ANNIVERSARIO DEL "D. DAY" NELLA VECCHIA EUROPA

Anniversario del “D Day” nella vecchia Europa
di Rafael Poch (*); da: lahaine.org; 7.6.2019 (testo scritto nel giugno 2004)

Molti credono che John Wayne e il soldato Ryan salvarono l’Europa dal fascismo. Che l’AngloAmerica salvò il vecchio continente, più o meno da sola, e che lo sbarco in Normandia fu la grande azione decisiva. Non è stato così.
Nè il corso della guerra né la sconfitta del fascismo vennero decise là. I principali eroi non furono John Wayne o il soldato Ryan, ma persone con un cognome slavo che morirono per un paese che non esiste più (ma che fu un esempio per l’umanità). Gli scenari realmente decisivi furono Mosca, Leningrado (San Pietroburgo), Stalingrado (Volgograd) e Kursk.

Sul fronte dell’Est il Terzo Reich perse 10 milioni di soldati e ufficiali – morti, feriti o scomparsi – 48.000 tra blindati e veicoli d’assalto, 167.000 sistemi di artiglieria. Furono distrutte 607 divisioni. Qesto rappresenta il 75% delle perdite tedesche totali nella 2° Guerra Mondiale.
La differenza su scala militare è schiacciante. In Normandia si registrarono 10.000 morti alleati, 4.300 di loro britannici e canadesi e 6.000 nordamericani. Nelle grandi battaglie ad est i morti si contavano a centinaia di migliaia. Alla battaglia di Mosca parteciparono circa 3 milioni di soldati e 2.000 carri armati. L’URSS utilizzò là la metà del suo esercito, la Germania la terza parte. Ad El Alamein, importante battaglia di un altro fronte, i tedeschi disponevano di circa 60, 70 mila soldati.

Anche la scala della sofferenza umana è incomparabile. La geopolitica di Hitler non prevedeva l’esistenza di uno stato sovietico in Europa e sulla sua scala razzista gli slavi si trovavano molto in basso. La guerra nell’Est era la vita o la morte, ben diversamente da quella dell’Ovest. Le città ed i paesi furono distrutti, frequentemente con tutti i loro abitanti. Morirono uno su quattro abitanti della Bielorussia, uno su tre a Leningrado, Pskov e Smolensk.

L’impegno angloamericano sul continente non cominciò finchè, nel 1943, fu chiaro che l’URSS aveva fermato l’assalto e che la sconfitta della germania era inevitabile. Con un altro atteggiamento si sarebbero evitati molti morti.
Ma ... ci sarebbe stato un “secondo fronte” se le cose fossero andate bene per Hitler all’Est?

Fin dalla firma dell’accordo britannico-sovietico sulle azioni militari comuni contro la Germania del luglio 1941, Stalin chiedeva l’apertura di un “secondo fronte” in Europa, cioè uno sbarco alleato che alleviasse la pressione sopportata dall’URSS. La risposta si fece attendere a lungo (perchè l’Occidente sperava che la Germania schiacciasse il cattivo esempio sovietico e, nello stesso tempo, si dissanguasse in modo terminale).
L’inverno del 1941, con i tedeschi alle porte di Mosca, fu critico. Quell’anno l’URSS patì la metà delle perdite militari di tutta la guerra, 9 milioni tra morti, feriti e prigionieri (due terzi dei 27,6 milioni di morti sovietici nella guerra furono civili) ma ricevette solo il 2% del totale delle forniture che i suoi compagni di coalizione le inviarono durante tutta la guerra.

I documenti declassificati degli archivi sovietici sono pieni di dichiarazioni degli alleati occidentali che discutevano dell’inopportunità di affrettarsi. Perchè non lasciare che le due belve si divorassero tra loro?
Da Mosca vedevano che gli alleati sbarcavano nei luoghi più lontani e meno rilevanti per alleggerire la pressione sofferta dall’URSS: dapprima in Nord Africa (novembre 1942), poi in Sicilia (luglio 1943), in seguito due volte nell’Italia continentale (settembre 1943 e gennaio 1944), e solo ad un anno dalla fine della guerra (nel giugno 1944) in Normandia.
Per quella data l’esercito sovietico era già arrivato, da sei mesi, alla frontiera polacca dell’ante-guerra. Le ‘democrazie’ dovevano fare il fretta se volevano conquistare alcune posizioni in Europa ed evitare che “i russi” arrivassero a Parigi, come avevano fatto in passato.

