Colombia. FARC, la rosa e il fucile
di Geraldina Colotti (*); da: lantidiplomatico.it; 2.9.2019
Con un lungo documento di analisi, le Farc - Ep tornano a essere Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo, e lasciano ai compagni e alle compagne che non condividono la loro scelta l’acronimo Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Comùn) con il quale si erano trasformate in partito politico scegliendo il simbolo della rosa con la stella al centro, nell’agosto del 2017. Si consuma così una lunga e travagliata scissione che, a partire dal gruppo dirigente, ha progressivamente reso esplicite differenze di merito e di metodo che non hanno trovato composizione.
Da una parte, l’ex vicesegretario delle Farc, Ivan Marquez, che ha ripreso le armi insieme a due altri dirigenti storici, Jesus Santrich – recentemente uscito dal carcere - e Hernan Dario Velasquez, nome di battaglia el Paisa. Dall’altro, Rodrigo Londoño, presidente del partito politico Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che ha respinto il ritorno alle armi per ribadire che la maggioranza degli ex guerriglieri intende mantenere gli impegni presi con gli accordi di pace del 2016.
Entrambi i gruppi si richiamano allo spirito delle origini, rappresentato dalla figura del fondatore, Manuel Marulanda (Tirofijo), morto del 2008. Le Farc di Marquez parlano di una seconda “Marquetalia”, una rifondazione della guerriglia nella continuità dei principi che ne hanno ispirato la formazione, oltre cinquant’anni fa. Quelle di Londoño ribattono che Marulanda ha “insegnato a mantenere la parola”, e che la loro parola, oggi, “è pace e riconciliazione”. La pace del sepolcro, purtroppo, che si è imposta dopo la firma degli accordi del 2016, secondo un copione già visto in Colombia, e che da allora ha già portato alla morte di 500 dirigenti contadini e indigeni e di 150 ex guerriglieri.
Questo è il primo punto di riflessione, che attiene all’analisi delle forze in campo e al bilancio della praticabilità del passaggio politico a tre anni dagli accordi dell’Avana. Quale possibilità di incidere hanno i pochi parlamentari delle Farc in un sistema tossico e bloccato com’è quello colombiano, fin dall’assassinio del leader liberale Eliecer Gaitan, avvenuto nell’aprile del 1948? Quali speranze restano agli “accordi di pace” ridotti a mero enunciato in un contesto internazionale in cui lo stato colombiano mantiene in America Latina lo stesso ruolo di gendarme che ha Israele per il Medioriente?
Quale possibilità ha la “forza rivoluzionaria alternativa” di aprire un confronto, a sinistra e nella società colombiana, sulla necessità di un cambiamento strutturale se il passaggio politico non ha portato a nessun bilancio vero, a nessuna discussione di merito, fuori dalla retorica su “pace e conciliazione” e la messa al centro degli interessi militari? Le zone smilitarizzate in cui questo incontro avrebbe dovuto articolarsi hanno visto più boicottaggi che appoggi.
Gli spazi di agibilità politica in sicurezza per una vera “forza rivoluzionaria alternativa” sono stati progressivamente ridotti a zero. La minaccia di estradizione nei confronti di Santrich ha probabilmente accelerato la decisione. Le condizioni insopportabili dei prigionieri politici e quelle di Simon Trinidad, rimasto ostaggio degli USA, hanno sicuramente pesato.
Il tema della consegna delle armi, che per il gruppo di Ivan Marquez avrebbe dovuto essere graduale, è stato peraltro fin da subito un elemento di divisione con l’altra parte dell’organizzazione. In una guerra non convenzionale, trattare con le armi o senza non è un elemento da poco, come ha fatto notare l’altra organizzazione storica della guerriglia colombiana, l’ELN, che ha partecipato ai negoziati, ma si è mantenuta operativa.
Lo si è visto, in un altro contesto, anche in Italia, dove la guerriglia sconfitta e disarmata non ha potuto pesare nella battaglia per una soluzione politica rivoluzionaria al conflitto di classe degli anni 1970, che non ha mai decollato. E poi ha la sua importanza anche l’elemento simbolico della continuità, da assumere prima che tutto si disperda in una contesa in cui il nemico detta tempi e modalità.
