rivista "nuova unità" n. 5

dal n.5 della rivista “nuova unità”

Bielorussia, un’altra “rivoluzione colorata”

di Daniela Trollio (*)

 

Ci risiamo, una nuova “rivoluzione colorata” agli onori della cronaca sui nostri quotidiani. Si tratta della Bielorussia che, oltre al desiderato – da parte dell’Occidente – cambio di regime, unisce il fatto di essere l’unico paese direttamente confinante con la Russia non aderente alla NATO,  a cui invece appartengono Lituania, Lettonia, Polonia ed Ucraina, sue altre confinanti.  La destabilizzazione della Bielorussia tramite un “cambio di regime” – come si è fatto con i paesi di cui sopra - permetterebbe quindi alla NATO di far avanzare la linea che minaccia direttamente la Russia.

La Bielorussia rappresenta un’eccezione tra le repubbliche baltiche “democratiche”, dove i comunisti e i socialisti vengono messi fuori legge e i nazifascisti vanno al potere, dove sono ospitate le più grandi basi militari nordamericane, dove i diritti “democratici” tanto cari all’Occidente vengono cancellati senza che nessuno si scandalizzi.

E questo è un primo elemento.

 

Il sistema economico bielorusso è una specie di “capitalismo di Stato”, con grandi corporations industriali e agricole nazionalizzate. Il 51% dei bielorussi lavora per compagnie statali, con un tasso di disoccupazione, fino a pochi anni fa, inferiore all’1%. Il paese conta su un settore agricolo e uno di meccanica pesante (agricola e militare) molto forte, che gli permette di esportare non solo in Russia ma anche in Germania e nei paesi confinanti.

La Bielorussia, secondo dati dell’ONU, possiede un sistema sanitario molto efficiente ed un tasso di mortalità infantile addirittura al di sotto di quello britannico. Anche l’indice Gini (l’indicatore internazionalmente riconosciuto come il più preciso per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, perché misura quanto la curva di aumento del reddito stesso si discosta dalla perfetta uguaglianza tra poveri e ricchi, v. Wikipedia) è tra i più bassi d’Europa.

 

La possibilità di mettere le mani su tutto questo, avviando una nuova “stagione” di privatizzazioni a beneficio del capitale occidentale e di quello autoctono è un sogno che si realizzerebbe con un “cambio di regime”.  Anche nella vicina Russia una parte degli oligarchi sogna lo stesso sogno.

E questo è un secondo elemento.

 

Per quanto “di Stato” comunque, sempre di capitalismo si tratta e la crisi strutturale in cui si dibatte il capitale in questi ultimi anni ha toccato pesantemente anche la Bielorussia, che non è certo un paradiso dei lavoratori e non vive in uno spazio a sé.

La crisi ha deteriorato il livello di vita dei lavoratori, in particolare nel campo della salute, dell’occupazione, del pensionamento. E così sono cominciate le proteste – operaie in un primo tempo – che hanno raggiunto il culmine nel momento delle elezioni presidenziali vinte da Alexandr Lukashenko, presidente dal 1994.

 

E qui inizia il copione già visto. Nasce una “opposizione democratica” appoggiata da USA e Unione Europea, parte una martellante campagna mediatica in favore della dissidenza, reale o no che sia. Il governante di turno viene definito in ogni occasione “dittatore”. (Curioso che nessun politico o giornalista si sia mai permesso di definire tali, ad esempio, i governanti dell’Arabia Saudita, dove si ammazzano i dissidenti,  si tagliano le mani al ladri e si lapidano le adultere….).

 

Nel caso della Bielorussia – perché un po’ di femminismo non si nega a nessuno – addirittura si crea una triade di donne del tutto sconosciute alla politica. Sono le mogli – ahimè, brutto da dire ma vero – dei tre volti noti dell’opposizione: un blogger in carcere per aggressione durante una manifestazione, un banchiere  in carcere per frode e lavaggio di capitali ed un ex ambasciatore negli USA. L’Unione Europea si affretta così a designare il “suo” candidato, Sviatlana Tsikhanouskaya, moglie del blogger.  

E questo è un terzo elemento.

 

Come ad Hong Kong abbiamo visto gli oppositori innalzare le bandiere dell’ex Impero Britannico e dell’impero USA, anche in Bielorussia, come in Ucraina, gli “insorti” sventolano le bandiere del battaglione Vlasov, il traditore che, con l’ucraino Stepan Bandera, affiancò e a volte superò i nazisti nelle stragi della popolazione russa durante la 2° guerra mondiale.

 

Non ci sarebbe bisogno di dire altro su quanto sta succedendo in Bielorussia. Si tratta davvero di un copione già ampiamente sfruttato: dall’Iraq alla Libia, dall’Ucraina ad Hong Kong, dalla Siria al Venezuela.

 

Purtroppo non si tratta di un film, ma di una guerra spietata del capitale internazionale che causa morti, feriti e paesi sovrani ridotti in macerie.

Si approfitta delle proteste popolari  per provocare un cambio di regime che porti con sé la privatizzazione selvaggia, la svendita dei beni comuni e delle risorse naturali, lo sfruttamento selvaggio senza più freni e la cancellazione di ogni diritto dei lavoratori, la precarizzazione e l’eliminazione dei resti dello “stato sociale”: in poche parole, sfruttamento brutale, impoverimento, miseria e cancellazione di ogni futuro.  

Cosa significa una “rivoluzione” neoliberista lo vediamo ogni giorno: basta ricordare cosa è successo in Iraq, in Libia, in Grecia, in Ucraina, in Siria, in Venezuela, in Bolivia, tanto per limitarci agli ultimi anni.

 

Vogliamo solo aggiungere una cosa: di fronte a questa offensiva del capitale internazionale non esiste un movimento contro la guerra, perché di guerra di classe si tratta,  dichiarata o no.

Per anni i rivoluzionari hanno dibattuto se “difendere” o no Gheddafi, Saddam Hussein, Al Assad o Maduro, dimenticando che, invece, si tratta di lotta all’imperialismo, di difesa della libertà dei popoli di scegliersi il proprio futuro in base ai propri interessi; di internazionalismo proletario, in una parola.

Non rifacciamo per l’ennesima volta lo stesso sbaglio.

 

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

      Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni

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