Una evidente sfiducia presiedette all’alleanza anti-tedesca sovietico-occidentale fin dai suoi stessi inizi. I motivi erano molti e diversi. Da parte occidentale si propaganda, ad esempio, che il patto tedesco-sovietico del 1939 evidenziò la parentela tra nazismo e stalinismo. Delle vergogne delle democrazie, del loro atteggiamento verso il fascismo alla vigilia della guerra e della loro ‘parentela’ imperiale con Hitler e Mussolini se ne parla appena. Sicuramente a causa della sua manifesta attualità.

Alla vigilia della 2° Guerra Mondiale, quei politici democratici d’Europa e degli USA che poi ”avrebbero salvato l’Europa” avevano un idillio con Hitler e Mussolini. Gli USA avevano appoggiato il dittatore italiano dal suo arrivo al potere nel 1922. Le sue violenze venivano capite perchè scongiuravano la minaccia bolscevica. Gli investimenti nordamericani nell’Italia e nella Germania fasciste non solo non diminuivano ma aumentavano, negli anni ’30.
“Hitler ha reso grandi servigi non solo alla Germania ma a tutta l’Europa Occidentale, nel fermare il passo del comunismo (...) per questo è legittimo vedere nella Germania un muro di contenimento occidentale del bolscevismo”, diceva nel 1938 il segretario agli esteri britannico, Lord Halifax.
Sulla base comune di questa “acquiescenza”, Londra e Berlino potevano arrivare ad una “comprensione”, Halifax era disposta a concedere alla Germania tutto quello che essa avrebbe chiesto: “Danzica, Austria e Cecoslovacchia”, sempre che queste annessioni si realizzassero “in modo pacifico ed evolutivo”.
I principi di quella Europa erano chiaramente già stati presenti nel suo atteggiamento verso la repubblica Spagnola.

L’idea che i progetti di Hitler fossero assumibili, che tutto il mondo poteva integrarsi in essi e che la minaccia veniva da un’altra parte era comune nei governi dell’Europa della fine degli anni ’30. Con Nevile Chamberlain quale capo di governo a Londra ed Edouard Daladier a Parigi, le “democrazie” definivano “pace con onore” la consegna della Cecoslovacchia al Reich decisa dalla Conferenza di Monaco.
Il Ministro degli esteri polacco, Jozef Beck, prometteva di appoggiare la rivendicazione nazista sull’Austria e di tener conto degli interessi del Reich a fronte di un “eventuale attacco (polacco) sulla Lituania”. L’ambasciatore polacco a Parigi, Lukaszewicz, spiegava ai suoi colleghi nordamericani che c’era in gioco in Europa una lotta tra il nazismo e il bolscevismo, nel cui campo comprendeva “agenti di Mosca” come il presidente cecoslovacco Edvar Benes. “La Germania e la Polonia metteranno in fuga i russi in tre mesi” diceva l’ambasciatore, proprio alla vigilia in cui l’aggressione contro il suo stesso paese avrebbe segnato l’inizio “ufficiale” della 2° Guerra mondiale.

A quella data la guerra aveva già 8 anni di storia nel mondo. Il mondo dei domini imperiali dell’Asia e dell’Africa dove la guerra, gli incidenti, l’invasione e il razzismo non contavano, finchè non urtavano i diversi interessi.
Nel 1931 i giapponesi si erano impadroniti di un pezzo di Cina più grande dell’intera Francia. Nel 1933 e nel 1935 avevano esteso la loro invasione ad altre tre provincie cinesi, praticando la guerra chimica e biologica con esperimenti sulla popolazione civile. Nel 1935 l’Italia invadeva l’Abissinia, con il Maresciallo Badoglio che utilizzava l’iprite contro la popolazione civile (lo stesso gas utilizzato da Churchill contro i civili in Iraq). Nel giugno 1939 il governo britannico dichiarava di “riconoscere completamente la situazione attuale in Cina”. Né Londra né Washington protestarono, o si opposero, all’attacco giapponese contro la Mongolia, retroguardia dell’URSS, a partire dal maggio 1939 e che, nella battaglia di Jaljyn Gol, produsse più morti che tutta la campagna di invasione tedesca della Francia.
Non successe niente e l’incaricato del “India Office” britannico, Leopold Amery, spiegava il perchè difendendo l’aggressione giapponese contro la Cina davanti alla Camera dei Comuni: “se condanniamo quello che il Giappone ha fatto in Cina, dovremo condannare allo stesso modo quello che l’Inghilterra ha fatto in Egitto e in India”.