Chi confonde i principi con il dottrinarismo e la demagogia, ignorando il terreno della tattica, ignorando la necessaria combinazione delle forme di lotta a seconda del contesto storico, perde sicuramente il treno della storia. Per questo, la scelta di intraprendere le trattative con il governo colombiano nel 2012, come già altre volte in passato, e fidando sull’appoggio di un contesto latinoamericano allora in pieno fermento, ha avuto una sua pertinenza. Più che ricorrere agli ostracismi, serve allora, come sempre, la riflessione e il bilancio.
“Abbiamo vinto la più bella di tutte le battaglie. La guerra con le armi è finita, ora inizia il dibattito delle idee”, aveva commentato l’allora negoziatore delle Farc, Ivan Marquez, dopo l’annuncio dell’accordo trovato all’Avana nell’agosto del 2016. E sul piano del confronto fra linee e della battaglia delle idee vanno sicuramente inquadrate le scelte dei due campi rivoluzionari, che si misureranno con la realtà colombiana.
Già nel corso della discussione sulle trattative, era apparsa chiara la differenza tra chi definiva la fase successiva come “post-conflitto” e chi, invece, parlava di “post-accordo”, nella consapevolezza che la partita per un cambiamento strutturale della società colombiana si sarebbe sì trasferita sul terreno politico, ma aprendo una nuova fase di scontro con i poteri di sempre.
E già a settembre, durante la cerimonia pubblica per la firma degli accordi, a Cartagena, il rombo degli aerei militari che si levavano in volo quando le Farc pronunciavano il loro discorso, lasciavano intendere che la partita sarebbe stata tutta in salita. E, a dicembre, dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace, l’ex presidente colombiano Manuel Santos chiedeva l’adesione del suo paese alla Nato. In molti avevano allora ricordato l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali quand’era stato ministro della Difesa di Alvaro Uribe e l’uccisione del comandante delle Farc Raul Reyes, il 2 marzo del 2008, durante un bombardamento di un accampamento guerrigliero in Ecuador, ai confini con la Colombia. Quale fosse l’idea di “pace” di Santos è emerso poi dall’indagine compiuta dal governo bolivariano circa il ruolo da lui avuto nel dare copertura agli attentati con i droni esplosivi poco prima di lasciare la presidenza a Duque, nell’agosto del 2018.
Quello del cosiddetto “post-conflitto” sembrava configurarsi come un lucroso business, che avrebbe coinvolto anche i paesi d’Europa, nell’ormai consueta commistione tra multinazionali, imprese private per la sicurezza, eserciti “umanitari” e grandi Ong addette al controllo sociale.
Una logica apparsa evidente anche in un mega-convegno che si è svolto a Roma a dicembre del 2016, a cui hanno partecipato rappresentanti di governo e pubblici ministeri di tutto il Centroamerica, e in cui è intervenuto l’allora presidente Santos, appena laureato col Nobel.
Il convegno s’intitolava “Legalità e sicurezza in America Latina: strategie, esperienze condivise, prospettive di collaborazione”. In quella sede, alla presenza dei vertici di tutte le forze dell’ordine italiane, a parlare per pochi minuti delle cause che producono delinquenza e “terrorismo” sono stati solo i rappresentanti del Salvador e del Nicaragua. L’accordo firmato tra la Colombia e la Nato, incubato negli anni in cui Santos era ministro della Difesa di Uribe, prevede infatti un’intesa comune contro “la criminalità organizzata e il terrorismo”, basato sullo “scambio di informazioni durante le missioni umanitarie, missioni relative ai diritti umani, la giustizia militare, così come l’aiuto nella lotta contro i crimini legali alla droga e alcuni cambiamenti nel settore della difesa”.
E’ la filosofia che guida gli “interventi umanitari”, con la quale si mascherano le ingerenze imperialiste nelle guerre di nuovo tipo. Un involucro facilmente adattabile al corso imposto dall’arrivo di Trump, che sta calpestando le istituzioni internazionali sostituendole con altre artificiali, in contrasto aperto con la stessa legalità borghese.
Lo si è visto chiaramente con l’aggressione al Venezuela bolivariano, colpito da vere e proprie operazioni di pirateria internazionale effettuate con la complicità dei governi capitalisti vassalli degli USA. Le difficoltà in cui si trova il campo progressista in America Latina, il picconamento dell’integrazione sud-sud, dovuto al ritorno a destra dei due grandi paesi, Argentina e Brasile, alla defezione dell’Ecuador a seguito del tradimento di Lenin Moreno, all’espulsione del Venezuela dall’Unasur e dal Mercosur, hanno fortemente ridotto l’incidenza di quanti, a partire da Chavez, avevano lavorato per un passaggio politico in Colombia, che però mantenesse aperta la porta a un cambiamento strutturale. Invece, sono state progressivamente sepolte nel sangue, sia la prospettiva di una riforma agraria, sia quella di un’assemblea nazionale costituente.
