Rifugiati

Moria e le ceneri dei diritti europei

di Miguel Urbàn (*); da: rebelion.org; 16.9.2020

 

Un po’ più di 13.000 persone, molte delle quali minori, dormono ai bordi delle strade, nei parcheggi e negli spiazzi dopo che un incendio ha devastato il campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Senza altra alternativa e senza nulla da mangiare, patiscono anche le cariche poliziesche e il lancio di lacrimogeni da parte delle truppe antisommossa, che hanno l’unica funzione di arrestarli.

Ma ci sbaglieremmo se definissimo questi fatti , come molti hanno fatto, come un terribile incidente frutto del caso. Si tratta invece di un altro capitolo di una tragedia che, anche se non  ‘annunciata’, non è meno drammatica, di una pericolosa deriva autoritaria che colpisce i diritti in tutta l’Europa.

 

Torniamo un po’ indietro. A fine 2015, cinque anni fa, le guerre, la fame e il cambio climatico già da anni espellevano migliaia di persone dai loro luoghi di residenza. Alcuni di essi cercavano di arrivare in Europa.

 

L’Unione Europea (UE) va nel panico. Questa presunta superpotenza mondiale, auto-erettasi a culla dei Diritti Umani e di altri valori solidali, dice di essere incapace di affrontare il problema di qualche centinaia di migliaia di persone che fuggono dalla morte. All’improvviso le frontiere dell’Europa cominciano a sanguinare ai quattro lati, e spunta dappertutto il filo spinato. Una dopo l’altra si succedono le riunioni ad alto livello, le proposte e le buone parole. Ma non arriva nulla se non i muri e i soldi per militarizzare il Mediterraneo e appaltare il problema a polizie di frontiera in paesi lontani dai focolari dei benpensanti.

 

Questa EU impiega tanta velocità e tante risorse per salvare le banche quanta lentezza e taccagneria nel salvare le persone. E così passano gli anni mentre il messaggio dominante passa dal ‘Refugees wellcome’ (Benvenuti rifugiati) al ‘Do not come to Europa’ (Non venite in Europa)  dell’allora presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, verbalizzato proprio in Grecia poco prima di firmare l’accordo della vergogna tra UE e Turchia.

I seguenti cinque anni della storia li conosciamo già, continuiamo a soffrirli e da quel fango arriviamo a questa melma.

 

Torniamo a Lesbo. Già nel 2016 Medici senza Frontiere definiva il campo di Moria “la vergogna d’Europa” ed uno dei peggiori campi di rifugiati in cui avesse mai lavorato. Cosa che può testimoniare chi lo ha visitato in varie occasioni, incontrando sempre la stessa immagine: una discarica. Ma una discarica piena di gente che cerca asilo. Ossia una discarica di diritti.

E nonostante le innumerevoli denunce pubbliche, il tempo passava ma le cose non miglioravano a Moria, anzi proprio il contrario: in questi anni la sua popolazione è aumentata progressivamente (dove ufficialmente c’era posto solo per 3.000 persone ora se ne  ammucchiano 13.000) e la situazione si degradava via via, con incendi accidentali o provocati, e con vittime mortali.

Il tutto davanti allo sguardo impotente di una popolazione locale sempre più ostile, stanca di vedere l’Unione Europea incapace di offrire una soluzione o un’alternativa, divisa tra la solidarietà verso coloro che arrivano dal mare e i tagli che arrivano da Atene.

 

Oggi, in pratica, più nessuno parla di riubicazione e il denaro serve solo per comprare più navi a Frontex e appaltare ad altri paesi la violazione, per conto nostro, dei diritti umani di coloro che migrano, lontani dagli occhi dei benpensanti europei.

 

Solo il popolo salva il popolo, ma il popolo patisce i tagli.

La solidarietà che non si trasforma in diritti, le promesse che non si traducono in politiche finiscono per generare frustrazione e stanchezza, il perfetto brodo di coltura per la guerra degli ultimi contro i penultimi, nella battaglia per risorse sempre più scarse.

Una strategia terribile perché i più poveri lottino per le briciole, fino a identificare come ‘nemico’ coloro che vengono da fuori con le mani vuote e non quelli con le mani piene che li spogliano.

Una strategia lenta e fredda ma che sta finendo per dare i suoi frutti. Nelle ultime elezioni Nuova Democrazia (partito di destra greco, n.d.t.) per la prima volta è stato il partito più votato a Lesbo, mentre non si fermano gli attacchi razzisti della popolazione locale , non solo contro i rifugiati ma anche contro le OnG che cercano di aiutarli nel vuoto lasciato dalle autorità greche ed europee.