In un libro scritto in una prigione britannica tra aprile e settembre 1944, in coincidenza dello sbarco in Normandia Nehru – fondatore della nuova India – spiegava così la situazione: “Dietro alcune di quelle democrazie c’erano imperi in cui non c’era alcuna democrazie e dove regnava lo stesso tipo di autoritarismo (razzista) che si associa al fascismo, così che era naturale che quelle democrazie occidentali sentissero un certo tipo di affinità ideologica con il fascismo stesso, per quanto le disgustassero alcune delle sue espressioni più volgari e brutali”. “la politica britannica era stata quasi ininterrottamente pro-fascista e pro-nazi” ricapitolava Nehru nella sua cella del Forte di Ahmadnagar, ma tutto finì quando si vide che quell’ “alleato naturale”, quel parente, si rivoltava contro gli interessi occidentali. “Divenne sempre più ovvio, nonostante il desiderio di calmare Hitler, che questi stava diventando il potere dominante in Europa, smontando completamente l’antico equilibrio e minacciando gli interessi vitali dell’Impero Britannico”.

Il risultato fu un’alleanza forgiata sulle circostanze e la stupidità di Hitler che, se avesse attaccato per prima l’URSS invece della Polonia, sarebbe stato applaudito dalle democrazie. Questa idea venne espressa alla fine della guerra dallo stesso Hitler in un testo poco conosciuto. Nel febbraio 1945 Martin Borman raccolse vari monologhi di Hitler che hanno il valore di un testamento politico. Due mesi prima della fine Hitler concordava con la visione dei politici britannici e americani di prima della guerra, riflettendo sugli errori che avevano portato alla sconfitta. La campagna di Russia era “inevitabile”, diceva. Il suo problema era averla scatenata in un momento poco adeguato, La guerra su due fronti era stata un errore, riconosceva, ma la responsabilità ultima era dei nordamericani e dei britannici, con cui sarebbe stato possibile arrivare ad un accordo. “La guerra contro gli USA è una tragedia”. “Illogica e carente di ogni fondamento”. Solo la “cospirazione giudea contro la Germania” l’aveva resa possibile.
Carico di deliri, il suo sguardo sul futuro conteneva un pronostico sul mondo bipolare che si avvicinava: “Con la sconfitta del Reich e l’apparizione dei nazionalismi asiatici, africani e forse sudamericani, rimarranno nel mondo solo due potenze capaci di affrontarsi: gli USA e la Russia sovietica. Le leggi della storia e della geografia le spingeranno ad una prova di forza, sia militare che economica e ideologica”.

L’apparato di propaganda e di relazioni pubbliche più formidabile della storia ha fabbricato la sua leggenda con appena qualche crepa. Hollywwod, l’industria mediatica in mano ai magnati, i sistemi di alimentazione ufficiale di questa industria e, naturalmente, l’esercito dei conformisti ben pagati incaricati di trasmetterla, hanno scritto la versione più conveniente. La storia è loro. Arriviamo così al discorso di George Bush (ricordiamo che il testo è del 2004, ma conserva tutto il suo valore storico, n.d.t.). Rivendicando l’unica cosa (relativamente) positiva che l’intervento militare straniero degli USA ha fatto in più di mezzo secolo, il Presidente vende la sua attuale crociata. Ottenendo la meritata gratitudine che i francesi, gli italiani, i belgi e gli olandesi debbono al soldato Ryan, egli pretende di mantenere il vassallaggio europeo in cima alla lunga lista dei crimini impuniti compiuti dal militarismo nordamericano da allora.
L’uomo che, secondo le inchieste, incarna la guerra e promuove la destabilizzazione globale per la maggioranza degli europei, parla oggi in Normandia di morale, libertà e di principi e riceve il tributo e l’applauso dei dirigenti della “vecchia Europa”.

La generosità e l’eroismo dei 10.000 caduti su quelle spiagge francesi serve, così, a rivendicare la sua “guerra al terrorismo”, la distruzione dei fragili rudimenti dei diritto internazionale e del controllo delle armi, l’aggressione preventiva o “umanitaria” (attaccando il Venezuela, la Siria, l’Iran...), la corsa agli armamenti e la banalizzazione dell’uso dell’arma nucleare in guerre convenzionali.

E’ il momento di ricordare chi era il massimo rappresentante di queste stesse tendenze nel mondo di 60 anni fa.
La guerra non la vinse il soldato Ryan in Normandia, ma un essere indegno e pericoloso rivendica la sua gloria.

(*) Scrittore e giornalista barcellonese, è stato per 20 anni corrispondente del periodico La Vanguardia a Mosca e Pechino, quindi a Berlino e Parigi.

(traduzione di Daniela Trollio                                                       
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

 

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