 80 anni. Ma lo sentivo molto più grande. Perchè gli uomini possono diventare più grandi nell’ora delle definizioni e delle prove che capitano in modo naturale durante certi fatti storici. E sia i personaggi celebri che quelli comuni coincidono, si fondono, diventano protagonisti e formano una massa popolare trascendente, immersi in un alone di grandezza che gli ha conferito la vita, le esperienze e gli ideali condivisi.
(*) Scrittore e giornalista cubano
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)