La fame nel mondo

La fame ci ucciderà prima del coronavirus

Istituto Tricontinentale di Ricerca Sociale, bollettino n. 39; da: alainet.org; 25.9.2020

 

Nell’aprile 2020, un mese dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva dichiarato la pandemia, il Programma Mondiale di Alimenti (PMA) dell’ONU avvertiva che il numero di persone che soffrivano la fame acuta nel mondo avrebbe potuto raddoppiare a fine 2020 a causa del coronavirus “a meno che non si prendano misure rapide”.  Un rapporto della Rete Mondiale Contro le Crisi Alimentari – che è composta dal PMA, dalla FAO e dall’Unione Europea – sostiene che la pandemia produrrà i livelli più alti di insicurezza alimentare dal 2017.

 

Nessuno di questi rapporti è arrivato sulle prime pagine dei giornali. Poco si dice del fatto che  questa non è una crisi di produzione di alimenti – visto che nel mondo c’è sufficiente cibo per alimentare tutti gli abitanti – ma una crisi di disuguaglianza sociale.

Questa crisi – la pandemia della fame – avrebbe dovuto attirare l’attenzione di tutti gli Stati.

Ma non è stato così. Al di là di alcuni paesi – come Cina, Vietnam, Cuba e Venezuela – si è fatto molto poco per creare programmi di alimentazione di massa  per prevenire condizioni di carestia (come avvertiva in maggio la FAO).

 

Ora che siamo nel sesto mese della pandemia, la questione della fame continua ad essere una cosa urgente. In settembre la Rete Mondiale Contro le Crisi Alimentari ha pubblicato un nuovo rapporto sull’approfondimento della crisi. Il direttore generale della FAO, Qu Dongyu, ha avvertito della “fame che si avvicina” in molte parti del mondo, in particolare in Burkina Faso, Sudan del Sud e Yemen.

Attualmente si stima che una su ogni due persone al mondo lotta contro la fame.

Nessuno dovrebbe andarsene a dormire patendo la fame.

 

Lo Yemen, che affronta una guerra senza tregua intrapresa dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (sostenuti  dall’Occidente e dai fabbricanti di armi), ha lottato contro la carestia e le locuste e del deserto (uno degli insetti più voraci al mondo, n.d.t.) e ora deve lottare contro l’enormità della pandemia.

Due giorni dopo che Qu Dongyu aveva fatto la sue avvertenza, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha fatto un appello per la fine della guerra nello Yemen. La guerra ha distrutto le strutture sanitarie del paese, ha detto Guterres, che non possono ricevere i circa 1 milione di casi di Covid-19 nel paese. La guerra “ha devastato le vite di decine di milioni di yemeniti”, ha detto.

E’ importante sapere che la popolazione dello Yemen, prima che cominciasse la guerra dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nel 2015, era di soli 28 milioni di persone; ovvero la “decina di milioni” di cui parla Guterres significa quasi tutto il popolo yemenita.

Un nuovo rapporto dell’ONU dimostra che Canada, Francia, Iran, Regno Unito e Stati Uniti continuano a sostenere questo conflitto con la vendita di armi. Bisognerebbe fare pressione sui venditori di armi sauditi e yemeniti, così come su quelli occidentali, per mettere fine alla guerra contro il popolo yemenita.

 

Ugualmente assente dalla coscienza mondiale è la guerra in corso nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), causata in grande misura dalla incommensurabile presenza di risorse del paese (come cobalto, coltan, rame, diamanti, oro, petrolio e uranio).

La guerra, le difficoltà economiche e le forti piogge hanno portato alla fame acuta 21,8 milioni di persone (su una popolazione totale di 84 milioni), situazione che si è esacerbata con l’emergenza Covid.

Gli indicatori sociali della RDC sono miserabili: il 72% della popolazione vive sotto la soglia della povertà nazionale, e il 95% non ha accesso all’elettricità. 

Sono solo due numeri ma forse la cifra più scioccante è che il valore stimato delle risorse del paese è di 24 bilioni di dollari.  Ben poco di questa ricchezza  resta al popolo del Congo.

 

Il 30 giugno 1960, quando il primo ministro Patrice Lumumba dichiarò l’indipendenza della RDC dal Belgio, disse che “l’indipendenza del Congo è un passo decisivo verso la liberazione di tutto il continente africano” e che il nuovo governo “servirà il paese”. Era la promessa del paese e del continente, ma Lumumba fu assassinato dal blocco imperialista il 17 gennaio 1961 ed il paese fu consegnato alla multinazionali.

