Ecuador: l’ora dell’insurrezione popolare
di Carlos Aznàrez (*); da: lahaine.org; 6.10.2019
Non è come il “Caracazo” venezuelano del 1989 ma gli assomiglia abbastanza. Anche in quell’occasione il presidente Carlos Andrès Pèrez, legato mani e piedi alle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale, decise di alzare i prezzi dei trasporti pubblici e scoppiò quella ribellione popolare che, con il tempo, servì da antecedente alla nascita dell’attuale Venezuela Bolivariano, tramite Hugo Chàvez.
Ciò che succede in Ecuador è la messa in pratica del manuale coercitivo del Fondo Monetario, attuato da una persona che ha finto di essere una cosa e poi si è trasformato in un’altra. Da tempo il capoccia Moreno ha smesso di essere degno del nome che ha (Lenìn, n.d.t.) visto che, come era prevedibile, nella sua fase finale di caduta in picchiata a livello di popolarità, non solo si vanta di aver tradito la Rivoluzione Cittadina ma anche, sottomesso e codardo, si inginocchia davanti alla banca internazionale.
L’indebitamento e la mancanza di liquidità in un’economia che neppure Rafael Correa era riuscito a sganciare dal dollaro, ha fatto sì che Moreno abbia patteggiato un milionario programma di crediti con il FMI e in quel pacchetto era previsto l’annullamento dei sussidi sui carburanti, che valevano 1.300 milioni didollari all’anno. La risposta immediata del mercato ha provocato un rialzo della nafta che ha immediatamente colpito i trasporti via terra e simili.
Ecco perchè i primi a reagire sono stati i guidatori dei taxi, dei camion e di altri veicoli di uso commerciale, che si sono resi conto che, per i loro portafogli molto impoveriti, quello che stava capitando li portava sul bordo del precipizio.
La memoria di quello che era l’Ecuador ai tempi di Abdalá Bucaram (ex presidente ecuadoriano, destituito per "incapacità mentale a governare", n.d.t.) e Lucio Gutiérrez (ex presidente ecuadoriano, destituito dal Congresso, accusato di essere diventato un dittatore, n.d.t.) ha aggiunto un terzo nome al terzetto neoliberista. Con la presa di coscienza dell’oscuro avvenire, tutto ha seguito il cammino abituale che si genera quando il capitalismo stringe la corda al collo delle classi più colpite dalla crisi: dallo sciopero generale del trasporto si è passati alle interruzioni delle vie di comunicazione, alle barricate e alle grandi mobilitazioni interclassiste in cui operai, studenti, contadini e indigeni hanno deciso di prendersi le strade per cercare di scuoter via dalle loro vite un pessimo governo.
A partire da questo momento si è potuta dimostrare in pratica la famosa frase di Bertold Brecht: “Non c’è nulla di peggio di un borghese spaventato”. Messo all’angolo, Moreno ha calcolato male il livello della sua forza e ora tenta una fuga in avanti, scaricando una brutale repressione contro il popolo, dopo l’applicazione di uno stato di eccezione che gli permette di mettere i militari nelle strade.
Ma nelle vene degli ecuadoriani e delle ecuadoriane corre sangue per la maggior parte indigeno e questo fattore si va trasformando in un bastione perchè l’autoritarismo non vada avanti. Ecco allora perchè lo sciopero generale contro il “paquetazo” cresce con il passare delle ore e nonostante i già 350 arrestati.
“E’ un braccio di ferro difficile ma non c’è altra alternativa che continuare a spingere per cercare di far cadere Moreno” ha detto un dirigente operaio a Cuenca perchè se la prima richiesta era la necessità che il governo ritirasse le misure economiche imposte, ora sono in molti quelli che chiedono l’immediata rinuncia del presidente. Sul piano della politica istituzionale, la coraggiosa deputata correista Gabriela Rivadaneiro ha ristretto il campo: “E’ assolutamente necessario anticipare le elezioni ed una sessione straordinaria dell’Assemblea Nazionale per esigere la destituzione del presidente”. Soprattutto perchè ha dato avvio (con lo stato di eccezione) ad una macchina repressiva propria di qualunque delle dittature che devastarono il continente.
Che altro resta a Moreno in queste circostanze? La sua patetica figura assomiglia molto a quella del ripudiato Luis Almagro o a quella del presidente haitiano Jovenal Moise. I tre sono ingranaggi del macchinario messo in moto da Donald Trump nel continente, visto che ognuno di loro si abbevera a Washington e sono tutti disposti a inginocchiarsi quando è necessario, L’uruguayano, per quanto batta i piedi e voglia ficcare il naso in Venezuela, ha già fallito.Non lo vogliono più nemmeno nella sua coalizione politica. Moise adesso sta cercando di spegnere (come un pompiere con la manichetta bucata in vari punti) i mille fuochi accesi dalla protesta popolare. Moreno, che nel suo affano di seguire le istruzioni è andato via via demolendo tutte le istituzioni e le misure positive per i poveri che all’epoca aveva messo in atto il governo di Rafael Correa, dice di non essere disposto a tornare indietro e si dispone a governare con i militari al fianco. Una cosa che, a suo tempo, immaginò un tale Lucio Gutièrrez (ex presidente, destituito dal Congresso, accusato di essere diventato un dittatore, n.d.t.), il cui fallimento fu clamoroso.
In questa America Latina in cui le insurrezioni vanno di paese in paese – come si è recentemente visto nelle strade di Portorico, di Haiti, del Perù o nelle urne delle primarie dell’Argentina – è possibile pensare che quanto succede in queste ore in Ecuador significherà in un futuro molto vicino il crollo di una nefasta strategia per impadronirsi di un governo con l’inganno e poi trasformarsi in tappeto per l’oligarchia locale e per l’imperialismo statunitense.
Aggiornamenti: Il giorno 7 ottobre si registra il primo morto; i feriti nelle proteste di questi giorni sono 73 e gli arrestati 379. Circa 500 tra militari e poliziotti sono trattenuti da gruppi indigeni nella zona nord del paese, secondo fonti del Ministero dell’Interno, sequestro confermato da un comunicato della CONAIE, la maggiore centrale indigena del paese, in cui si avverte che “Militari e poliziotti che si avvicinino ai territori indigeni saranno trattenuti e sottomessi alla giustizia indigena”. La decisione è stata presa “a fronte dellabrutalità e dalla mancanza di coscienza della forza pubblica nel non capire il carattere popolare delle richieste dello sciopero nazionale contro il “paquetazo”. Circa 10.000 membri dei collettivi indigeni, provenienti da varie regioni, sono arrivati a Quito. L’8 ottobre, dopo che centinaia di manifestanti hanno occupato l’edificio dell’Assemblea Nazionale, Moreno ha spostato il governo dalla capitale Quito alla città di Guayaquil, decretando un ulteriore coprifuoco, tra le 20 e le 5 di mattina nei pressi degli edifici governativi.
(*) Giornalista argentino, direttore della rivista Resumen Latinoamericano
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta88, Sesto S.Giovanni)