PALESTINA

 

In ricordo della Prima Intifada

di Hanaa Hasan (Middle East Monitor) *; da: rebelion.org; 11.12.2019

 

Trent’anni fa, il 9 dicembre 1987, scoppiò la prima Intifada nella Palestina occupata. La rivolta sarebbe durata più di 5 anni, durante i quali morirono migliaia di palestinesi. Trent’anni dopo la lotta per la libertà palestinese continua.

  

Cosa? la Prima Intifada

Quando? dal 9 dicembre 1987 al 13 settembre del 1993

Dove? nei territori palestinesi occupati da Israele

  

Cosa successe?

 Lo sfondo della rivolta fu l’occupazione che durava da 20 anni  da parte di Israele della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Occidentale. Israele governava con il pugno di ferro i territori occupati, stabilendo il coprifuoco e facendo retate, arresti, deportazioni e demolizioni delle case.

 

Dopo che centinaia di palestinesi furono testimoni oculari dell’assassinio di 4 uomini schiacciati da una jeep israeliana nei pressi del campo di rifugiati di Jabalya a Gaza l’8 dicembre (1987), la rabbia per quanto successo divenne immensa. Ai funerali dei morti assisterono circa 10.000 persone che furono però obbligate, di nuovo, a piangere una perdita il giorno seguente quando i soldati israeliani spararono a raffica sulla massa uccidendo il giovane Hatem Abi Sisi di 17 anni e ferendo altre 16 persone.

 

Mentre i dirigenti palestinesi si riunivano per discutere della situazioni, nei campi dei rifugiati scoppiarono proteste e sollevazioni che si estesero rapidamente a tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Orientale. La popolazione palestinese prese il controllo dei quartieri e fece barricate nelle strade per impedire l’entrata ai veicoli dell’esercito israeliano. Dato che la maggioranza della popolazione palestinese era disarmata, essa si difese unicamente gettando pietre ai soldati israeliani e ai loro carri armati. I commercianti chiusero le botteghe e i lavoratori rifiutarono di presentarsi sui posti di lavoro in Israele.

 

  

L’esercito definì queste azioni “rivolte” e agì con violenza per fermare le proteste, sparando contro la moltitudine con pallottole di gomma, munizioni vere e gas lacrimogeni. Le proteste si allargarono e ad esse parteciparono decine di migliaia di persone, comprese donne e bambini. Il 12 dicembre erano già morti 6 palestinesi e altri 30 erano stati feriti. Coloro che si ribellavano contro la ingiustizia israeliana appartenevano ad una generazione che era cresciuta all’ombra di quella che continuava ad essere una brutale occupazione militare e non volevano perdere quest’occasione per ribellarsi contro la violazione dei loro diritti.

  

Dato che le proteste non davano segno di diminuire, Israele utilizzò gli arresti di massa per dissuadere la gente dal parteciparvi. Chiusero università e scuole della Cisgiordania. Secondo la professoressa Wendy Pearlman, nel primo anno di proteste il coprifuoco fu decretato 1.600 volte. Vennero rase al suolo fattorie e abitazioni palestinesi, vennero sradicati alberi e si confiscarono proprietà e licenze di costruzione di coloro che rifiutavano di pagare le tasse. Anche i coloni ebrei delle colonie illegali misero in atto regolarmente attacchi contro la popolazione palestinese che, per difendersi, gettava pietre e doveva far fronte alla brutalità dei coloni. Secondo l’Agenzia dell’ONU sui rifugiati palestinesi (UNRWA), solo il primo anno furono assassinati 300 palestinesi, 20.000 furono feriti e circa 5.500 arrestati da Israele.

 

La filiale svedese di Save the Children calcolò che “tra 23.600 e 29.900 bambini e bambine hanno avuto bisogno di cure mediche  per le ferite causate da colpi nei primi due anni dell’Intifada”. Un terzo di loro aveva meno di 10 anni.

 

Le immagini ebbero un ruolo importante perché la comunità internazionale percepisse l’asimmetria esistente tra i manifestanti palestinesi disarmati e l’esercito israeliano, che si mostrava in tutta la sua crudeltà. In particolare suscitò indignazione un video del 1988 dove si vedevano soldati israeliani colpire due adolescenti palestinesi e rompergli le braccia di proposito. Poco a poco l’immagine di Israele come nazione ebrea indifesa e attorniata da vicini arabi ostili stava cambiando.

