LA PRATERIA BRUCIA

La prateria brucia

 

di Daniela Trollio (*)

 

Il 25 maggio George Floyd, un afroamericano di 46 anni disoccupato, viene ucciso a Minneapolis da 4 poliziotti.

 

E’ la scintilla che incendia la prateria. La protesta dei neri, dei giovani antifascisti, dei disoccupati, della gente comune dilaga in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di migliaia di manifestanti si scontrano nelle strade con la polizia, con la guardia nazionale, affrontano gas e pallottole di gomma e arrivano fino a Washington dove, in una dimostrazione di grande coraggio, il presidente Donald Trump – dopo aver minacciato di far sparare ai manifestanti - non solo fa erigere in tempi strettissimi una cancellata attorno alla Casa Bianca, ma cambia velocemente casa e si fa rinchiudere nel bunker progettato per un’eventuale guerra nucleare. Anche al di là dell’oceano si trovano i Franceschiello….

 

La prateria brucia, lo dicono i numeri: le proteste avvengono in più di 40 grandi città (in totale in più di 500 tra città e paesi),  in vari stati viene decretato il coprifuoco e viene mobilitato il più numeroso contingente della Guardia Nazionale, 10.000 persone vengono arrestate.

 

Non solo negli USA ma in tutto il mondo si manifesta contro il razzismo e contro la polizia (compresa quella del proprio paese), identificata come il braccio armato di un sistema profondamente brutale ed ingiusto.

 

Trump chiede che scenda in campo l’esercito ma i suoi generali si rifiutano di mobilitare i soldati.        

Ed è proprio la violenza economica del capitalismo la maggiore minaccia alla vita dei proletari neri, ispanici ….e bianchi. Negli USA più di 5.000 lavoratori muoiono in incidenti sul lavoro – in maggioranza evitabili -ogni anno e tra i 50 e i 60 mila per malattie professionali. I neri rappresentano la maggioranza di queste vittime perché svolgono i lavori più pericolosi e meno pagati.

  Purtroppo non c’è bisogno di andare molto lontano per capire il perché ed è un perché che spiega molte cose, non solo degli USA ma anche di casa nostra.

Non esiste, se non in minima parte (come dimostra l’esistenza di “Antifa”, il gruppo antifascista accusato da Trump di terrorismo e che torna alla luce quando scoppiano queste lotte) un’organizzazione stabile del proletariato americano che si ponga l’obiettivo dell’abbattimento del sistema capitalista e sia in grado di portare questa idea all’interno della classe.

 

Il PC nordamericano da molti anni fa delle elezioni il banco principale della “lotta”, rinunciando alla critica di classe. Molte delle avanguardie che si sono espresse nel corso di più di 50 anni hanno finito per adagiarsi nelle pieghe del sistema stesso, nelle università, nelle accademie.

 

Non da oggi sono quelli che propongono politiche di riforma e inclusione, di non discriminazione, la “diversità” e il “multiculturalismo”: i rappresentanti del capitale globale hanno buon gioco, nessuno mette in discussione il sistema e viene così cancellato (come è successo anche in Europa) il linguaggio di classe e con esso la coscienza, l’identità di classe. In questi giorni bollenti giornali, televisioni, star della politica, del cinema, dello sport sono tutti pronti, apparentemente, a sostenere le rivendicazioni dei manifestanti. Ma se abbattere statue è un atto di giustizia simbolica, non mette minimamente in discussione il sistema.

D’altra parte bisogna riconoscere una cosa: il maccartismo, l’odio per il comunismo organizzato dallo Stato, è nato ed ha prosperato per anni e anni negli Stati Uniti. E questo vuol dire qualcosa anche rispetto allo scollamento tra il movimento sociale di protesta che riempie le strade e una avanguardia organizzata che potrebbe dare una prospettiva anti-capitalista a coloro che si battono per un mondo più giusto.

 

Sappiamo, per averlo già visto e sperimentato in molte altre occasioni, che dalle crisi il capitale esce facendo pagare alle classi subalterne le sue perdite, sia economicamente che dal punto di vista della militarizzazione della società.

Dal 2008 abbiamo vissuto una crisi continua che ha visto una grande risposta a livello globale. Infatti, prima che un ‘provvidenziale’ Covid-19 svuotasse le strade, una nuova ondata di lotte aveva percorso il globo – dalla Francia all’Iraq, dal Cile al Libano e agli stessi Stati Uniti.

 

Ora milioni di persone in tutto il mondo si sono ribellate contro il razzismo, prodotto del capitalismo e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La loro rabbia, la loro volontà di conquistare un mondo diverso, che ha riportato nelle strade milioni di proletari, può essere l’occasione di un’unione tra antirazzismo e anticapitalismo, l’occasione per ricordare che “il capitalismo non è la soluzione, è il problema”..

 

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto San Giovanni (MI)

 

 

Dalla rivista “nuova unità” luglio 2020

 

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