USA

 

Quando le “razze inferiori” dicono basta, è violenza

 di Jorge Majfud (*); da: rebelion.org; 2.6.2020

  

Il 30 maggio 1921 un lustrascarpe orfano di 19 anni si dirigeva al bagno per i neri in un edificio di Tulsa, Oklahoma, e nell’inciampare urtava il braccio ad una giovane bianca. Qualcuno vide l’incidente e lo denunciò come un tentativo di violenza (spesso l’immaginazione pornografica ha la sua base nella violenza del potere). Anche se la giovane Sarah disse che si era trattato di un incidente, le chiamate a “linciare il negro” provocarono una serie di attacchi di orde bianche  e reazioni dei vicini neri.

 Come reazione alla reazione, in pochi giorni aerei privati bombardarono uno dei quartieri neri più prosperi del paese, lasciando quasi cento morti e migliaia di senza tetto.

  

I grandi traumi di una società scoppiano sempre per piccole cose. Il 25 maggio scorso il sospetto che un biglietto da 20 dollari fosse falso ha dato luogo alla denuncia di un cassiere del Minnesota e alla morte del sospettato come conseguenza di una brutalità poliziesca non necessaria e significativa.

 

Non è stato un caso eccezionale: come in Brasile, altro paese con un trauma storico simile, ogni anno negli Stati Uniti migliaia di persone muoiono per la violenza poliziesca e la maggioranza delle vittime replica uno schema simile: neri, meticci e poveri.

 

Giorni fa la Georgia si era commossa per l’assassinio di Ahmaud Arbery, un giovane nero che stava facendo jogging prima che Gregory McMichael, un ex poliziotto in pensione, e suo figlio Travis lo assassinassero perché era “sospetto” Questa volta il crimine è stato filmato da qualcuno di nome William Bryan, che faceva parte della “sicurezza” dei McMichael. Non è di troppo ricordare che gli irlandesi, prima di diventare dei “bianchi” nel secolo XX, erano considerati altrettanto indesiderabili dei neri.

  

Poco dopo, per protestare contro il razzismo, il giocatore di football Colin Kaepernick ha cominciato a inginocchiarsi (la sua foto è diventata il manifesto della campagna di protesta I can’t breathe per la morte di Georgee Floyd, n.d.t.) quando veniva suonato l’inno nazionale (tra altre ragioni, perché le parole dell’inno minacciano gli schiavi con la tomba). Voci scandalizzate sono risuonate dalla Casa Bianca alla fattoria più umile. Molti, compreso il presidente Donald Trump, hanno proposto che tutti coloro che hanno seguito il suo esempio “antiamericano” perdano il loro lavoro.

 

Naturalmente il coraggioso giocatore non stava violando alcuna legge e men che meno la Costituzione, cosa che invece hanno fatto quelli che hanno minacciato la sua libertà di espressione. L’idea di Theodore Roosevelt che “i neri sono una razza perfettamente stupida  non ha ceduto, è cambiata solo la forma in cui dirlo.

 

  

Colin Kaepernick protestava per la violenza poliziesca. Non ne poteva più, come tutti coloro che non possono più vedere la violenza internazionale, storicamente carica di razzismo, a cui Washington è abituata da molte generazioni in nome della libertà – della libertà di imporre il suo criterio e i suoi interessi a qualsiasi prezzo.

 

Tutti volevamo ammazzare i negri; era come un gioco drogato; ne abbiamo ammazzato a migliaia e tutti erano come pazzi; quando la mattanza è finita non ci sentivamo molto bene, ma la guerra è così” scrisse un volontario della Compagnia H del 1° Reggimento dello stato di Washington nelle Filippine. Per non continuare con le dittature tropicali, o il bombardamento indiscriminato dell’80% della Corea, o della fucilazione dei rifugiati, e dei massacri in Vietnam (dove milioni di persone furono sterminate sotto le bombe o con i defolianti chimici), o la tortura e i bombardamenti su bambini e popolazione innocente diventati routine in Iraq e Afganistan e Guantanamo, senza alcuna conseguenza legale.

 

Per non tornare all’America Latina dove, dall’inizio del secolo XX, si imposero sanguinarie dittature per “insegnare ai negri a governarsi da soli” prima che spuntasse la meravigliosa scusa della lotta contro il comunismo una generazione più tardi, e i presunti patrioti latinoamericani cominciassero a ripeterla fino ai giorni nostri in mancanza di una scusa migliore.

