L’assassinio di Soleimani stimola una guerra preventiva
di Gustavo Veiga (*); da: pagina12.com.ar; 6.1.2020
Anche se è troppo tardi, qualcuno dovrebbe spiegarlo al presidente degli Stati Uniti. Una guerra non si può fermare commettendo un assassinio, come egli ha detto nella sua ultima conferenza stampa. Al contrario, le guerre si accelerano, scoppiano, con la morte violenta di un funzionario di qualsiasi Stato e più ancora se si tratta di qualcuno che nel suo paese godeva di prestigio. Donald Trump non è matto, per quanto il suo physique du rol o le sue abitudini tendano a far pensare che questa sia la sua diagnosi clinica.
E matti non erano né George W.Bush quando invase l’Iraq sulla base delle menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam Husssein, né Bill Clinton quando bombardò l’ambasciata della Cina a Belgrado “per errore” basandosi su una vecchia mappa della capitale della Yugoslavia, oggi Serbia.
L’idea che questi atti di terrorismo degli USA siano decisioni individuali dei loro leaders contrasta con i precedenti. Sono decisioni politiche che nascono dalle viscere della loro macchina industriale/militare, la più potente del pianeta. La provocazione contro l’Iran è, oltretutto, un altro atto palpabile della sua politica estera militarista svoltasi nel corso di quasi due secoli, prolifica di invasioni, di utilizzo delle bombe atomiche, del napalm, di operazioni di rappresaglie, di dittature militari e di ogni altro tipo di meccanismi per conseguire i loro propositi.
Gli Stati Uniti trarranno sempre benefici dai conflitti armati in qualsiasi luogo del mondo, perché vendono armi di ultima generazione come il drone con cui è stato assassinato il generali iraniano Qasem Soleimani. Washington destina alle spese militari più denaro di quanto lo facciano gli otto paesi che la seguono per bilancio e ha, fuori dai suoi confini, più di 800 basi militari, sparse in circa 40 paesi alleati.
Secondo un articolo del 9 dicembre scorso pubblicato dall’Istituto di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri in inglese), “per la prima volta dal 2002, i primi cinque posti nel ranking sono occupati esclusivamente da società che vendono armi che hanno sede negli Stati Uniti: Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon e General Dynamics. Queste cinque compagnie rappresentano nel ‘Top 100’ 148 mila milioni di dollari e il 35% del totale delle vendite di armi nel 2018”.
Nel periodo 2014-2018 gli Stati Uniti sono stati il primo esportatore di armi, molto al di sopra dei suoi concorrenti. Ma si sono anche allontanati dalla Russia, il secondo della classifica. Se tra il 2009 e il 2013 superavano Mosca solo del 12%, ora la differenza tra le due nazioni si è alzata al 75%.
Tra le tante ipotesi degli analisti che spiegano il focolaio in cui si è trasformato il mondo dallo scorso venerdì, ce n’è una da non scartare sull’assassinio selettivo di Soleimani.
La sua morte sarebbe stata ordinata per ravvivare la fiamma del fondamentalismo islamico in Medio Oriente, oggi quasi sconfitto e sulla difensiva. Quel fenomeno funzionale agli USA e ai loro interessi negli ultimi tre decenni. In effetti il comandante delle forze speciali Quds, Soleimani, ha contribuito a sconfiggere l’ISIS in Siria, quando Russia e Iran sono andati a sostenere Bashar al-Assad.
Si sa anche che uno stato arabo e sunnita come l’Arabia Saudita, nemico dichiarato del governo sciita iraniano, ha finanziato il terrorismo dello Stato islamico. Julian Assange dichiarò, due anni fa – basandosi su una comunicazione inviata da Hillary Clinton al capo della sua campagna per le elezioni, John Podestà – che l’ISIS era appoggiato dalla più grande monarchia del Golfo e dal Qatar, che erano nemici negli ultimi anni ma che ora vivono il completo disgelo delle loro relazioni diplomatiche.
Questa ipotesi sul perché gli Stati Uniti si sono disfati di Soleimani è una tra tante (il processo di impeachment a Trump, le elezioni di novembre, il rialzo del petrolio), al di là dei motivi addotti da Trump.
Motivi che il segretario di Stato USA Mike Pompeo ha descritto in modo improbabile. In un’intervista a Fox News ha detto che il generale iraniano stava pianificando attacchi che avrebbero potuto “uccidere centinaia o migliaia di statunitensi”.
A rigore, le vittime che si sono sempre contate a milioni o a centinaia di migliaia sono state irachene, afgane, libiche, yemenite, palestinesi o cittadini di tutti quei paesi dove gli Stati Uniti e i loro alleati cercano ricchezze, apertura di nuovi mercati o di consolidare i loro interessi geopolitici.
Trump e Pompeo hanno mancato di dire che l’assassinio di Soleimani significa l’inizio di una nuova guerra preventiva. Perché per questi governanti evitare le guerre consiste nell’assassinare o attaccare per primi.
E’ una tradizione che viene dal profondo della storia statunitense e che comincia nel secolo XIX. Hiroshima e Nagasaki sono l’esempio più eloquente di questa politica. Quando la 2° Guerra Mondiale era quasi finita, gli USA gettarono due bombe atomiche con la scusa che il conflitto non doveva estendersi. Il presidente che dette quell’ordine, Harry Truman, disse anni dopo: “Credo che il sacrificio di Hiroshima e Nagasaki fosse urgente e necessario per il benessere in prospettiva del Giappone e degli alleati”.
Gli Stati Uniti hanno sempre una ragione alla loro portata per giustificare le loro azioni criminali, parole d’occasione che di questi tempi non hanno valore neppure per quelli che le dicono dalla Casa Bianca.
La portavoce della Cancelleria russa, Maria Zajarova, lo ha reso evidente quando si è riferita all’attacco a Bagdad contro il generale iraniano, uomo chiave del governo dell’ayatollah Alì Kamenei: “Per protestare contro gli attacchi alle proprie ambasciate (la scusa a cui si è rifatto Trump per far assassinare Soleimani), i paesi si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Washington non si è rivolta al Consiglio di Sicurezza. Questo significa che la reazione del mondo non le interessava”, ha scritto sul suo sito Facebook.
Secondo Bernie Sanders, pre-candidato democratico alla presidenza per il 2020, “la pericoloso scalata di Trump ci avvicina ancor più ad un’altra disastrosa guerra in Medio Oriente, che potrebbe causare innumerevoli vittime e bilioni di dollari. Trump aveva promesso di mettere fine alle guerre interminabili, ma questa azione ci pose sulla strada verso un’altra.”.
Secondo Noam Chomsky, il celebre linguista e una delle principali voci critiche all’interno degli Stati Uniti, la principale potenza planetaria è “lo stato terrorista numero uno nel mondo”. E non lo dice adesso. Lo sostiene da tempo.
(*) Giornalista, scrittore e professore universitario argentino
(traduzione di Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)