Suona, perciò, davvero grottesco l’appello di Manuel Santos affinché la Jep (la giurisdizione speciale di pace, vigente in Colombia dal marzo del 2017, quando fu approvato al Senato il Sistema Integral de Verdad, Justicia, Reparación y No Repetición) spicchi nuovi ordini di cattura per i tre dirigenti, definiti “disertori”. Suona grottesco il suo appello ai due ex presidenti, l’uruguayano Pepe Mujica e lo spagnolo Felipe Gonzalez affinché valutino lo stato degli accordi di pace, considerando il ruolo attivo nelle ingerenze imperialiste mantenuto da Gonzalez nel continente.
Per il partito Farc che ha deciso di mantenersi nella legalità, quella di riprendere le armi risulta una proposta “delirante” nell’attuale contesto internazionale. Ma se si legge attentamente il lungo documento d’analisi presentato da Ivan Marquez, si vede che l’elemento militare è solo uno dei temi proposti nel programma di rifondazione della guerriglia. Emerge una visione ampia, una sorta di appello all’unità nazionale contro le forze reazionarie, in cui l’attività clandestina si coniuga alla ricostruzione politica “dal basso” nei territori e nelle campagne. Clandestini al potere ma non alle masse, insomma. Una visione che si avvicina a quella dell’altra guerriglia storica, l’Eln, con la quale le Farc stanno stringendo un accordo.
C’è poi la critica di quanti temono che il ritorno alle armi delle Farc acceleri l’aggressione armata al Venezuela bolivariano, da sempre accusato di “finanziare il terrorismo”. Ci sembra un argomento debole, considerando il ruolo permanente del governo colombiano nella destabilizzazione del vicino paese, portato avanti in tutti questi anni. La conferenza stampa del ministro della Comunicazione venezuelano, Jorge Rodriguez, ha fornito ulteriori prove dei piani omicidi organizzati anche in questo agosto partire dal territorio colombiano, e sventati dall’intelligence bolivariana.
Il fatto che Duque, fantoccio di Uribe e degli USA, abbia deciso di ospitare a Bogotà la banda di Guaidó e compari per inventarsi un “governo di transizione” 2.0, è un ulteriore, esplicito, sabotaggio alla proposta di dialogo lanciata per l’ennesima volta da Maduro a un’opposizione golpista, che in qualunque paese del mondo starebbe in galera.
Proprio l’aggressione crescente contro il Venezuela dimostra quanto sia arduo mantenere la pace coniugandola alla giustizia sociale se si è al governo di un paese. Di che pace si può parlare invece in Colombia dove le istituzioni servono a perpetrare l’oppressione di classe, bloccando ogni spazio di agibilità politica in sicurezza da parte di un’opposizione degna di questo nome?
Iván Márquez ha motivato la scelta di riprendere le armi appellandosi al “diritto universale che garantisce a tutti i popoli del mondo di sollevarsi in armi contro l’oppressione”, e come forma di difesa delle comunità rurali e urbane, rimaste in balìa del paramilitarismo con la smobilitazione della guerriglia. Ha elencato, in una visione marxista, i numerosi tradimenti perpetrati nel corso della storia dai governi colombiani al progetto di costruzione della Patria Grande voluto da Bolivar. Al contempo, ha ringraziato tutti gli attori politici che hanno contribuito al processo di pace che l’oligarchia colombiana si è dedicata a demolire, e ha lasciato aperta la porta al dialogo e al confronto anche con quella parte dell’organizzazione che ha deciso di mantenersi sul terreno legale.
Respingendo al mittente le accuse di Duque e soci, il governo bolivariano ha d’altro canto reiterato la propria volontà a favorire un nuovo percorso di dialogo: che, però, non sarà per domani, e il cui esito dipenderà dall’accumulo di forze di chi lotta per realizzare in Colombia un vero cambio di marcia.
(*) Giornalista e scrittrice italiana. Tra i suoi libri “Talpe a Caracas” e “Dopo Chàvez: come nascono le bandiere”