Pianeta verde? Si, ma…
di Daniela Trollio (*)
Marzo è stato il mese di alcuni movimenti “globali”. Dallo sciopero delle donne l’8 marzo allo sciopero per il clima del 15 marzo. Ed è di quest’ultimo che vogliamo parlare.
Decine e decine di migliaia di giovani – ed è un fatto importantissimo che essi non vogliano lasciare in mani altrui il proprio futuro - si sono mobilitati in tutto il mondo contro l’indifferenza, la complicità e la responsabilità dei governi verso il cambiamento climatico già in atto, e le cui conseguenze ognuno di noi può vedere nel proprio paese.
Meno visibili sono alcune azioni che da anni compromettono non solo il clima ma la vita dei più poveri, e non solo. A partire dalla campagna di alcuni anni fa per i bio-combustibili, che tanto bio non sono: un aumento della produzione di grano, mais, canna da zucchero ecc. che andrebbero a produrre tali combustibili; peccato però che questo significhi sottrarre terreni agricoli - ovviamente nelle parti più povere del pianeta - da destinare non all'alimentazione ma a questo tipo di prodotto “verde” per le auto dei più ricchi. Risultato: la rovina dei piccoli agricoltori, delle economie familiari, un aumento della fame nel mondo. Paladino di questa battaglia, per cui ricevette un premio internazionale nel non troppo lontano 2007, fu niente meno che il vice-presidente degli Stati Uniti, Al Gore. Il progetto – almeno ufficialmente – abortì grazie alle lotte e alle proteste dei contadini messicani.
E se Greta Thunberg, l’attivista svedese di 16 anni che il 4 dicembre 2018 ha parlato del tema alla COP24, il vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutosi in Polonia, è diventata un’icona del movimento, nessuno si è ricordato, nelle manifestazioni, di Berta Càceres, uccisa il 2 marzo 2016, ambientalista e leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene, che da anni si batteva contro la realizzazione di un impianto idroelettrico nell’Honduras del Nord. I mandanti: i dirigenti della DESA S.A., l’impresa incaricata di costruirla… E nessuno ha ricordato i 207 ambientalisti che sono stati assassinati in 22 paesi nel 2017. Nella stragrande maggioranza dei casi perché la loro lotta andava direttamente al cuore del problema: non gli Stati e la loro apparente inerzia riguardo alla distruzione del pianeta che avanza , ma le multinazionali ed i loro progetti predatori alla ricerca del massimo profitto.
Ma c’è un’altra dimenticanza più grave e gravida di conseguenze, in questo movimento globale, quella che ha fatto – e continua a fare - più morti in assoluto perché … va bene il pianeta ma i suoi abitanti non sono un elemento secondario: le guerre imperialiste e le loro conseguenze sugli esseri umani e sull'ambiente.
Yugoslavia, Afganistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria: circa 150 milioni di morti e terra, acqua e aria contaminati per i millenni futuri e per le generazioni future non ancora nate - grazie all'uso dell’uranio impoverito e di chi sa quali altri veleni.
Se, come ricorda qualcuno, i romani spargevano sale sulle terre conquistate per assoggettare anche in futuro i nemici vinti, noi abbiamo visto il Vietnam annaffiato di Agente Orange, che ancor oggi – 44 anni dopo – ‘produce’ 500.000 bambini ciechi o deformi; la Yugoslavia e l’Afganistan seminati di bombe all'uranio impoverito, 320 tonnellate nel solo Iraq in cui, oltretutto, le forze angloamericane bombardarono i campi petroliferi per mesi, producendo milioni di tonnellate di diossido di carbonio, zolfo e mercurio ed una pioggia acida che distrusse la vegetazione e gli animali. Proprio l’Iraq ha sperimentato nel 2015 la temperatura più alta al mondo a causa della distruzione, causata dalla guerra, del manto vegetale e i pescatori e i ragazzi che fanno il bagno nel fiume Tigri continuano a incontrare cadaveri nelle sue acque. Più recentemente, va ricordato che il governo degli Stati Uniti – amministrazione Trump buona ultima – ha investito 1,2 bilioni di dollari per fabbricare nuove bombe atomiche, perché il mondo “sia più sicuro”. E ci fermiamo qui.