 

Quando disprezzare le razze colonizzate diventò qualcosa di scorretto, si continuò demonizzando nazioni e “culture malate” per continuare lo stesso esercizio di arroganza.

  

Come in molti altri casi che non sono assurti agli onori della cronaca perché nessuno li ha filmati, il cassiere del Minnesota ha chiamato la polizia e la polizia ha reagito con il riflesso razzista che è incistato in una parte della società (specialmente quella che, come spiegavamo prima, grazie al sistema elettorale e rappresentativo ereditato dalla schiavitù, ha un potere politico sproporzionato).

 

Poco dopo tre poliziotti tenevano le ginocchia sul corpo di George Floyd che – come un’altra vittima nota, Eric Garner - ripetè varie volte “Non posso respirare”. Uno di loro, l’ufficiale Derek Chauvin che, con il suo ginocchio ‘sordo’, ha portato Floyd alla morte, aveva lavorato come la sua vittima in qualità di  guardia di sicurezza nello stesso bar, il Nuovo Rodeo.

 

A partire da qui si è scatenata la violenza per la quale 40 città del paese sono sotto coprifuoco.

  

Le manifestazioni pacifiche sono diventate violente poco dopo. La sindaca di Atlanta, Keisha Bottoms – una donna nera, una doppia rappresentante delle minoranze di questo paese – ha pronunciato un discorso appassionato di fronte alle televisioni accusando i vandali che avevano incendiato alcuni edifici di essere nemici delle proteste legittime. Si potrebbe essere d’accordo con la sua posizione ma bisogna anche chiedersi: fino a quando coloro che subiscono l’abuso della violenza razziale devono essere moderati quando coloro che abusano non lo sono e si perpetuano generazione dopo generazione?

Il grande James Baldwin (scrittore e poeta statunitense, n.d.t.) , in occasione di una rivolta simile nel 1968, aveva detto: “le uniche volte in cui la non violenza è stata ammirata è quando viene praticata dai neri”. Ovviamente né Baldwin né Malcolm X diventarono santi nazionali.

 

Si, la violenza è sempre condannabile. Tutti siamo contro la violenza e alcuni di noi la considerano la peggiore strategia per cambiare la società e la scusa migliore per la repressione e la reazione, perché le cose restino come sono. Come sempre, le proteste sono state definite come “incitamento straniero”.

 

A questo punto è difficile determinare se c’è qualcosa di vero in tutto questo. Ma quello che è provato è che per 250 anni la violenza razzista ha accompagnato questa società, dentro le sue frontiere e proiettandosi fuori di esse (basterebbe ricordare gli esperimenti sulla sifilide in Guatemala da parte di medici statunitensi, prima ancora della infame distruzione della sua democrazie da parte della CIA).

 

E non è diminuita per la generosità di quelli in alto ma per la ribellione di quelli in basso.

  

Non c’è paese al mondo che sia libero dal razzismo, ma alcuni non sono neanche in gara e sono stati fondati e si sono arricchiti sui valori più radicali e persistenti del razzismo.

 

Il razzismo statunitense affonda le sue radici nella sua stessa fondazione. Basterebbe ricordare Benjamin Franklin preoccupato per l’arrivo di europei non del tutto bianchi. O leaders come il grande Thomas Jefferson quando, come era abituale alla sua epoca, faceva figli con le sue schiave e neppure li liberava perché non erano bianchi puri, condannandoli alla schiavitù nella dittatura più perfetta, la cui dichiarazione di indipendenza del 1776 riconosceva che “tutti gli uomini sono creati uguali” e la sua costituzione, dieci anni dopo, insisteva su “We the people” (noi, il popolo; n.d.t.), dove però né i neri, né gli indios, né i messicani erano parte di “noi, il popolo” per cui anche Stati strappati al Messico come l’Arizona, per guadagnarsi il diritto al voto, dovettero aspettare il secolo XX, quando la maggioranza della popolazione era diventata bianca.

  

Quando i popoli dicono basta, quelli che stanno al potere hanno due opzioni: aumentare la repressione o cedere un poco per limitare le perdite.

 

In nessun caso si tratta di una rivoluzione, ma a partire da un certo momento la rivolta potrebbe trasformarsi in una ribellione simile a quella degli anni ’60 (con l’abolizione della segregazione razziale, n.d.t.) , che sono finite con l’eredità degli anni ’80 (inizio degli  scontri razziali in tutto il paese, n.d.t.).

 

(*) Scrittore e saggista uruguayano, insegna Letteratura latinoamericana all’Università della Georgia

 

(traduzione di Daniela Trollio

 Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

 

News