Prima di morire Lumumba scrisse una poesia, con una speranza che continua a vivere:

Lascia che il feroce calore dell’implacabile sole di mezzogiorno

Bruci il tuo dolore!

Lascia che evaporino in eterni raggi di sole

Quelle lacrime sparse da tuo padre e da tuo nonno

Torturati fino a morire in questi campi di lutto.

 

A volte è difficile sentire quella speranza, quando nel nord della Nigeria c’è un aumento del 73% della popolazione che soffre la fame durante la pandemia; la Somalia vede un aumento del 67% e il Sudan uno del 64% (un quarto della sua popolazione soffre attualmente di fame acuta).

E il Burkina Faso, che significa “terra di gente onorata”, ha visto un aumento del 300% dei casi di fame acuta.

 

Quando Thomas Sankara diresse il Burkina Faso per quattro anni a partire dal 1983, il suo governo nazionalizzò la terra per garantirne l’accesso a coloro che la lavoravano e inaugurò progetti di forestazione e irrigazione per aumentare la produttività e combattere la desertificazione. Dopo che il governo aveva approvato la legge di riforma agraria nel 1984, Sankara fece, ad una grande assemblea contadina a Diébougou, la promessa di “migliorare la nostra terra e coltivarla in pace. E’ finito il tempo in cui la gente poteva, seduta nei suoi saloni, speculare comprando e rivendendo terre”.

Tutto questo finì quando Sankara fu assassinato nel 1987.

 

La carestia che distrugge questi paesi non è causata da mancanza di risorse.

La RDC ha 33 milioni di ettari di terra coltivabile, che potrebbero alimentare duemila milioni di persone se fossero coltivate in modo agro-ecologico; ma attualmente solo il 10% della terra fertile del paese viene coltivata. Intanto il paese spende 1.500 milioni all’anno in alimenti importati, denaro che potrebbe essere utilizzato per investire nel settore agricolo, dove il lavoro principale è fatto dalle donne contadine  (che possiedono meno del 3% della terra coltivabile).

La mancanza di potere tra i lavoratori agricoli e i contadini genera un sistema perverso che privilegia un pugno di multinazionali agroalimentari invece che le cooperative e le famiglie contadine.

 

E questo ci porta all’India. Il governo di ultra-destra di Narendra Modi è riuscito ad approvare tre progetti di legge agricoli alla Camera alta del parlamento con “votazione orale”, con i più rumorosi che gridavano più forte la loro approvazione mentre non è stato permesso il dibattito sui problemi della legge.

Questi progetti di legge hanno nomi che suggeriscono un orientamento verso i piccoli agricoltori ma invece avvieranno politiche che favoriranno le multinazionali: Legge sul commercio e prodotti agricoli (promozione e facilitazione); Legge sull’accordo di garanzia dei prezzi e dei servizi agricoli (emancipazione e protezione) e Legge sui prodotti basici essenziali (emendamento).

Queste leggi mettono tutto il sistema agricolo nelle mani dei “commercianti”, cioè delle grandi imprese  che ora stabiliranno i prezzi e le quantità.

L’assenza di un intervento del governo lascia le famiglie contadine alla mercè delle grandi corporations, il cui potere adesso praticamente non verrà più controllato.

Questo avrà un impatto negativo sulla produzione degli alimenti e certo contribuirà ad approfondire l’impoverimento dei piccoli coltivatori e dei lavoratori agricoli in India. 

Nella misura in cui aumenta la fame aumenta anche l’attacco contro coloro che lavorano la terra.

Non sorprende quindi che i contadini e i lavoratori agricoli in tutta l’India dicano che la fame li ucciderà ben prima del coronavirus.

 

Questa idea è familiare ai contadini e ai lavoratori della terra del Brasile che – come abbiamo dimostrato nel nostro dossier n. 27, ‘Riforma agraria popolare e lotta per la terra in Brasile’ -  da molto tempo lottano per democratizzare le terre.

Come il Burkina Faso di Sankara, i coraggiosi “sem terra” (senza terra)  del Brasile hanno un loro progetto: riforestare la terra che è stata avvelenata con gli agro tossici, occupare le terre non utilizzate per coltivarle in modo ecologico e forgiare “una domanda amplia per una nuova visione del paese come totalità”.

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

 

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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