Sappiamo bene che il capitalismo distrugge l’uomo e la natura. Per sua natura ha bisogno di produrre e sfruttare sempre più intensamente per realizzare il profitto, il che implica non solo un sempre più sfrenato e brutale sfruttamento della forza lavoro ma lo sfruttamento sempre più intensivo della natura stessa che, lungi dall'essere in questa società un “bene comune” di proprietà di tutti i suoi abitanti, diventa una merce anch'essa. E come tale viene ampiamente pubblicizzata. Mentre ci avviciniamo al ‘punto di non ritorno’ come avvertono molti scienziati, il capitalismo diventa anche “verde”, un affare assai redditizio per un sistema che genera e riproduce costantemente i meccanismi della distruzione della natura.
Solo che il nostro pianeta è “finito” e questo processo va in una sola direzione: una catastrofe per il genere umano.
E’ questo il nodo di ogni lotta: da quelle più piccole, che chiamiamo di solito ‘rivendicative’, a quelle ‘globali’: chiamare le cose con il loro nome, identificare le vere cause dei problemi. E non è così difficile, oltre ad essere l’unico modo perché nelle lotte si sviluppi la coscienza di chi è il vero nemico.
Facciamo un esempio in tema: il movimento dei gilet gialli.
Nato da un apparente rifiuto “antiecologista” di pagare di più la benzina per favorire “un mondo più pulito” (accidenti …. questi francesi che non vogliono pagare per il miglioramento dell’ambiente…) , si è subito scontrato con la nuda realtà del potere del capitale e del ruolo dello Stato: sono andati così velocemente in pezzi - con le cariche della polizia, le pallottole di gomma, gli arresti - i tanto blaterati concetti di ‘democrazia’, di uguaglianza, progresso sociale ecc. Così ora è chiaro a moltissimi francesi che Macron è il rappresentante dei “ricchi”- che fa regali ai capitalisti in nome della competitività e impone tasse ai poveri in nome dell’ecologia - e che chi ogni sabato si incontra, si scontra e manifesta vuole un mondo diverso, dove siano le necessità delle persone – e non del grande capitale – a guidare le scelte della società.
Detto in altri termini, e senza enfasi, si sta facendo strada l’idea di una società che produca per i bisogni reali della maggioranza. Dategli voi il nome che volete, io la chiamerei socialismo.
Un bel salto di qualità, che ci dice che la lotta produce avanguardie, chiarisce chi è il nemico (moltissimi di quei giovani che hanno scioperato per il clima sono nelle piazze di Francia ogni sabato anche loro con il gilet giallo e vengono manganellati, arrestati, incarcerati), crea unità e contiguità tra movimenti che partono da diversi punti di crisi di questa società.
Sono movimenti contraddittori, dove ci sono ambiguità, diversi livelli di coscienza e vari attori sociali? Verissimo, ma questo movimento prima di tutto è un movimento – proletari, lavoratori, piccoli artigiani immiseriti, studenti, professori ecc. che si ribellano, che lottano, si organizzano, ragionano sulla propria esperienza, sui loro veri problemi ed interessi e tracciano bilanci – che sta causando la perdita della legittimità del potere e del sistema capitalistico.
Di questi tempi, qui da noi almeno, non è poco: bentornata, lotta di classe!
Quindi non si tratta di arrendersi alle mode, o ai ‘movimenti’ in quanto tali, ma di parteciparvi attivamente portando la nostra esperienza di lotta, l’analisi di classe, la coscienza della necessità dell’organizzazione, se vogliamo svolgere il ruolo che i comunisti devono svolgere, altrimenti tali non sono.
Ricordando anche, rispetto agli obiettivi, che se la seconda parola d’ordine della Rivoluzione bolscevica era “Tutto il potere ai Soviet”, la prima era “Pane, pace, lavoro e libertà”.
(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto San Giovanni (Mi)- Anteprima della rivista “nuova unità”
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