Gli uragani e la lotta di classe
di Renàn Vega Cantor (*); da: lahaine.org; 20.10.2018
Gli ultimi uragani avvenuti negli USA hanno lasciato morte e desolazione in alcune regioni di quel paese e, come se si trattasse di una norma di tipo sociologico, i morti, i feriti e i danneggiati sono i più poveri e i più indifesi, gran parte di essi afroamericani.
La menzogna dei “disastri naturali”
Sui mezzi di disinformazione, così come in alcuni circoli accademici, si è soliti parlare di “disastri naturali” per catalogare inondazioni, terremoti, incendi, siccità, uragani, tifoni, tornadi e fenomeni similari. Che sono già quotidiani in qualche luogo del mondo.
Il termine, del tutto fortuito, impiegato tout court, genera l’impressione che le forze della natura non attacchino in modo ‘traditore’ come se la società capitalista in cui viviamo, nel suo accanimento incontrollabile di produzione, consumo e profitto, non fosse implicata nello scatenarsi di tali “catastrofi naturali”. Oggi è eccezionale che esistano disastri naturali (salvo qualche eruzione vulcanica o certi terremoti), per cui dovremmo parlare di catastrofi sociali, motivate principalmente dal disastro climatico in corso.
E’ questo il caso degli uragani, che sono diventati più frequenti, potenti e distruttori per il riscaldamento della superficie dell’oceano Atlantico, prodotto dall’emissione di gas serra, tra cui il diossido di carbonio e il metano.
Quando questi uragani arrivano a zone abitate, causano grandi distruzioni fisiche e umane, perché i più colpiti sono i poveri.
Né la tecnologia moderna, né l’avanzamento nello studio degli uragani, né l’avere a disposizione apparati che misurano la forza dei venti, né il fatto che si sappia che si avvicinano, né il possedere auto più veloci .... niente impedisce l’impatto distruttore degli uragani in USA, come dimostrano i fatti degli ultimi anni, confermati dall’impatto di Florence.
Uragani di classe
I disordini climatici non possono essere attribuiti a tutta l’umanità, perché questo significa negare che in ogni paese la società è attraversata da molteplici meccanismi di divisione e segmentazione, tra cui quelli di classe, di genere, di “razza”.
Considerando queste divisioni, tra le quali emerge quella di classe (presentata in forma schematica come esistenza di una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri), i cambiamenti climatici sono stati generati a livello mondiale da certi paesi (alla testa dei quali si trovano gli USA) e dai settori più opulenti e ricchi del mondo.
Questi hanno reso dominante un modo di produzione, di consumo e persino di morte come è il capitalismo, del quale godono ma di cui, finora, non pagano per le conseguenze climatiche e ambientali del loro modo di vita.
Coloro che sopportano in modo diretto le peggiori conseguenze del disastro climatico e ambientale sono i poveri, i lavoratori, gli umili, perché essi vivono in condizioni di povertà o di miseria, spesso senza le cose elementari per affrontare contingenze come quelle rappresentate da un uragano.
Negli USA, corrosi dall’individualismo che si sostiene nel possesso dell’automobile individuale, avviene una tragicomica situazione: le auto, il cui uso riscalda il pianeta, vengono utilizzate massicciamente per fuggire dagli uragani, che sono generati dall’uso dell’automobile.
E’ delirante che, mentre viene annunciato l’arrivo di un uragano, code interminabili di auto fuggano dal disastro che si avvicina. Quelli che fuggono sono coloro che possiedono un’auto, denaro per fronteggiare la crisi e pagare un hotel se è necessario, famigliari da cui andare in altri stati dell’Unione americana ... Ma quelli che non hanno denaro devono restare a sopportare l’impatto distruttore degli uragani nelle loro fragili abitazioni, nei caravan, nei precari ricoveri pubblici.
Per queste ragioni si può parlare di uragani di classe, nella stessa maniera in cui ci sono terremoti di classe, siccità di classe, incendi di classe... La definizione non è artificiale, ma risponde chiaramente ad un comportamento e a delle conseguenze che sono segnate dall’appartenenza di classe e dagli interessi di classe.
Ai ricchi e agli abitanti della classe media ciò che importa è fuggire, come negandosi a sentire nella propria carne le conseguenze dei propri atti e del proprio modo di vita, e ai poveri rimane solo l’aspettare nel cuore della tormenta, raccomandandosi ai propri dei e santi per vedere se stavolta ne usciranno vivi, perché lo Stato ha abbandonato qualsiasi azione di protezione e solidarietà nella misura in cui esso agisce solo per garantire la proprietà e gli interessi del capitale.
Ad esempio in Carolina, durante il passaggio di Florence, i carcerati sono stati lasciati nelle loro celle, condannati al loro fato che poteva implicare il fatto che affogassero, perché i carcerieri si sono rifiutati di spostarli.
In pieno uragano, come successe per Katrina, nel paese arrivano le forze repressive dello Stato per evitare i saccheggi e la ricerca di cibo, vestiti, coperte e altri elementi indispensabili per la vita che i danneggiati dall’uragano possano fare, danneggiati che sono gli stessi danneggiati sociali, i perdenti della lotta di clase che ora devono affrontare i colpi delle forze della natura, condizionate dagli interessi di pochi.
Quale prova della criminalità ambientale, in Carolina sono tracimati dai depositi litri e litri di residui di ceneri di carbone e concime, un fetido minestrone chimico, che si sono rovesciati velocemente e incontrollabilmente per le strade dei quartieri delle comunità povere e nere.
Questo è ciò che si può catalogare come razzismo ambientale e di classe.
Dopo il passaggio degli uragani, i luoghi restano devastati, le infrastrutture distrutte e aumenta la povertà, il che crea le condizioni perché – come espressione della lotta di classe – aumentino le condizioni di sfruttamento dei lavoratori locali e dei migranti, si chiudano scuole ed ospedali pubblici e aumentino i servizi privati, come successe in Louisiana dopo il passaggio dell’uragano Katrina nel 2005.
Insomma, agli uragani naturali si aggiunge l’uragano della povertà e della disuguaglianza, prodotto di quella peste che si chiama capitalismo.
(*) Storico, professore dell’Università Pedagogica Nazionale di Bogotà. Autore di numerosi libri, dirige la rivista CEPA (Centro Strategico di pensiero Alternativo).
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)