 

Che successe in seguito?

Dal 1988 i dirigenti palestinesi cercarono di controllare la situazione che si aggravava sempre più. In quel momento l’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat si trovava a Tunisi e cercò di fermare la violenza e di lavorare con l’ONU, anche se con poco successo. Invece a Gaza sorse Hamas (Movimento di Resistenza Islamica), che si presentava come alternativa all’OLP controllata da Fatah. Hamas chiedeva al popolo palestinese di continuare a battersi per gli obiettivi di base della sua lotta nazionale,  in cima ai quali c’era la liberazione della Palestina. Il Movimento indicò a coloro che lottavano di portare gli attacchi in Israele, cosa che Tel Aviv avrebbe utilizzato per giustificare una persecuzione ancor più profonda del popolo palestinese nei decenni seguenti.

 

Dopo che il (defunto) re Hussein di Giordania ruppe tutte le relazioni amministrative e economiche con la Cisgiordania nel 1988, fu ancora più chiaro il fatto che la popolazione palestinese mancasse di uno Stato. Nella misura in cui continuava lo spargimento di sangue, si intensificarono le richieste per la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Quello stesso anno il Consiglio Nazionale Palestinese, un governo in esilio, accettò la soluzione dei due Stati come era scritto nella Risoluzione dell’ONU del 1947.

  

Nonostante tutto la violenza continuò e nel 1989 le forze di sicurezza israeliane uccisero almeno 285 palestinesi e i coloni ebrei ne uccisero altri 17. Nello stesso periodo 19 civili israeliani e 6 membri delle Forze di Difesa israeliane (IDF la sigla in inglese, si tratta dell’esercito israeliano) morirono per mano dei palestinesi.

 

Dal 1989 al 1990 gli Stati Uniti misero costantemente il veto ai progetti di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che condannavano Israele per le sue violazioni dei diritti umani e per non applicare le risoluzioni della 4° Convenzione di Ginevra. Fino al 1991, quando gli Stati Uniti convocarono la Conferenza di Madrid e riconobbero la OLP quale “unico rappresentante legittimo” del popolo palestinese, nessuno forzò Israele a sedersi al tavolo delle trattative. L’anno seguente ebbero luogo alcuni incontri segreti tra la OLP e il governo israeliano, sollecitate dalla Norvegia, che culminarono alla fine negli Accordi di Oslo.

 

Gli Accordi di Oslo contemplavano un periodo di transizione di 5 anni, durante il quale si stabiliva che le forze israeliane si sarebbero ritirate dai territori occupati e si sarebbe formata una Autorità Palestinese, e il tutto avrebbe portato ad uno Stato indipendente. L’accordo fu firmato nei giardini della Casa Bianca nel settembre 1993 dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal presidente della OLP Yasser Arafat, alla presenza del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.

  

Nonostante questi tentativi di pace realizzatisi in ambito mondiale, lo scenario di fondo dei negoziati politici continuò ad essere di continua violenza. Alla fine dell’intifada, nel 1993, erano morti quasi 1.500 palestinesi e 185 israeliani, ed era stati incarcerati più di 120.000 palestinesi.

 

Sia il grado di violenza che la quantità di perdite sofferte dal lato palestinese erano estremamente sproporzionate e questo provocò un’ampia condanna internazionale che influì sui progetti di risoluzione n. 607 e 608 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che imponevano a Israele di smettere di deportare i palestinesi dalla loro terra.

  

Anche se agli occhi degli storici l’Intifada è ritenuta importante per aver provocato l’inizio del processo di pace, trent’anni dopo le promesse non si sono ancora avverate. Gli Accordi di Oslo si sono rivelati un’altra falsa alba, l’occupazione israeliana e i blocchi delle colonie illegali limitano più che mai i diritti e la terra della popolazione palestinese.

 

La Prima Intifada non è mai realmente finita e la popolazione palestinese ha continuato, e continua, a resistere all’occupazione, alla tirannia e all’oppressione di Israele.

  

(*) Giornalista palestinese, scrive per il Middle East Monitor

 

(traduzione di Daniela Trollio

 Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

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