 

Così è ora di smettere con i titoli bugiardi: Moria non è una tragica eccezione europea ma un pezzo in più nel puzzle di eccezionalità permanente che da anni la UE sta costruendo per trasformare la cosiddetta “crisi dei rifugiati” – che in realtà è una crisi dei diritti – in una situazione di saturazione costruita politicamente per poter così giustificare misure eccezionali, come la sospensione dei diritti basici e la violazione dei trattati internazionali firmati dai paesi europei.

Serva da esempio pratico quello che stiamo vedendo in questi giorni: l’incendio di Mora viene utilizzato come pretesto per costruire un nuovo campo, precario e inumano quanto quello precedente ma, questa volta, chiuso.

Le ceneri delle vetuste tende nutrono un vecchio sogno reazionario: trasformare i campi dei rifugiati in carceri. Un’aspirazione dell’ultraconservatore governo greco da quando è arrivato al potere, un anno fa, ma che solo ora trova la “finestra di opportunità” per materializzarsi, al fuoco dell’eccezionalità di una situazione drammatica per alcuni ma scusa perfetta per un giro di vite nelle sue politiche di xenofobia istituzionale, a fronte del silenzio complice delle istituzioni europee.

 

Una UE che ha già rinunciato al suo gioco ipocrita di buone parole che poi si traducono in cattive azioni.

Quando, nel marzo di quest’anno, sono nuovamente aumentati gli arrivi in Europa attraverso la rotta migratoria greco-turca, Bruxelles non ha più fatto appello, come in altre occasioni, alla presunta tradizione europea garante dei diritti per tutta la galassia. Esattamente il contrario: i presidenti del Consiglio, del Parlamento e la Commissone Europea sono stati in Grecia, a mostrare il loro appoggio alla reazione poliziesca del governo, che essi hanno definito “scudo dell’Europa”.

Un governo che stava annullando, de facto, il diritto d’asilo, gassando e sparando a coloro che cercavano di attraversare la sua frontiera, famiglie con bambini, rifiutando di salvare quelli che galleggiavano alla deriva e minacciando e provocando naufragi mortali, proteggendo gruppi fascisti che da mesi minacciano rifugiati, organizzazioni sociali ed attivisti.

Ma va bene lo stesso perché ormai sono cadute le maschere e a Bruxelles non nascondono più la priorità, assoluta e unica, di “difendere le frontiere europee”.

Almeno nessuno potrà più accampare inganni euro-riformisti di quelli che tanto abbondano tra le nostre file.

 

Le ceneri del campo di Moria sono il rogo su cui l’Europa brucia i diritti di tutti.

Un campione palpabile, un altro ancora, della deriva reazionaria europea che non solo si traduce in nuovi discorsi di odio ma in azioni concrete, dove quell’odio si trasforma in politiche pubbliche.

Perché se fino a poco tempo fa parlavamo della “lepenizzazione degli spiriti” come di quella pericolosa  capacità crescente dell’ultradestra di segnare l’agenda sociale e politica, oggi l’Europa vive una ‘lepenizzazione’ accelerata in tutta regola.

E la barbarie di Lesbo, la voragine dei diritti di Moria, le morti nell’Egeo o le pattuglie fasciste di Mitilene sono solo la sua faccia più visibile.

 

Ma non sbagliamoci di ambito: al di là dell’evidente urgenza umanitaria, la situazione di Moria e dei rifugiati di Lesbo non è solo, e neppure principalmente, una questione di solidarietà ma una disputa politica di primo piano che riguarda tutti. Moria è un sintomo, non un’eccezione. E la normalizzazione dell’eccezionalità è il cimitero del diritto e la porta d’entrata alla vera barbarie autoritaria.

 

Lesbo ci insegna anche come la lenta e cruda strategia dell’abbandono ufficiale non solo piega le volontà solidali popolari ma, poco a poco, coltiva la lotta xenofoba degli ultimi contro i penultimi.

Per questo la necessità di  far partecipare alla soluzione di questa crisi dei diritti le popolazioni locali delle zone di entrata dei migranti fa parte delle sfide pendenti, in particolare per le sinistre.

 

Le immagini delle famiglie che vivono in strada e fuggono in mezzo ai gas lacrimogeni degli agenti antisommossa sono lo spettro più visibile dei vecchi fantasmi che percorrono nuovamente l’Europa.

E la UE che li ha cresciuti ora li abbraccia ormai apertamente.

 

Ci stiamo giocando il presente ed il futuro. La crisi politica e di diritti che si vive alle frontiere e nei CIE è solo la punta dell’iceberg.

La battaglia per determinare chi ha diritto ad avere diritti è entrata in una fase determinante e fa appello ad ognuno di noi.

E’ meglio accorgersene in tempo, prima che sia troppo tardi.

 

(*) Eurodeputato spagnolo

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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